Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 9 luglio 2018 

Un viaggio nella Campania che non vuole spegnere le luci, i trecento piccoli comuni della cintura appenninica che lottano per sopravvivere, in questo inverno della demografia che l’ISTAT prevede per il Mezzogiorno nel prossimo quarantennio, con la perdita di tre milioni e mezzo di abitanti, il 25% in meno, e la popolazione del Sud Italia che passerebbe così dal 34 al 29% di quella nazionale. Un declino legato al crollo delle nascite – in questa che pure era la terra più giovane d’Italia – e all’emigrazione economica, come la chiamano ora, che è ripresa con forza: 700.000 persone nell’ultimo quindicennio hanno lasciato il Sud, per tre quarti sono giovani tra i 15 e i 34 anni, spesso i più preparati e motivati.

E’ evidente che il “depauperamento del capitale umano”, come lo chiama ISTAT, non colpisce allo stesso modo le due Campanie: la metropoli costiera da Capua a Battipaglia, dove vive assiepato, sul 15% appena del territorio, il 75% della popolazione regionale, e nella quale comunque si produce un quarto del PIL dell’intero Mezzogiorno. E la Campania fragile dell’Appennino, l’orizzonte rarefatto di colline, altopiani e montagne, dal Matese al Cervati, la “regione di antica e solida civiltà”, come ricordava Manlio Rossi-Doria, punteggiata di piccoli centri, per i quali lo spopolamento non è una minaccia futura, ma una condizione esistenziale già a lungo sperimentata.

Per capire qualcosa di questa Spoon River appenninica la prima tappa è in Cilento, dove i tre quarti del territorio, 75 comuni su 98, sono in fase di spopolamento. Dal 1961 il calo medio è del 30%: cinquantasettemila persone sono andate via da questi paesi, 51 dei quali hanno ora meno di duemila abitanti. Una legge spietata dice che il calo demografico è più alto proprio nei comuni più piccoli, in una spirale che si autoalimenta. In minuscole realtà con meno di 500 abitanti, come Valle dell’Angelo, Sacco, Sant’Angelo a Fasanella, il crollo è del 70-80%.

Di queste cose parlo con l’urbanista-contadino Fabrizio Mangoni. Fabrizio è da poco in pensione, è stato docente di urbanistica alla Federico II, qui in Cilento a San Mauro ha restaurato un casale, circondato da oliveti e alberi da frutto; assieme alla sua Caterina ha faticosamente rimesso le terre a coltura, tagliando a mano rovi e cespugli, col trattore si sarebbero distrutti i preziosi muretti storici di pietra arenaria.

Ora Fabrizio produce olio, ma non ha smesso con l’urbanistica, si è gettato anzi in una nuova impresa, il piano urbanistico di Pollica, che nascerà coordinato con quelli dei comuni vicini di S. Mauro e Serramezzana. “Molte delle riunioni di lavoro, e gli incontri con i cittadini, li facciamo ai tavolini del bar. La prima cosa che ho imparato lavorando qui è l’importanza del senso di comunità, di appartenenza, far circolare proposte e idee nella vita quotidiana del paese, ascoltare le persone, ragionare con loro, altrimenti è tutto inutile. La seconda cosa è che non ci sono scorciatoie, il turismo balneare da solo, concentrato in una quarantina di giorni, non è una risposta allo spopolamento e alla mancanza di lavoro, anzi aumenta gli squilibri. Tanto più che in questi luoghi incantati il capitale territoriale ha limiti fisici precisi, pensa solo alla capacità della stretta fascia di litorale di contenere bagnanti e automobili. Questi limiti non vanno superati, se non vogliamo creare, invece del turismo sostenibile, solo congestione e degrado”.

Poi c’è il calo demografico e l’invecchiamento, che colpiscono duro anche qui: la popolazione dei tre comuni si è dimezzata rispetto al 1961, ora gli abitanti sono 2.600 in tutto, ma c’è un intera fascia che manca, quella in età riproduttiva. Diradati gli uomini, l’agricoltura ha abbandonato gli antichi spazi, velocemente coperti da macchia mediterranea e boscaglia. “Alla fine” mi dice Fabrizio “è anche attraverso il recupero del paesaggio agrario storico che è un riequilibrio è possibile. Dispersi nel territorio, ci sono un centinaio di  magazzeni  – gli annessi rustici per la conservazione e la lavorazione dei prodotti – oramai in abbandono. L’idea è, anziché costruire villette inutili, di recuperare questo patrimonio tradizionale, legandone il riuso all’impegno di riprendere la coltivazione dei suoli. Ai nuovi abitanti chiediamo di aiutarci a curare lo spazio agricolo inselvatichito, di diventare i nuovi agricoltori multifunzionali, seguendo le indicazioni del nuovo piano urbanistico”.

