Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 9 settembre 2019

Finisce a Bagnoli il viaggio nei quartieri esterni di Napoli, non poteva che essere così, ed è la tappa più difficile, in quelle precedenti si raccontavano pezzi di città – da San Giovanni a Teduccio a Pianura – ai margini del dibattito pubblico, qui al contrario tutto è stato detto e scritto, l’area è un simbolo, che il carico di significati, connotazioni, aspettative bruciate rischia di far deflagrare, dissolvere. L’unica è tornare alla lezione di Rossi-Doria: camminare il territorio, che è il libro più grande; parlare con le persone; sentire attraverso la suola delle scarpe come cambia la terra, e lo spirito dei luoghi.

Con Massimo Di Dato che mi accompagna ci infiliamo nel sottopasso della Cumana, tutto affrescato di murales, ed è una specie di macchina del tempo, in un attimo riemergiamo su viale Campi Flegrei, il boulevard più suggestivo di Napoli, con i lecci e le palme, l’atmosfera fin de siècle e le palazzine liberty. Massimo è uno degli animatori dell’Assise per Bagnoli, una delle poche esperienze che un ragionamento collettivo sul quartiere ha cercato di tenerlo vivo in tutti questi anni. Stamattina abbiamo appuntamento con Aldo Velo, leader storico dei caschi gialli Italsider. “Ci vediamo alla Fonte del Gelo alle dieci” mi ha detto Aldo al telefono, poco importa se il bar ha cambiato nome da anni, ci intendiamo lo stesso.

Gli ex ragazzi del quartiere e della fabbrica li troviamo sul viale, coi capelli d’argento, occupano a gruppi le panchine. Quando Velo arriva, scattante nella polo rossa, è tutto un animarsi, un riconoscersi. Uno ci passa accanto: “Aldo” grida sorridendo ma senza fermarsi “vado di fretta, oggi nun teng o’ tiemp e’ litigà ’cu tè”. Ci fermiamo accanto all’edicola, attorno si forma un capannello, chiedo loro com’è adesso la vita nel quartiere, a dispetto della solarità dei luoghi le risposte sono amare.

Ci sono Antonio, Vincenzo, Gabriele, Mario, Alberico, Luigi, ed è un racconto prevalente di contrasti irrisolti, e di declino: l’aumento della micro-criminalità, coi furti di batterie e i vandalismi alle auto, tutte cose un tempo sconosciute da queste parti; gli sfollati nelle case occupate; il clamore notturno della movida, che ti nega il riposo; l’ospedale di riferimento, il San Paolo, che s’è svuotato, ridotto a poco più di un pronto soccorso. Sullo sfondo, i movimenti tellurici della demografia, coi bagnolesi che lasciano il quartiere, e i nuovi abitanti “che qui vengono solo per dormire”. E poi il lavoro che non c’è più, i figli che vivono lontano, dei quattro ragazzi di Aldo Velo, due lavorano in Emilia, uno in Norvegia.

I numeri parlano chiaro. Dal 1961 gli abitanti di Bagnoli sono diminuiti del 30%, 9.000 persone in meno, oggi sono poco più di 23.000. “Nel periodo immediatamente successivo la chiusura della fabbrica, all’inizio degli anni ‘90” mi spiega Di Dato “il patrimonio immobiliare del quartiere ebbe una rivalutazione istantanea, molti scelsero di beneficiarne vendendo e trasferendosi altrove. Anche i canoni di fitto crebbero, obbligando molti abitanti storici a lasciare il quartiere.”

