Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 25 novembre 2016
Secondo l’Oxford Dictionary la parola dell’anno per il 2016 è “post verità” (post truth), dove “post” sta proprio per “dopo, oltre”. Secondo il prestigioso dizionario si parla di “post verità” in tutte le “circostanze nelle quali i fatti oggettivi risultano meno influenti nel modellare la pubblica opinione rispetto all’istanza delle emozioni e delle credenze personali”.
Dietro l’affermazione del termine “post verità” ci sono evidentemente avvenimenti precisi che hanno contraddistinto l’anno che volge al termine, che sono innanzitutto le due campagne elettorali per la Brexit e le presidenziali americane, ambedue vinte, a dispetto dei pronostici, sulla base di affermazioni e slogan che per oltre il 60% dei casi non hanno poi retto il fact checking, la verifica dei fatti, ma questo importa poco, perché quello che conta è l’affermazione di uno stato d’animo diffuso, incontenibile, che come un fiume carsico riemerge e travolge tutto, infischiandosene altamente del principio di realtà e del senso critico.
Naturalmente, c’è anche chi dice che c’è poco di nuovo in quello che sta succedendo, che di post verità, se proprio si vuole proprio chiamarla così, la politica e la comunicazione pubblica si sono sempre nutrite, dai tempi del discorso di Pericle agli ateniesi, fino alla propaganda e alla pubblicità commerciale dei nostri giorni. Se proprio vogliamo cogliere elementi importanti di novità, è al potere straordinario conferito alla post verità dai social e dal web che dobbiamo allora guardare, e alla capacità che questi strumenti hanno di diffondere viralmente questa comunicazione emozionale, plasmando atteggiamenti e comportamenti in modo evidentemente non controllabile e prevedibile dai politici e sondaggisti vecchia maniera.
Sia quel che sia, i redattori dell’Oxford Dictionary sono incorsi in un errore non da poco, perché non sono stati Nigel Farage e Donald Trump i primi a cavalcare strumentalmente la post verità, ma noi poveri abitanti della Piana campana, con la nostra “Terra dei fuochi”, che pure è stata, a pensarci bene, una tempesta socio-emozionale che si è affermata globalmente grazie anche al web, in grado di mobilitare le coscienze, al di là di ogni ragionevole verifica dei fatti.
Sulla dimensione internazionale del fenomeno, discutevo proprio ieri con un giovane leader dei comitati, che mi raccontava con un certo compiacimento di come siano ormai numerosi i dipartimenti di scienze sociali europei che studiano con interesse il movimento di liberazione ambientale che è nato intorno alla terra dei fuochi, proponendolo come riferimento a scala mondiale.
Lasciando perdere i sociologi scozzesi, continuo a ritenere che la generosità e l’impegno di questi ragazzi rappresentino un’energia positiva, un motore di cambiamento. Solo, ho provato a far osservare al mio entusiasta interlocutore come questo potenziale vada incanalato, facendo poi le domande giuste, nel senso che il governo di Roma sarà sempre ben contento di erogare qualche decina di milioni per bonifiche placebo, se questo gli consente di non impegnarsi per risolvere, con politiche serie, il surplus di povertà, e il drammatico deficit di servizi essenziali, che rappresentano la vera emergenza dell’area metropolitana, e la causa principale, secondo tutti gli esperti in materia di salute pubblica, dei due anni e mezzo di aspettativa di vita che ci mancano rispetto alla media nazionale.
Insomma, la post verità è una nostra vecchia conoscenza, e su questa strada stiamo pure sperimentando cose nuove. A inizio novembre, infatti, la magistratura aveva dissequestrato i suoli agricoli di Caivano, riconoscendo finalmente che lo sforamento di alcuni valori era dovuto al fondo naturale, alla loro costituzione intrinseca. Ora, l’ASL2, non evidentemente appagata da tali conclusioni, ha intimato l’amministrazione comunale di interdire nuovamente quei suoli, per la presenza di alcuni inquinanti organici, appellandosi al principio di precauzione.
Ai tecnici dell’ASL bisognerebbe a questo punto ricordare che i rifiuti non c’entrano niente, si tratta di sostanze che nei suoli di un’area metropolitana possono esserci finiti per tutta una serie di motivi, e che comunque non sono assolutamente presenti nei prodotti che finiscono sulle nostre tavole. Insomma, di rischi concreti per la salute non c’è nemmeno l’ombra, ma il combinato disposto di una post verità (la frutta e la verdura avvelenate dai rifiuti), e del principio di precauzione (al quale sarebbe meglio ricorrere con un po’ più di precauzione, appunto), ci respinge nel medioevo più buio, in una dimensione dove non sono i dati, i fatti, il confronto critico ad avere la meglio, ma la forza irrefrenabile di uno slogan, di un’emozione.
2 commenti
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25/11/2016 a 19:22
Massimo Paolanti
Antonio leggo con vivo interesse i tuoi articoli. Il suolo sempre di più si trova al centro dell’interesse pubblico. Dovrebbe essere un bene, se non che spesso ci si “tuffano” soggetti che improvvisano. Forse potrebbe essere un bene, interfacciarsi e non scontrarsi e subire. Questo è un ruolo che dovrebbe spettare alla divulgazione scientifica, la quale diciamo eufemisticamente ha qualche evidente problema a interfacciarsi con i problemi reali del governo, in senso lato, del territorio. La Regione Campania, sta ripartendo forse, per predisporre una banca dati dei suoli regionale. Si tratta, al di la del potere informativo diretto per problemi spesso di scala di maggior dettaglio, di uno strumento che afferma simbolicamente che esiste un sapere formalizzato sui suoli e che quando si affronta il tema con quello occorre confrontarsi, approfondendo dove occorre approfondire. Un saluto Massimo Paolanti.
25/11/2016 a 21:45
antonio di gennaro
Caro Massimo, grazie! concordo pienamente con le tue osservazioni. A presto, Antonio