dentro-istanbul

Social batte tank nella notte tragica

Lucio Caracciolo, la Repubblica 17 luglio 2016

C’era una volta l’esercito turco, campione mondiale di golpe. Venerdì sera gli epigoni di quella tradizione si sono cimentati in un farsesco remake che, non fosse per la scia di sangue e per le imprevedibili conseguenze geopolitiche, parrebbe una riuscita imitazione di Vogliamo i colonnelli, il non troppo fantapolitico film diretto nel 1973 da Mario Monicelli. Nelle scuole di intelligence, dove i colpi di Stato veri si studiano e si preparano, questi ufficiali turchi sarebbero finiti dietro la lavagna. Probabilmente serviranno da caso di studio: il contromodello perfetto, l’esempio di come non si deve azzardare un golpe.

Gli aspiranti tirannicidi di Ankara hanno sbagliato secolo. Sono rimasti alla belle époque del secondo Novecento, quando per “riportare l’ordine” bastava prendere possesso dei pochi, visibili gangli vitali del regime vigente, arrestarne i capi e spaventarne i sostenitori, se necessario (ma non sempre) sparando. Oggi, pensare di prendere il potere schierando qualche carro armato in alcuni crocevia strategici di Istanbul, bombardando il parlamento e costringendo una terrea speaker della tv di Stato a leggere un vago proclama, significa votarsi alla più disonorevole delle sconfitte.

Il catalogo degli errori (quello degli orrori è appena abbozzato, in attesa della vendetta di Erdogan, che si annuncia sanguinosa) è il seguente.

Primo: in un paese moderno, vivace e interconnesso o riesci a mobilitare subito il popolo, oppure il tuo golpe è abortito. Valga il caso egiziano del generale al-Sisi, il quale prima di rovesciare il legittimo presidente Morsi si era assicurato il supporto di una vasta e assai mediatizzata piazza. Nell’era delle tv private e dei social network, un’annunciatrice che parla dal canale pubblico suona come l’arpa in una banda di ottoni. Il parziale blocco di Facebook, Twitter e YouTube è durato appena un paio d’ore. Per tutta la notte le tv private hanno trasmesso in diretta i video postati sui social network dai cittadini che filmavano le violenze e i bombardamenti dei golpisti.

Secondo: il capo nemico va subito preso e neutralizzato. Il pensiero corre ancora al 1973, quando gli uomini di Pinochet puntarono sulla Moneda e liquidarono (o spinsero al suicidio) il presidente Allende. Evidentemente i pianificatori della sollevazione turca non erano bene informati sul rifugio di Erdogan. O non hanno avuto la forza di prenderlo. Sicché il presidente ha potuto rivolgersi al paese in videochiamata FaceTime, banalissima app collegata a Internet. È bastato l’appello del leader per mobilitare masse di manifestanti, specie nella sua roccaforte di Ankara. Il fatto che tutti i partiti, anche i più ostili al sultano, si siano più o meno sinceramente schierati contro i golpisti ha contribuito a isolarli.

Terzo: un capo si sostituisce con un altro capo. Non pare che i molti colonnelli e i pochi generali disponessero di un leader, forse nemmeno di un improvvisato direttore d’orchestra. Oppure costui era talmente impresentabile da non osare mostrarsi. Errore già commesso dai golpisti tardobolscevichi dell’agosto 1991, quando vollero imporre il triste, sconosciuto Janaev sulla sedia di Gorbaciov. In ogni caso, un colpo di Stato turco senza nemmeno una testa di turco è pretendere troppo.

Quarto: se fai un golpe militare devi poter contare sui militari. Almeno su alcuni reparti decisivi. La parte sostanziale delle Forze Armate non ha partecipato alla ribellione, restando in attesa degli eventi o schierandosi con il presidente. All’interno delle diverse armi sono emerse linee di frattura ed esitazioni. Di qui l’umiliazione di militari superarmati e addestrati che si fanno disarmare e arrestare dalla polizia. Quinto: sembra che i golpisti turchi si siano fidati della malcelata simpatia dei colleghi occidentali, alleati Nato. I quali si sono guardati dal mettere un dito nell’ingranaggio, ma certo non hanno scoraggiato gli insorti. È difficile immaginare che gli americani non abbiano visto muoversi le colonne corazzate turche qualche ora prima del golpe. Nessun alleato si è sognato di avvertire Erdogan del pericolo. Le prime reazioni delle capitali atlantiche, Roma compresa, ad “iniziativa militare” in corso, sono state tiepide se non gelide nei confronti del presidente turco. Senza curarsi di troppo mascherare la speranza di sbarazzarsi dell’inaffidabile sultano, fresco dell’ennesima “svolta” che lo ha riavvicinato a Putin. Torna ancora alla mente il golpe contro Gorbaciov, con i leader di mezzo Occidente a tifare privatamente per i «salvatori dell’Unione Sovietica ». Sommando questi e altri errori — di norma i golpe riescono meglio all’alba, non all’ora del dessert, quando la gente è sveglia e i media crepitano — i dietrologi sentenziano che non fu vero colpo di Stato, ma finto autogolpe. Erdogan si è inventato tutto per eliminare i suoi nemici? Se così fosse meriterebbe di correre per l’Oscar, vista la sua espressione mentre si affannava a mobilitare via iPhone masse di adoratori. Meglio stare ai fatti palesi, che svelano la disperata incompetenza di un pugno di militari. Come avrebbe fatto dire Monicelli a un aspirante golpista del venerdì sera: «Anche i colonnelli turchi ogni tanto arronzano ».

