Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 26 giugno 2016
Se vuoi davvero sapere com’è andata, devi osservare le fotografie aeree fatte negli anni ’50 per i controlli del Piano Marshall: il Cilento appare spoglio d’alberi e boschi, una teoria di colline rasate di grano e pascoli, ogni metro di terra è utilizzato, e c’era ancora la gente. Poi il paesaggio s’è svuotato d’uomini, partiti per Milano, Torino, la Germania, in cerca di futuro, e il bosco è tornato sulle terre abbandonate, gli oliveti sono diventati a poco a poco isole, in mezzo a un mare di macchia mediterranea e cespi flessuosi di ampelodesma. “Il problema” mi spiega Peppino Cilento “è che se parte un incendio sulla costa, si propaga in un attimo fino alla montagna, così possono bruciare centinaia di ettari di macchia in una volta sola”.
Lo incontro a San Mauro, nella sede della cooperativa “Nuovo Cilento”, che lui ha fondato nel 1976. L’idea gli venne in Veneto, a Treviso, dove era giovane professore di lettere: la mattina era a scuola, la sera con il sindacato lavorava ai corsi delle centocinquanta ore per i lavoratori. A Conegliano conosce i viticoltori, riuniti da decenni in cooperative, si convince che può essere quella la strada per far ripartire l’agricoltura in Cilento, per contrastare l’esodo e tenere viva la terra.
Lo scorso febbraio c’è stata la festa per i primi quarant’anni di attività: oggi la “Nuovo Cilento” è il più grande frantoio della Campania, lavora ventiseimila quintali d’olive l’anno; con 360 soci e millecinquecento ettari di oliveto, è il principale produttore italiano di olio extravergine biologico. L’inizio non fu facile, Peppino mi racconta che ci vollero tre anni per acquistare il primo trattore, allora si arava ancora coi buoi, in quel “medioevo lungo” teorizzato dall’archeologo Riccardo Francovich, che nelle campagne del meridione può arrivare fino al ‘900.
L’agricoltura montana del Cilento per sopravvivere ha bisogno di meccanizzarsi, ma Peppino si rende conto che le macchine sul mercato non sono adatte ai paesaggi cilentani, perché obbligano a lavorare a “rittochino”, lungo la linea di massima pendenza, altrimenti ti ribalti, ma così il suolo si erode in fretta. Non si perde d’animo, va alla fiera di Bologna, ne parla col presidente dei costruttori di macchine agricole, che gli dà conferma: effettivamente i modelli sono pensati per la pianura e per il mercato estero, la collina e la montagna, che fanno l’80% del territorio nazionale, non sono prese in considerazione. Alla fine Peppino la spunta, e convince un’industria di Vicenza a progettare una trattrice radiocomandata, di forma, dimensioni e potenza adatte ai versanti collinari del Cilento.
La cura del suolo è la base di tutti i ragionamenti di Peppino. Qui in collina, per evitare che l’erosione disperda il capitale di fertilità, è necessario che il suolo rimanga quanto più possibile protetto, e sia adeguatamente nutrito di humus. Così, ha chiamato dalla Colombia, in quello che lui definisce sorridendo “un programma di aiuti dell’America latina alla vecchia Europa”, Jairo Restrepo Rivera, grande esperto di agricoltura organica, che ha insegnato agli agricoltori della cooperativa a trasformare le sanse – i residui della spremitura delle olive – in un compost profumato come terra di bosco, con una ricetta a base di letame, frasche triturate, carbone vegetale, lieviti particolari. Il terriccio viene somministrato agli olivi, al posto dei concimi minerali, e gli effetti sono strabilianti, le piante affaticate ritrovano vigore ed equilibrio, la concentrazione di antiossidanti nell’olio – i polifenoli e i tocoferoli, che sono i fattori di protezione buoni, il vero tesoro della dieta mediterranea – schizza alle stelle.
Chiedo a Peppino cosa pensi della proposta dello storico Piero Bevilacqua, di profittare dell’immigrazione per rivitalizzare i borghi delle aree rurali in spopolamento, lui mi risponde che da loro è già così, l’agricoltura a San Mauro è stata salvata da una colonia di pakistani del Punjab, e mi presenta Shengara, un giovane dal sorriso candido, che ora è una delle colonne del frantoio, non sta fermo un attimo, nelle pause del lavoro si dedica all’ingegneria naturalistica, realizza sentieri e graticciate.
Questa chiusura isterica al Sud del mondo Peppino non riesce proprio a comprenderla: “Le associazioni italiane hanno sbraitato quando la Commissione ha autorizzato l’importazione di trentacinquemila tonnellate di olio extravergine dalla Tunisia, quando l’Italia ne importa quindici volte tanto dalla Spagna. E’ un protezionismo che rischia di colorarsi di razzismo, è come se la Fiat dicesse che vende poco per colpa della Toyota. Per stare bene sul mercato non devi lamentarti ma aumentare la qualità, vedi l’esempio del vino, che ha saputo raccogliere la sfida, affidandosi al giudizio di consumatori sempre più competenti”.
Giuseppe Cilento è stato a lungo presidente della cooperativa, ed anche sindaco di S. Mauro: nella lunga storia di leader di comunità ha raccolto, com’è nelle cose umane, affermazioni importanti, assieme a insuccessi e amarezze. Il cruccio è che, nonostante la “Nuovo Cilento” sia oramai una realtà importante, il declino demografico continua, il territorio del Parco Nazionale dei Cilento ha perso ancora tremila abitanti negli ultimi cinque anni, mentre un turismo frettoloso continua a spremere il paesaggio come un limone, le aree urbanizzate sono decuplicate nell’ultimo cinquantennio, l’attività amministrativa del Parco e dei comuni è assorbita dall’edilizia, piuttosto che dal governo del territorio e dal rilancio delle economie locali.
Peppino, all’opposto, ha scelto di mettere al centro della sua strategia le ragioni dell’ecosistema e della comunità. In un’agricoltura nella quale sono le macchine a dettare la forma dei paesaggi, lui è riuscito, all’opposto, a farsi dare le macchine adatte a mantenere il paesaggio così come lo vede lui. Nel suo racconto cita più volte la “Laudato si”, l’enciclica sull’ambiente di papa Francesco; ricorda i momenti di lavoro con Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica assassinato, che a un certo punto è come fosse seduto a tavola con noi.
Passeggiamo in oliveto, nel pomeriggio, su un tappeto profumato di sulla e di veccia, le leguminose buone che danno l’azoto al suolo; intorno a noi è tutto un volo di rondini, libellule, farfalle colore dello zolfo. L’ecosistema è vivo, il sorriso di Geppino ha una piega amara: “Ci vuole tempo perché la gente accetti le innovazioni, occorre pazienza, bisogna contare sulla capacità persuasiva dei risultati”. Lo ascolto e penso che la forza è possente in questo professore-contadino dai capelli candidi, che si ostina a immaginare un riscatto possibile per questo suo Cilento, docile e resistente insieme, come la pietra calda d’arenaria alla quale adesso mi afferro con la mano.
2 commenti
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29/06/2016 a 11:35
raffaele
Grazie Antonio e Peppino, amici agronomi-paesaggisti e professori-contadini. Ma soprattutto poeti, dall’occhio vivo e dal sorriso amaro, con la forza instancabile di chi ama quello che fa e cerca di fare quello che ama.
Un abbraccio, Raffaele Sacchi
20/07/2016 a 09:34
antonio di gennaro
Carissimo Raffaele, leggo solo ora. Commosso. Antonio