Francesco Erbani, Repubblica Napoli 8 settembre 2019
Tornare, restare, arrivare. Quanti verbi si coniugano all’infinito ragionando delle regioni meridionali. Ognuno di essi prova a squarciare un velo reso impermeabile da qualche pigrizia mentale, dall’abitudine di guardare a queste regioni come a un universo compatto, punteggiato solo da buchi neri.
Franco Arminio su queste pagine ha intrecciato i primi due verbi. Le cronache rimandano costantemente le immagini di arrivi e si spera che i prossimi non siano più accompagnati da manfrine disumane. Si promuovono iniziative e manifesti per politiche pubbliche che fronteggino lo spopolamento – questione di fondo che i tre verbi raduna e mette in fila.
A questi tre verbi se ne può aggiungere un altro, sempre all’infinito. Interpretare. E ad esso agganciare un complemento oggetto. Territorio.
Prima di procedere, però, occorre lavorare di fino sul senso della parola territorio e sgomberare dal suo repertorio di significati quelli che hanno a che fare con un aggettivo possessivo. Mio. Al massimo, nostro. Una volta ripulito il vocabolario da tutto l’armamentario di recinti, di fisime e di vere fantasie indentitarie, di tradizioni tanto ossificate quanto inventate, il territorio si libera di una mistica proprietaria e torna a brillare delle tante potenzialità visibili e latenti che ne costituiscono l’essenza. E si predispone ad essere interpretato, scandagliato nelle sue caratteristiche.
Il territorio – come ripete a proposito del suolo Antonio Di Gennaro – non è una piattaforma neutra, il supporto indifferente capace di sopportare, e supportare, qualsiasi oggetto. Né possiede una dimensione solo fisica. Come insegnano le più aggiornate discipline che trattano del paesaggio, anche il territorio può dirsi composto di tanti elementi, fisici e non solo fisici, oggettivi e soggettivi.
Un territorio ha una storia, non è stato sempre così come oggi lo vediamo, né possiamo immaginare di trattenerlo in una ipotetica fissità. Su di esso hanno agito donne e uomini, si sono esercitate trasformazioni. Ha poi espresso valori, saperi, bisogni, persino aspirazioni.
In questa condizione multifunzionale, un territorio, un territorio delle aree interne, per esempio, si presta a essere interpretato, appunto per comprendere come può vivere al meglio, come i suoi bisogni possono essere soddisfatti e le sue aspirazioni assecondate. Tornare, certo. Restare, d’accordo.
Arrivare, ottimo. E però anche interpretare che cosa lo rende un luogo e non semplicemente uno spazio. E quali sono le sue virtù, quali relazioni si possono stringere al suo interno e verso l’esterno, quali bellezze esibisce, quali beni culturali, materiali o immateriali custodisce, quali doti nasconde, quali possono essere aggiornate, quali inventate.
Le aree interne possiedono tanti vuoti. Ecco un caso concreto in cui fare esercizio di interpretazione di un territorio: come trasformare questi vuoti da segno irrimediabile dell’abbandono in occasione per ripartire (mettendo al bando, è ovvio, occasioni speculative o di profitto a breve). In alcune zone delle regioni meridionali questo già avviene, dalla Calabria al Cilento al Sannio, tanto per riferirsi a quanto di più interno c’è nell’interno. Nulla è esemplare, nulla si propone come modello, nulla è esente da conflitti, ma il movimento anche se non è tutto, come si diceva un tempo, è molto. È appena un mormorio, ma ascoltarlo conviene.
Ma quali sono gli attori di questa campagna d’interpretazione (chiamiamola così per convenzione)? Chi abita quel territorio, certamente.
Può disporre di tanti strumenti, possedere le chiavi per aprire lo scrigno dei saperi, delle consuetudini agricole, artigiane, manifatturiere. È in grado di conoscere la storia, il lungo e il breve periodo, di trasmettere i canti popolari, i riti, le feste. Ma anche chi abita quel territorio può essere vittima dei luoghi comuni, delle abitudini sbrigative e stereotipate. Può guardare senza vedere. Rischia, per esempio, di non afferrare appieno le potenzialità latenti, quelle che lo sconforto e la disillusione possono occultare.
È restato, ma in qualche modo deve ri-abitare il luogo in cui è sempre vissuto.
Ecco perché per interpretare meglio è necessario che qualcuno arrivi, da vicino o da lontano, o che torni, portando nella valigia tanti attrezzi culturali appresi altrove. Anche perché le cose che si sono sempre fatte non è detto che bastino. Interpretare consente di capire che cosa manca. E che cosa di nuovo è più appropriato.
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