 

Il dolore di Elif Shafak “Dopo il golpe meno diritti ora l’Europa è più lontana”

Marco Ansaldo, la Repubblica 19 luglio 2016

«Ogni colpo di Stato ha frantumato la democrazia e creato enormi violazioni dei diritti umani. E questo orribile, sanguinoso golpe, con la reazione successiva del governo, pone la Turchia non in Europa, ma in Medio Oriente ».

Elif Shafak, la scrittrice più venduta nel Paese, appare davvero abbattuta: «Sono tempi molto, molto turbolenti per la mia patria», dice in questa intervista a Repubblica.

«Ma voglio essere chiara — aggiunge — sono totalmente contro a questo golpe, ha solo peggiorato tutto».

C’è però chi ha molti dubbi proprio sulla sua dinamica: in tanti si chiedono se sia stato per caso un golpe autoprodotto. Possibile?

«No, non penso che il governo lo abbia organizzato. E non dobbiamo cercare di vedere gli eventi attraverso teorie cospirative. Il golpe è stato reale e, secondo me, una cosa terribile: in una sola notte sono morte centinaia di persone, il Parlamento bombardato. Ma il Parlamento è il cuore della democrazia di un Paese, come può essere bombardato? Questo è inaccettabile ».

Per le strade ora si vedono i lealisti islamici sventolare la bandiera nazionale con la mezzaluna e la stella. Quella stessa che, per decenni, è sempre stato il simbolo brandito da laici e nazionalisti. La bandiera appartiene a tutti, d’accordo. Ma non è significativo questo passaggio di mano?

«Ora tutti reagiscono in modo emotivo. Il tentativo di golpe è stato uno shock. E la gente è scossa nel profondo. Da una parte è ammirevole che i cittadini si siano riversati nelle strade per fermare i carri armati. Dall’altra, a me preoccupa la cosiddetta ‘psicologia delle masse’».

Che cosa intende?

«Che vedo una crescita di nazionalismo, mascolinità, religiosità, intolleranza… E la “psicologia delle masse” può essere un effetto molto pericoloso ».

Ma allora i laici qui dove devono guardare, a chi devono credere?

«Come cittadini democratici la nostra posizione qui è la più solitaria, la più triste. Tutti quelli che credono nei valori della democrazia hanno criticato il tentato colpo di Stato. Nessuno lo ha sostenuto. Siamo contrari sia ai golpe militari sia all’autoritarismo. E sono molto preoccupata che il governo del partito al potere possa ora diventare ancora più dominante. Tutto sarà peggio. L’unica alternativa è tornare alla democrazia: sostenere il pluralismo, la libertà di parola. E i diritti umani, appunto».

Ma non pensa che l’esperienza della rivolta di Gezi Park, nel 2013, poi repressa nel sangue, possa tornare in qualche modo?

«In queste circostanze non mi aspetto una ribellione simile. I democratici e i liberali sono troppo soli, sono troppo pochi. Siamo la minoranza più triste, in questo Paese».

A lei che è molto attenta agli aspetti della comunicazione, non le è parso interessante vedere come il Presidente che odia e si oppone ai social media, abbia poi usato Facetime per lanciare l’appello alla resistenza popolare, e salvarsi mentre pareva spacciato?

«È molto ironico. Il governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo e il Capo dello Stato hanno colpito, controllato e soppresso i social media così tante volte in passato. Hanno portato in tribunale la gente per commenti fatti su Facebook o Twitter. Hanno monitorato i social media, lasciando davvero poco spazio alla libertà di parola. Però, nella notte del tentato golpe, lo stesso governo ha dovuto usare i social media. Ripeto, lo trovo davvero molto ironico».

Perché?

«Perché è stata una lezione di democrazia liberale. Persino i politici autoritari in Turchia, e nel mondo, possono un giorno avere bisogno delle libertà fondamentali che sistematicamente soffocano. Dopo tutto, ognuno ha bisogno delle libertà democratiche. Ma temo che la Turchia non abbia imparato questa lezione ».