Antonio di Gennaro, 24 ottobre 2015

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Ce l’hanno fatta vedere solo dall’alto in questi vent’anni l’area industriale, dalla curva di Posillipo, liberarsi progressivamente degli impianti, i sedimi ormai vuoti rinverdirsi d’erba e di cespugli, trasformati in campi aperti verso chissà quale futuro. Solo dall’alto l’abbiamo abitata, come una terra espropriata, cinta tutt’intorno da un muro invalicabile. Se dovessi indicare un’immagine che riassume per intero la vicenda di Bagnoli, sceglierei proprio quel muro che la racchiude ancora, coi murales che scolorano, ed è l’unica cosa che non cambia.

Prima il muro serviva a proteggere il lavoro, a separare la città dalla fabbrica, le case degli uomini dalla fucina tremenda dell’acciaio. Poi quel muro divenne il guardiano della bonifica, attività misteriosa e complessa, che doveva liberare terre e acque dai veleni dell’industria, preparandole ad una nuova vita. Alla fine, quello stesso muro, si è trasformato in custode giudiziario dell’area, nel frattempo sequestrata dalla magistratura, che in quella bonifica vuole vederci chiaro. Per la città il risultato non cambia, c’è sempre un muro tra noi e Bagnoli, è impossibile vedere, impossibile sapere, è una faccenda che non ci riguarda.

Negli altri posti del mondo dove queste cose sono state fatte con successo, a partire dall’abusato esempio della Ruhr, il recupero delle aree minerarie e industriali è sempre stato una grande attività sociale, dove la conoscenza, la trasparenza, il coinvolgimento delle persone non erano perdite di tempo, ma garanzia di risultato. Per Bagnoli, invece, un rapporto periodico alla città sul recupero dell’area non è mai stato fatto, ed allora il muro che impedisce l’accesso simboleggia anche questo, l’impossibilità per i cittadini di conoscere, di essere informati sui lavori in corso, sull’avanzamento delle operazioni.

Quello che si è capito mettendo insieme le informazioni che pure trapelano, è che l’area della fabbrica non è quel crogiuolo di veleni che ci hanno raccontato. Anche la costosa barriera idraulica che è stata realizzata, serve alla fine per l’inutile depurazione di una falda tendenzialmente pulita, che rientra già nei limiti di legge, se si considera che Bagnoli è un’area termale, che qui le tabelle del decreto 152 valgono fino a un certo punto, e bisogna invece guardare ai valori di fondo naturali. In un gioco a perdere, invece, l’acqua già pulita viene inutilmente depurata, finendo poi nel circuito fognario, anziché a mare, con il risultato di affaticare ancor di più la rete e il mal messo impianto di Cuma.

E’ questo solo un aspetto di un’attività di bonifica, a ferrea regia ministeriale, che è poco definire opaca e farraginosa. Un’attività costata all’erario alcune centinaia di milioni, tutta basata su astratte tabelle, anziché su serie analisi di rischio, e il cui completamento è ancora posto come precondizione per il recupero urbanistico, che la città sfiduciata aspetta, e che in realtà non è mai iniziato, mentre continuano le indagini, le analisi, gli approfondimenti, e il muro scrostato rimane a presidio dell’oscurità e del mistero.

Vallo allora a raccontare che una parte consistente delle nuove cubature previste dal piano, circa la metà, è su suoli di proprietà pubblica, che non hanno bisogno di bonifica, e si potrebbe finalmente passare alla trasformazione, accompagnando le previsioni urbanistiche astratte con quella strategia di attuazione che non c’è stata mai, magari articolando in segmenti più maneggevoli il grande progetto di recupero, definendo per ciascuno di essi tempi e priorità.

Prima di questo, però, è venuto il momento di abbatterlo una volta per tutte quel benedetto muro, di riconoscere finalmente alla città diritto di accesso ai luoghi, alle conoscenze, alle scelte. Altri muri simbolo del ‘900, ben più famosi, sono caduti, sarebbe ora che questo succedesse anche a Bagnoli. Dobbiamo poter calpestare quelle terre, respirarne l’aria, un’esperienza che già cosi è da mozzare il fiato, ti arricchisce di idee, di fiducia, ti da il senso che quella terra è tua, e che possiamo farcela.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 1 novembre 2015