Luca Rossomando
Poco meno di venti anni fa, nel gennaio del ’96, una voragine larga cinquanta metri e profonda venti si aprì in pieno giorno nel mezzo del quadrivio di Secondigliano facendo undici vittime. La tragedia era ampiamente annunciata. Per anni, durante lo scavo di una galleria sotterranea tra Miano e Arzano, in corrispondenza con l’avanzamento dei lavori si producevano cedimenti stradali, frane, lesioni ai muri dei palazzi, sgomberi di edifici. I residenti della zona inviarono esposti, denunce, richieste di accertamenti, chiamarono i vigili urbani, i pompieri, i tecnici comunali. I lavori venivano sospesi e dopo un po’ riprendevano. Fino a che non sprofondò tutto.
Nemmeno un anno dopo la terra si aprì un’altra volta in via Miano, a poca distanza dal quadrivio, ingoiando un fabbro e suo figlio sulla soglia dell’officina in cui lavoravano. Nei giorni che seguirono il crollo i parroci della zona si decisero a una presa di posizione pubblica. Il 5 gennaio del ’97, una domenica, all’ingresso di tutte le chiese della periferia nord fu distribuito un volantino dal titolo: “Non bisogna arrendersi al male. Mai!”. I parroci spiegarono nel corso dell’omelia che si trattava prima di tutto di un’esortazione. “Dobbiamo vergognarci per il nostro silenzio – dissero dall’altare –. Ora diremo ciò che dovevamo dire da sempre. Il nostro compito è denunciare le uccisioni, il lavoro nero, le condizioni spaventose dei nomadi, lo spaccio di droga, le difficoltà degli anziani e delle famiglie povere. La nostra lettera non è indirizzata solo al sindaco o al palazzo”.
Da quel giorno qualcosa cominciò a incrinarsi nel rapporto tra i napoletani e Antonio Bassolino, il sindaco trionfante a cui un sondaggio attribuiva in quel periodo un indice di gradimento dell’ottantotto per cento. Per la prima volta qualcuno azzardò delle critiche. Gli si cominciò a rimproverare di trascurare le periferie concentrando tutti gli sforzi nel centro città per attirare i turisti e abbagliare l’opinione pubblica. L’uomo che aveva costruito la sua fortuna sui simboli del cambiamento, attirando sulla sua persona tutte le energie positive che quei simboli producevano, vide messa in pericolo la sua credibilità da un evento catastrofico, ma non imprevedibile, che pur sfuggendo alla sua diretta responsabilità ne rivelava una metaforica lontananza. Una colpevole trascuratezza.
In termini concreti le rimostranze e le richieste di ascolto non influirono più di tanto sulle politiche della giunta comunale. Lo stesso cardinale di allora si diede da fare per smorzare il tono battagliero dei suoi parroci. Eppure quella giornata e le iniziative che seguirono, rappresentarono qualcosa di ugualmente importante per gli abitanti della periferia nord. Furono un grido d’orgoglio, l’assunzione di responsabilità delle guide religiose nei confronti della propria gente, la dimostrazione che attraverso l’unità e il coordinamento si poteva finalmente far sentire la propria voce a tutta la città; e naturalmente un segnale di coraggio, vista l’unanimità che circondava l’operato del sindaco e soprattutto visto l’imperversare in quei rioni delle bande camorriste.
Adesso fiumi di parole vengono spesi in morte del ragazzo Davide del rione Traiano, facendo come di consueto della marginalità una colpa da espiare e non un problema da risolvere. I coetanei di Davide sembrano non volersi rassegnare a tornare invisibili e ogni giorno escono a manifestare il proprio dolore alla città. Appaiono soli, intorno a loro nemmeno più gli scagnozzi che li tenevano a bada quando la protesta si svolgeva nel rione e rischiava di pregiudicare la tranquilla routine dello spaccio. Quei ragazzi sono l’immagine di una comunità stretta in una morsa, isolata, impotente. Sarebbe bello che emergessero oggi, a partire da quel rione e dalle sue vicinanze, persone capaci di assumere su di sé, a nome di tutti, questo dolore collettivo, chiedendo condizioni di vita più degne, affermando l’orgoglio di un’appartenenza, ma non tacendo le contraddizioni e le ambiguità. Qualcuno che avesse la forza di un’azione concorde, meditata, pubblica, per moltiplicare le voci degli abitanti dei ghetti di periferia, soprattutto quelle dei più giovani, e cercare una sponda nel resto della città, o almeno in quella parte che ne ha abbastanza dell’ipocrisia di chi si crede sempre al di sopra di ogni responsabilità.
Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 12 settembre 2014
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