clan di camorra

Aurelio Musi, Repubblica Napoli del 31 marzo 2017

La lieta sorpresa di uno storico nel leggere questo libro di un sociologo, Luciano Brancaccio, “I clan di camorra, genesi e storia (Donzelli editore), è assai insolita.

Qui finalmente ci si libera di formule, di schemi precostituiti, modellati a immagine e somiglianza delle procedure giudiziarie. Brancaccio sa molto bene che quelle fonti sono parziali, sono utili al giudice per investigare su reati, classificare singoli comportamenti criminali, comminare pene in relazione ai codici. Se vogliamo costruire quadri di conoscenza più ampi, se vogliamo cogliere la genesi e le dinamiche storiche, dobbiamo tornare all’idea classica delle fonti come tracce, seguirle nei loro percorsi più complicati, nei meandri più tortuosi.

Il libro si snoda lungo una logica stringente tendente a ricostruire tutti i significati che possiamo attribuire al concetto-rappresentazione “clan di camorra”. Esso rivela non poche, sorprendenti analogie con i comportamenti dinastici e aristocratici di antico regime, come nota lo stesso autore. La formazione del clan di camorra ha a che fare con processi risalenti nel tempo. Si avvale di parentele estese e un sapiente uso dei rapporti di vicinato. Si arricchisce tra anni Sessanta e Settanta del secolo scorso di due nuovi elementi caratterizzanti: la capacità imprenditoriale, la diversificazione dei compiti capace di controllare l’intera “filiera industriale”.

Tutto questo è egregiamente ricostruito attraverso il caso del clan Zaza-Mazzarella: la convergenza dei due rami familiari, la progressiva specializzazione, il controllo dei quartieri, l’estensione dinastica (le genealogie si distribuiscono lungo quattro generazioni), la numerosità dei figli. Un mondo chiuso, settario? La rappresentazione che ci restituisce Brancaccio va in direzione opposta. Certo famiglie e gruppi sono due sfere di appartenenza. Possono coincidere, ma spesso anche confliggere. Non ci sono regole rigide di successione, la famiglia resta il principale veicolo di riproduzione di codici e regolamentazione di comportamenti. Ma, come ci dimostrano le cronache quotidiane, la tensione tra individuo e gruppo è continua. La leadership criminale ha il suo fondamento in ultima istanza nella forza che può anche prescindere dall’appartenenza familiare o di gruppo.

I gruppi poi non sono organizzazioni clandestine sul modello delle associazioni segrete. È anche assai sfumata la distinzione tra affiliati e non affiliati. Gli equilibri mutano rapidamente, l’appartenenza è ambigua e instabile, scissioni, scioglimenti, passaggi sono all’ordine del giorno. “L’individualismo – scrive Brancaccio – è uno dei tratti più evidenti di questo mondo: soggetti di un certo rango, affiliati o meno, possono fare affari e promuovere traffici con gruppi diversi, anche non alleati fra loro”. In questo il clan di camorra si rivela assai anomalo, per la verità, rispetto ad altre forme di organizzazione di affari che ha conosciuto la storia.

La prospettiva storicistica, se così si può dire, di questo sociologo aiuta a capire innanzitutto la genesi dei clan all’interno dei mercati, in particolare in quei settori che sono caratterizzati da una molteplicità di ruoli di intermediazione e tendono a sviluppare forme di regolazione violenta.

Il pregevole saggio di Brancaccio si conclude con una provocazione che certamente farà discutere: la camorra sarebbe una “élite borghese” o una “aristocrazia criminale”. Le due espressioni non sono equivalenti, come pensa l’autore. Con la prima si allude ad un’autonoma componente sociale; con la seconda si fa riferimento al livello più elevato dell’élite criminale. Con la prima si pensa che il fenomeno camorristico sia parte integrante della dinamica delle élite borghesi, con i conseguenti mutamenti nei valori e nei comportamenti che vi si potranno determinare. Con la seconda si vuole comunque mantenere la specificità criminale del fenomeno e, quindi, la possibilità di contrastarlo e combatterlo.