s. giorgio

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 28 maggio 2016

Anche la Campania ha il suo West – i suoi spazi sconfinati, gli altopiani d’erba che non vedi una casa fino all’orizzonte – solo che è a oriente: devi uscire dalla conca ordinata di Benevento, ed entrare nel Fortore, il mondo del flysch e delle argille: il Mezzogiorno nudo, del latifondo contadino, come lo chiamava Rossi- Doria, contrapposto alle terre arborate della prima cerchia collinare, ricamate di viti, olivi e piante da frutto.

Il Fortore è una successione strepitosa di altopiani a perdita d’occhio, incisi da torrenti vorticosi, coi centri medioevali arroccati sui cucuzzoli di calcare e arenaria, gli unici punti in questi paesaggi epici che stiano fermi, che non si muovano verso valle. Certo, l’olivo c’è ancora, ma è solo una corona intorno all’abitato, poi è un mare di grano e di erba, con i boschi scuri di quercia – ciò che resta dell’immensa foresta cinquecentesca – a protezione dei versanti troppo ripidi per fare agricoltura.

Sono venuto a San Giorgio la Molara, il centro geografico del Fortore, in una giornata di pioggia e nuvole basse, non importa che siamo a metà maggio, per raccontare ancora una storia di fatiche e affermazioni, in queste terre difficili, che il ministero dello Sviluppo economico identifica come “aree interne”, sarebbe a dire quei pezzi di Paese troppo distanti dalla città, dove la dotazione dei servizi essenziali è più labile, il declino e lo spopolamento più difficili da arrestare. In barba alla classificazione del ministero, San Giorgio la Molara è invece uno dei centri più importanti in Italia per l’allevamento della Marchigiana, una delle tre razze bovine storiche, con la Chianina e la Romagnola, comprese nel marchio di qualità del “Vitellone bianco dell’Appennino centrale”, sarebbe a dire l’esclusivo club della bistecca più buona d’Italia.

Mi accompagna nel viaggio Nicola De Leonardis, direttore tecnico della cooperativa di allevatori “S. Giorgio”, con cento aziende associate, seimila capi allevati, che mi racconta a voce bassa, col fare pacato degli zootecnici di razza, come tutto il paesaggio che ci circonda lavori per l’alimentazione dei prestigiosi animali: un mosaico verde di erbai polifiti, campi di orzo, grano duro, avena, e sulla dai fiori scarlatti, perché la marchigiana di San Giorgio non mangia insilato di mais, che renderebbe acquose le carni, ed è esclusivamente alimentata con fieni profumati e foraggi locali. La fase di finissaggio poi, quella più importante per la marezzatura e la tenerezza della carne, è tutta basata su una dieta ricca di granella di cereali e luguminose.

Ma non sono solo le virtù di un allevamento e un’alimentazione naturale: alla base del successo degli allevatori di San Giorgio c’è la ricerca, un lavoro instancabile di miglioramento della razza che in queste terre è iniziato quindici secoli fa, a partire dal Bos Primigenius, il grande bovino dalle corna lunghe che gli Unni portarono con sé dalle fredde steppe d’Ucraina. L’opera di selezione ed incroci mirati è ripresa su basi moderne a partire dalla metà del ‘900, per merito di allevatori come Giovanni Belperio, che ci accompagna orgoglioso in stalla a visitare i suoi campioni, i tori mastodontici e le fattrici, tutti esemplari dalla morfologia armoniosa, elegante, come le pitture rupestri di Altamira e Lauscaux. I vitelli sono accanto alle madri, che non si agitano al nostro arrivo, e Giovanni mi spiega orgoglioso come anche il carattere mansueto, determinante per la qualità delle carni, sia il risultato del lavoro pignolo di selezione. Giovanni ha modi semplici, garbati, è un allevatore, ma nella zootecnia italiana è un’autorità, i ricercatori accademici lo ascoltano, vengono qui in azienda per apprendere e studiare il suo modo di lavorare.

Gli allevatori di San Giorgio andrebbero studiati anche per un’altra ragione, perché l’affermazione di questo sistema zootecnico di eccellenza, intorno al quale ruota adesso un intero paesaggio, è il frutto di una coraggiosa riconversione produttiva, dal tabacco che per decenni è stata la ricchezza di queste aree – grazie anche ad un fin troppo generoso sistema di aiuti comunitari – alla zootecnia.

Gli agricoltori di San Giorgio hanno compreso per tempo che questa situazione andava ad esaurirsi, e anticipando i tempi, hanno investito i proventi del tabacco nella costruzione delle stalle, puntando sulla zootecnia di qualità. Insomma, un dinamismo, una capacità di reazione di tutto un territorio, che con l’etichetta triste di “aree interne” sembrerebbe avere poco a che fare. Non per nulla, l’età media dei soci della cooperativa è di 44 anni, più di una decina in meno della media regionale, che è poco sotto la sessantina, con tutta la propensione all’investimento e all’innovazione che la giovane età comporta.

Nel pomeriggio torna l’azzurro, si fa più intenso il verde dei pianori, e più bianche le torri eoliche, che gli spazi aperti di questi paesaggi indifesi hanno finito per conquistare. Ora traversiamo il Regio tratturo, la grande autostrada d’erba della transumanza, che i Sanniti tracciarono duemilacinquecento anni fa, e qui a San Giorgio è ancora chiaramente distinguibile. La storia che Nicola continua a raccontarmi, è poco nota agli abitanti della grande città costiera, troppo distante da queste terre di mezzo, sospese tra il Tirreno e l’Adriatico. Come accade per altre importanti produzioni regionali, le bistecche e le carni pregiate della marchigiana del Fortore prendono altre vie, sono indirizzate in prevalenza ai mercati del centro- nord, più che ai consumatori campani, ed è proprio il mercato interno regionale, la nuova frontiera che gli allevatori di San Giorgio vorrebbero ora conquistare.

Torniamo agli uffici della cooperativa, nella piazzetta in cima al paese, sotto i bastioni di ciò che rimane dell’antica rocca, c’è il belvedere che domina tutta la valle, ed è una processione continua di allevatori, uomini e donne, che vengono per il disbrigo delle pratiche, i problemi tecnici dell’allevamento, i controlli di qualità, chiedono di Nicola, lui ha una parola e un consiglio per tutti, veramente la zootecnia è l’infrastruttura che tiene unità questa comunità. Delle circa quattrocento aziende iscritte in Campania al consorzio di tutela del Vitellone bianco, 350 sono in provincia di Benevento, 121 nel solo comune di San Giorgio la Molara: qui dietro ogni stalla c’è una famiglia, ed è il Vitellone l’industria diffusa che assicura reddito e lavoro.

Il paese è lindo, ordinato, come il paesaggio che la comunità continua a curare, nonostante le frane e i cedimenti. La città è lontana, internet va a singhiozzo, la carovana del Giro d’Italia è passata, ma è stato un attimo, ora è solo il rumore del vento. Il ministero e Bruxelles dicono che queste sono aree in ritardo di sviluppo, ma il marchio della cooperativa è la bandiera italiana, questa comunità non si è fermata, continua a sentirsi parte di una storia, che varrebbe la pena di conoscere meglio.

La Campania delle città ha bisogno del suo West, degli spazi sconfinati, di questa capacità ostinata di costruire lavoro e conoscenza, in mezzo all’Appennino verde e difficile, che è certamente parte del nostro passato ma anche, a pensarci bene, uno spiraglio importante di futuro.