Camminando per le strade del centro il divario è stridente. Tra la fascinazione che i cento ettari di centro storico rivitalizzati riescono ad esercitare sui turisti di mezzo mondo, che non la smettono proprio di fotografare, in una babele dolce di lingue, e il livello dei servizi pubblici, i trasporti da paese del terzo mondo.
Nell’espressione dei poverini in attesa alle fermate del bus, c’è l’avvilimento, lo smarrimento di chi è costretto a vivere senza più orario, certezza del servizio, uno straccio di programma per la giornata. Quanto tutto questo possa reggere, nessuno lo sa. La riscoperta di Napoli è avvenuta dal basso, senza politiche pubbliche, grazie al passaparola globale, ma gli effetti sul mercato dei fitti e sugli equilibri sociali nei quartieri più sensibili della città si fanno già sentire.
C’è poi il divario tra il centro e le periferie, ne parla Ottavio Ragone nell’editoriale di martedì scorso, ma è un fatto che non riguarda solo i quartieri popolari, perché l’abbandono e l’assenza di manutenzione in città inizia prima, dall’arco dei quartieri borghesi sulle colline. Secondo uno studio Svimez a Napoli mancano sei miliardi per mettere a posto le infrastrutture e le reti che vengono giù a pezzi. È il debito pubblico territoriale, i soldi che mancano per rimettere a posto il paese. Il risultato è che i turisti vengono, ma i napoletani se ne vanno. Sempre secondo Svimez ventimila persone hanno lasciato la città nel triennio 2014-2016, che è proprio un brutto segno, sono i più giovani e preparati a scegliere di andar via.
L’amministrazione della città, nata nel segno della discontinuità, ha optato alla fine per il laissez faire, preferendo non intervenire sugli squilibri strutturali della macchina comunale, troppo rischioso, così che in dissesto eravamo all’inizio, in dissesto ci troviamo ora, e due consiliature sono andate in questo modo sprecate.
È evidente che non si chiedeva la luna, bastava molto meno, ad esempio dichiarare un obiettivo di servizio minimo – trasporti, decoro urbano, assistenza sociale – che ci si proponeva di raggiungere, per migliorare un po’ la qualità di vita non tanto dei turisti, ma quella nostra, rendendo produttivo almeno qualche rivolo del fiume di spesa pubblica clientelare, che si traduce nella fiscalità locale più esosa d’Italia. Si è preferito governare a vista, spostando l’attenzione sui temi comodi dell’antagonismo, dell’identità, una forma scaltra di populismo, che butta ogni volta il pallone fuori dal campo di gioco, e non deve mai render conto a nessuno.
La cosa è più complicata, perché diciamo Napoli, ma i problemi travalicano il confine urbano. Tra le periferie sofferenti, dopo i quartieri a nord e a oriente, ci sono i casali, la corona dei comuni dell’hinterland stravolti dall’abusivismo, i luoghi d’Italia dove il deficit di cittadinanza e di speranza è più acuto. Territori ai quali il capoluogo non riesce proprio a dare rappresentanza, la città metropolitana è nata già morta, e si continua a stare insieme nel segno nella diffidenza e del rancore.
Così, il divario ci accompagna, diventa una dimensione di vita, viviamo alla giornata. Tutti orfani di un progetto, una visione, la capacità di dare alla terza città d’Italia orizzonti più larghi di spazio e di tempo.
(A proposito, ho il ricordo preciso di quella mattina di gennaio del 1976, comprai il primo numero del giornale all’edicola sotto il vecchio platano, nella curva alta di via Domenico Fontana, il cielo era azzurro, si vedeva tutto uno spicchio di golfo e di Vesuvio. Ero un ragazzo di quattordici anni, quel piccolo giornale mi ha accompagnato, è stato un pezzo importante della vita del paese, Col vestito nuovo la storia continua, auguri).
Lascia un commento
Comments feed for this article