Tutte queste cose Fabrizio le ha raccontate lo scorso mese di maggio nel suo intervento al Festival sullo spopolamento, che si è svolto a Ceraso, a una trentina di chilometri da Pollica, verso sud. L’idea del festival è dell’editrice Maria Liguori, con l’associazione “Festinalente”, il nome riprende l’ossimoro di Augusto e Cosimo de’ Medici: “affrettati lentamente”; insomma, sii risoluto, ma con cautela, un’indicazione buona anche per le politiche per il Mezzogiorno.

Ceraso è un comune di 2.400 abitanti, cinquant’anni fa erano mille in più. Quando dopo la crisi dei migranti dell’estate 2017 il ministro dell’interno Minniti chiese aiuto ai comuni, il sindaco Gennaro Maione fu tra i primi ad aderire allo SPRAR, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Così il paese ha accolto 4 famiglie cristiane siriane, 20 persone, subito inserite in un percorso integrato di accoglienza, dalla scuola, allo sport, fino all’avviamento al lavoro, nel corso di un triennio. “Domenica scorsa” racconta Maione “il parrocco ha battezzato due bambini siriani, c’è stata una festa, con la partecipazione di tutte e cinque le frazioni del paese”.

Lo sforzo della piccola comunità non può essere sottovalutato: in proporzione è come se Napoli avesse accolto 8.000 profughi in un colpo solo. “Certo” continua il sindaco “occorre misura, tener conto della reale capacità di accoglimento. Non è solo così che possiamo contrastare il declino demografico, ma è comunque un passo per la rivitalizzazione dei nostri paesi”. La scelta di Ceraso non è isolata, il Cilento sta funzionando come laboratorio di integrazione, se a San Mauro la coltivazione dell’olivo è salva grazie agli immigrati indiani del Punjab.

Il viaggio prosegue, ancora 50 chilometri a sud, fino a Morigerati, minuscolo borgo di 600 abitanti, erano il doppio cinquant’anni fa, tra i querceti scuri sulle gole del Bussento, dove c’è l’Oasi WWF, coi fiotti di acqua gelida tra le rocce che accarezzano il mulino secolare. Qui con i ragazzi del paese il sindaco Cono D’Elia ha organizzato un efficiente servizio di promozione, con il paese che è diventato un unico albergo diffuso, puoi prenotare on line un appartamento in centro storico, un casale nel verde o un agriturismo in un paesaggio mozzafiato da Medioevo. Attorno al borgo, tutta una rete di produzioni agricole di qualità, con Bruno de Conciliis che su 8 ettari di incolti, dati in concessione dal comune, produce ora un gran fiano che si chiama Invitta; e i 50 ettari che la cooperativa di agricoltura sociale “Terra di resilienza” coltiva a grani antichi, le sementi recuperate dopo lunghe ricerche, con la filiera che si chiude al ristorante, dove le trafile puoi gustarle sapientemente cucinate. “Tutte queste esperienze” mi dice D’Elia con orgoglio “le abbiamo raccontate a New York lo scorso mese di maggio, con l’Università di Fisciano, al Forum delle Nazioni Unite sullo sviluppo locale”.

Il viaggio sta per concludersi. Gli ultimi quindici chilometri, verso il Golfo azzurro di Policastro, sulle colline di Santa Marina, dove c’è uno degli ultimi istituti comprensivi della Campania, su un territorio sconfinato, gli 8 plessi sono distanti anche 40 chilometri, per andare dall’uno all’altro occorrono tre quarti d’ora per strade montane tutte curve. La dirigente Maria De Biase è sconfortata: la scuola elementare su in montagna, nella frazione “Fortino” di Casaletto Spartano, al confine con la Basilicata, il prossimo anno chiuderà, solo quattro bambini iscritti, fino a pochi anni fa erano una decina.

“E’ triste doverlo dire, ma per noi che lavoriamo in frontiera, qui in Appennino, le soglie dimensionali sono le stesse che per una scuola di città. Ora abbiamo 500 studenti, ma siamo pericolosamente vicini alla soglia dei 400, alla quale scatta l’obbligo di ulteriore accorpamento. L’offerta didattica che proponiamo ai bambini e ai loro genitori è tutta incentrata sull’ambiente, l’alimentazione e la civiltà locale, la conoscenza di questa terra può essere uno stimolo a rimanere, ma il personale è risicato, se l’unico bidello della sede di montagna si ammala la scuola non apre.”

“A realtà diverse politiche diverse”, non si stancava di ripetere Rossi-Doria, ma il Paese in questo momento proprio non comprende. Per mantenere una presenza dello Stato e dei servizi essenziali qui dove ce n’è più bisogno ed è più difficile vivere, occorre uno recupero di equità, intelligenza, lungimiranza. Sennò le buone pratiche che abbiamo raccontato, in questo laboratorio vivo di natura e cultura che è il Cilento, rischiano di non farcela, ed anche le politiche per le aree interne si rivelano per quello che sono: risarcimenti simbolici per deprivazioni territoriali che noi stessi contribuiamo a creare, inseguendo un’efficienza di facciata, mentre l’inverno dello spopolamento avanza.