Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 16 novembre 2017

Dopo i polmoni verdi della città – Capodimonte, Camaldoli, Ponticelli – resta da raccontare il parco che verrà, quello promesso di Bagnoli, e avremmo voluto camminarci, percorrerlo per vedere come stanno le cose, ma la richiesta di accesso non ha avuto risposta, non ci resta allora che guardarlo dall’alto, in questa mattina dolce di inizio novembre, e girarci ancora intorno, come solo, da vent’anni a questa parte, è possibile fare. Mi accompagna nel viaggio Massimo Di Dato, animatore dell’Assise di Bagnoli, lui questa storia l’ha vissuta tutta, da quand’era studente con serietà e competenza ha continuato a lavorare per tenere viva la fiamma della discussione e della partecipazione civica, nel frattempo la chioma fulva s’è tutta screziata d’argento.

Davanti Città della Scienza troviamo facce amiche, ci accompagnano attraverso i padiglioni semibui, per la fondazione è un’altra giornata difficile, c’è assemblea dei lavoratori, i volti sono scuri, chiediamo di affacciarci un attimo alla terrazza più alta, ed eccola infine la distesa deserta del parco, c’è solo l’auto della vigilanza che si aggira minuscola intorno alla cattedrale rossa dell’acciaieria, le giraffe arrugginite dei nastri trasportatori; la sorveglianza del vuoto deve essere un formidabile esercizio zen.

Già, il vuoto. E’ l’ossessione, il sentimento di privazione irreversibile che attraversa tutto il libro di Ermanno Rea, lo sgomento per la “desolata radura, piena di ferite”, lo “sterminato vuoto” che rimane dopo lo smontaggio e la demolizione di Ferropoli, com’era chiamata la fabbrica, “… fumifera città rossa e nera … sovrastata da un cielo incandescente, pieno di lampi: si srotolava per chilometri tra strutture verticali e orizzontali, spiazzi, fasci di binari, carriponte lunghi sino a ottanta metri e oltre, neri cumuli di residui minerali, strade, colmate a mare, pontili, navi, lampioni, camion, gru alte come palazzi”.

Ora è silenzio, questo vuoto sconfitto, pieno di ferite lo abbiamo davanti, ma è chiaro che non è così. La storia dei paesaggi e degli ecosistemi non ammette lacune, c’è una storia che continua al di là delle intenzioni degli uomini, bisogna saperla leggere. Lungo tutto il Novecento, l’acciaieria voluta da Nitti per dare lavoro alla città, come tutti gli impianti simili al mondo, ha colmato il paesaggio che aveva intorno dei suoi residui e sottoprodotti. I suoli fertili dell’antica piccola pianura costiera sono stati sepolti da una coltre di scorie, loppe e minerali ferrosi, profonda da pochi decimetri, fino a più di sei metri. Nell’arco di un secolo si è creato un nuovo ecosistema, e con questo dobbiamo ora fare i conti, perché il vuoto in natura non esiste, né è possibile riavvolgere il nastro degli eventi.

Il fatto curioso è che le loppe d’acciaieria, le rocce vetrose prodotte assieme all’acciaio da quel vulcano tecnico che è l’altoforno, hanno proprietà pozzolaniche, proprio come le ceneri prodotte dai vulcani naturali.  Quelle rocce artificiali ora la natura va trasformando in nuovi suoli, e a guardarla bene la radura sì è già riempita di un suo particolare mosaico vegetale, con brughiere di cespugli bassi su cui ora volteggiano uccellini, ballerine gialle; boschetti di pioppo, macchie di roverella e ginestra, oltre naturalmente agli eucalipti e ai pini che abbiamo piantato noi. E’ il trionfo del “terzo paesaggio” descritto da Gilles Clément, la natura instancabile che si riprende, trasformandoli, gli spazi vuoti della civiltà umana, costruendo reti verdi, inaspettate e impreviste, di biodiversità.

Ed infatti, subito una coppia di poiane che abita l’area si stacca in volo dai lecci di Coroglio, incuriosita dal piccolo drone sibilante che Riccardo Siano sta pilotando sui sentieri del parco in auto-costruzione, girano intorno al volatile meccanico che ha osato irrompere nel loto territorio, speriamo che non sferrino l’attacco.

Davanti allo spettacolo, con Massimo ragioniamo del fatto che a questo punto il parco c’è già, mancano solo le persone, e la sola cosa da fare allora è quella di aprire i cancelli, abbattere il muro, e consentire finalmente ai cittadini di riprendersi l’area, ristabilire un rapporto, iniziando quel percorso assolutamente necessario, descritto da padre Loffredo per il centro storico, di trasformazione degli spazi in luoghi, recuperando tutta la loro storia e identità, ricucendo reti di attività, rapporti e relazioni.

In questi tempi difficili per le finanze pubbliche, non solo da noi, ha preso forza in urbanistica il filone degli “usi temporanei”: se i programmi di recupero urbano sono costosi e richiedono tempo, può essere saggio tenere il vivo il rapporto tra le gente e i luoghi, facendo di necessità virtù, consentendo attività transitorie, che non confliggano con le trasformazioni.

Con l’aeroporto nazista di Tempelhof, a Berlino, quello dal quale Indiana Jones parte in dirigibile assieme a Sean Connery, i tedeschi stanno facendo proprio così, come ha raccontato Federica Dell’Acqua nel suo saggio su un numero recente di Meridiana dedicato alla deindustrializzazione. Quello di cui abbiamo bisogno a Bagnoli, ora, è di aprire subito al pubblico il grande “temporary park” che già c’è, valorizzando il lavoro che la natura ha fatto al posto nostro, mettendo fine a un deserto che è solo nelle nostre menti.

Per fare questo, bisogna uscire dalla trappola della bonifica. Vedrete, le analisi di rischio dimostreranno che per ampie porzioni dell’area non c’è alcun rischio serio che ne impedisca la fruizione. I soldi della chimica allora sarebbe meglio spenderli per le infrastrutture di trasporto, invece che usarli per rimuovere la colmata, che è parte della storia dei luoghi, ed a questo punto è preferibile che resti dov’è. D’altro canto, le analisi dell’ABC hanno dimostrato che l’acqua della falda, a monte della barriera idraulica è pulita, l’arsenico, il ferro e il manganese ce li ha messi il Padreterno, eppure ci ostiniamo a depurarla, spendendo inutilmente, anche qui, un sacco di quattrini preziosi.

Ora il drone si è posato obbediente ai piedi di Riccardo, anche le poiane sono volate via; il paesaggio che abbiamo davanti, tra il mare e la cornice verde dei rilievi flegrei – da Coroglio ai Camaldoli ai versanti esterni d’Agnano – è veramente unico, straordinario, grandioso. Basta solo conoscerne un po’ la metrica, la storia. Lo spavento del vuoto è passato. E’ ora di tornare sulla terra, a riprenderci il parco che c’è già.