Antonio di Gennaro, 10 giugno 2015

Il presidente De Luca ha dichiarato che la crisi della Terra dei fuochi è la priorità numero uno nell’agenda di lavoro del nuovo governo regionale. Si tratta di un impegno tremendamente arduo, se davvero intendiamo superare l’impasse degli ultimi due anni, nei quali l’annuncio e la comunicazione emozionale hanno prevalso sull’azione concreta, e le conoscenze acquisite non si sono trasformate in un progetto credibile di riscatto. C’è bisogno di riordinare le idee, ed affrontare freddamente il problema per quello che è, nei suoi differenti aspetti, riconoscendo che quella che continuiamo a chiamare “Terra dei fuochi” è un groviglio di questioni irrisolte: un’area metropolitana, con i suoi quattro milioni di abitanti, ancora incapace di chiudere il ciclo dei rifiuti; un paesaggio scombinato, nel quale le funzioni urbane e le attività agricole, che pure conservano un loro pregio ed una rilevanza economica e sociale, confliggono anarchicamente, invece di integrarsi.

Era stata proprio l’agricoltura metropolitana a finire per prima sul banco degli accusati, ma le indagini capillari a tutti i livelli hanno confermato l’elevata qualità e sicurezza dei prodotti della piana campana, attualmente la più controllata d’Italia. Ma questo non basta, perché non sono purtroppo sufficienti le migliaia di certificati di laboratorio che abbiamo prodotto per ristabilire la reputazione di un’area, se il paesaggio  e il territorio nel loro insieme non sono credibili, se il disordine, il degrado, lo smarrimento dell’identità dei luoghi continuano a rappresentare la cifra e l’atmosfera dominante.

La cosa da fare è intraprendere una cura sistematica delle ferite inferte all’ecosistema e al paesaggio, tutte criticità che in questi ultimi due anni sono state meticolosamente identificate e cartografate, a partire dalle discariche, le “aree vaste” della piana tra Napoli e Caserta, che per un trentennio hanno recepito l’immane flusso di rifiuti urbani e industriali, nostrani e d’importazione, ecoballe comprese. Si tratta di poche centinaia di ettari sui 140mila complessivi della piana, e per queste aree il modello non può essere quello inconcludente di Bagnoli, di una bonifica spendacciona ed opaca, a tempo indeterminato; ma piuttosto, quello sobrio di messa in sicurezza, che è poi l’approccio pragmatico con il quale, nelle nazioni avanzate, queste cose sono state rapidamente affrontate e risolte, anche con l’aiuto di tecniche biologiche a basso costo,  basate sull’impiego di piante e microrganismi per pulire i suoli, con il vantaggio di restituirli poi all’agricoltura, recuperando quanto possiamo del paesaggio e del perduto senso dei luoghi.

Ventiquattro mesi sono un orizzonte temporale verosimile per affrontare e risolvere definitivamente la questione, se solo si recupera il deficit che ci ha paralizzati sino ad oggi, che è un deficit di direzione politica e amministrativa. Al posto dello sterile pseudo-coordinamento governativo, occorre che Regione Campania prenda sulle proprie spalle la responsabilità per intero, assuma il controllo dell’intera filiera operativa, e riammagli finalmente, con risorse ed energie proprie, l’azione scollegata dei diversi settori amministrativi – in campo ambientale, sanitario e agricolo – sino ad oggi in grado di dare risposte parziali, esclusivamente burocratiche ai problemi. In questa prospettiva, è evidente, non esiste più Terra dei fuochi, ma un territorio da rimettere in sesto, la terza area metropolitana del paese, con i suoi abitanti, i suoi agricoltori, un paesaggio straordinario, con tremila anni di storia e civiltà.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 16 giugno 2015, con il titolo: “Ecco come cancellare la Terra dei fuochi”