Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 1 febbraio 2017
La terra sta ferma, le persone invece, se possono, si spostano incontro alle opportunità, ed allora nei giorni scorsi si è discusso su questo giornale dei dati demografici preoccupanti che riguardano la città di Napoli, che ha perso duemilatrecento abitanti nell’ultimo anno, ventiseimila nell’ultimo decennio, come se fosse andata via tutta insieme una città come Pompei. Il ridimensionamento demografico di Napoli non è cosa nuova, come ha raccontato Pasquale Coppola va avanti dalla metà del ‘900: all’inizio degli anni ’60, a Napoli abitava più della metà della popolazione della provincia, era il socio di maggioranza; ora il capoluogo conta meno di un terzo degli abitanti della neonata città metropolitana, il baricentro si è spostato decisamente verso l’hinterland.
D’altro canto, non occorrono i bollettini statistici per rendersi conto dell’esodo, basta la storia delle nostre famiglie: ieri sera a cena da amici i discorsi sui figli vertevano su scelte e traiettorie inesorabilmente lontane di qui, i rapporti Svimez confermano che ad andare via sono i più giovani e i più preparati.
Nel dibattito sullo stato della città e sulla sua immagine, se si debba dar retta alle classifiche deprimenti sulla qualità di vita, o a quelle più lusinghiere sul gradimento del sindaco, a Gomorra o ai Bastardi, il declino demografico appare come un momento di verità, perché una città in salute non perde i suoi abitanti, e la conclusione amara è che i diversi cicli politici dell’ultimo cinquantennio non sono stati in grado di arrestare la deriva.
Potrebbe essere anche una questione di punti di vista: in risposta alle lamentazioni, Manlio Rossi Doria provocatoriamente sosteneva che l’emigrazione, per quanto dolorosa, alla fine può essere salutare, perché consente di equilibrare il carico di persone con le reali opportunità che il territorio offre, ma lui parlava delle campagne, la città allora era il mondo nuovo della speranza. La realtà odierna è più mesta, perché il sistema urbano disarmonico del Mezzogiorno d’Italia sembra aver perso anche questa capacità attrattiva per uomini e aziende, ed è difficile capire da che parte debba iniziare una fase nuova di sviluppo.
Se questa è la realtà, conviene guardarle dritto in faccia, e il motivo vero di demoralizzazione per il cittadino meridionale viene allora dall’incapacità attuale della Repubblica di dare una risposta convincente, che non può che essere unitaria: per invertire la china è necessario che lo Stato centrale, la Regione e il Comune la Città metropolitana giochino di squadra, perché nessun livello di governo ha in mano la chiave risolutiva, e la speranza non può essere riposta in un sindaco, un governatore o un capo di governo, ma nel funzionamento complessivo della macchina istituzionale repubblicana.
Nel frattempo però il clima s’è fatto brutto, con Brexit e Trump sembra passato il tempo delle politiche cooperative a somma positiva, quelle dove i benefici delle decisioni toccano, magari in misura diversa, tutti i contraenti; è questo il momento delle politiche a somma zero, dove c’è uno che vince e uno che perde, generalmente il più debole, e ogni decisione somiglia a una partita a poker al tavolo del saloon.
A questo clima, certamente non propizio per le ragioni del Mezzogiorno, sembra volersi ispirare, obbedendo al proprio spirito animale, l’intero schieramento populista italiano, che potrebbe valere nel nuovo parlamento anche la metà dei seggi totali.
E’ evidente che il meridionalismo è geneticamente lontano da qui: da Fortunato a Marotta, era tutta gente che sprezzava ogni localismo e protezionismo, che ostinatamente pensava il Mezzogiorno come a un pezzo importante d’Italia, d’Europa, di mondo.
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