Ai miei interlocutori chiedo se, al punto in cui siamo, il destino del quartiere debba oramai prescindere dal recupero dell’area industriale: in fondo quello che è successo in questi trent’anni è che Bagnoli si è trasformata da luogo della produzione a quartiere residenziale, come altri. E’ a questo punto che gli sguardi diventano freddi, la voglia di parlare passa di colpo. Il fallimento della riconversione è ancora vissuto come il più doloroso dei tradimenti. Gli operai che ho davanti avevano contrattato l’uscita dalla fabbrica – uno stabilimento appena ammodernato e in piena capacità produttiva – in cambio della promessa di un quartiere rigenerato e una nuova economia. Il risultato, a distanza di trent’anni, è il vuoto, al posto del lavoro antico non è arrivato proprio niente, solo l’inesorabile corrodersi dei legami e delle forme quotidiane di convivenza. Molti di loro non votano più. Il discorso cade sulle navi dei migranti, la chiusura dei porti, e i ragionamenti che ascolto, inaspettatamente, non sono tutti favorevoli a Capitan Carola e al lavoro umanitario delle ONG.

Ragioniamo di tutte queste cose con Aldo Velo. “Bagnoli è diversa da Taranto. Fino a che c’è stata la fabbrica, gli operai, il quartiere, il movimento delle donne e quello degli studenti sono stati una cosa sola, e la scelta non è mai stata tra lavoro e ambiente. Attorno al lavoro si era creato un soggetto collettivo che aveva un peso sulle decisioni della città, sulle questioni di interesse generale. Ora che tutto questo si è rotto, ognuno è rimasto solo con le sue incertezze e le sue paure, e trovano spazio posizioni difensive, impensabili un tempo.”

La discussione sull’ex acciaieria poi,  ha assunto toni metafisici. Qui non è come a San Giovanni a Teduccio, dove i cadaveri delle fabbriche sono ancora visibili e presenti, disseminati in mezzo alle case. A Bagnoli invece la spianata dell’acciaieria è interdetta e murata da trent’anni, non è più oggetto di esperienza diretta, sensibile: per i più anziani che ci lavoravano è un ricordo, per chi è nato dopo, una sorta di vuoto geografico, che le parole e i rendering dei piani urbanistici non riescono proprio a colmare.

Tutta Bagnoli a pensarci è ancora organizzata per recinti chiusi: il quartiere è una cittadella prigioniera tra i due rami di ferrovia, Metropolitana e Cumana, i varchi con l’esterno si contano sulle dita di una mano, una situazione rischiosa, visto che siamo in piena zona rossa dei Campi Flegrei. Come sono luoghi confinati l’area industriale dismessa, le rovine del Parco dello Sport, il Collegio Ciano, per non parlare di Nisida e del litorale.

Il Collegio Ciano fu costruito dal regime alla fine degli anni ’30, demolendo il casale medioevale sulla collina di San Laise, una comunità rurale di una cinquantina di famiglie. Doveva diventare la cittadella dell’infanzia abbandonata, i Figli del Popolo, ma la sorte fu la stessa della Mostra d’Oltremare, dopo l’inaugurazione scoppiò la guerra, e il complesso non entrò mai in funzione. Fu occupato dai tedeschi, poi dagli Alleati, quindi divenne campo profughi, alla fine saccheggiato. Dal 1954, per più di mezzo secolo, ha ospitato il Comando supremo della Nato.

Dell’antica agricoltura che c’era prima rimangono oggi una dozzina di ettari, tra il Collegio e la Domiziana, ed è l’ecomuseo agricolo più importante della città. Lo cura Gianni Grasso, coi ragazzi di Legambiente. Gianni è medico, una vita dedicata ai migranti e alla lotta alle dipendenze, i nonni erano coloni qui a San Laise, la salvezza di questo frammento miracoloso di agricoltura urbana e di memoria è l’altra missione della sua vita.

L’ingresso al parco agricolo è in fondo a Viale della Liberazione, tra l’area ex Nato e il binario della metropolitana, con Gianni sono ad attendermi Maria, studentessa in legge, ha occhi chiari silenziosi e attenti; Gennaro che fa l’informatico, e Federico che studia il cinese. Il muro di cinta dell’ex base militare è ancora armato di filo spinato e garitte, residui incongrui di Guerra Fredda in mezzo agli orti e gli alberi da frutto. Ai bordi del sentiero Grasso mi indica un grande masso bianco, è il basamento della statua del conte Ciano, abbattuta nei giorni della Liberazione.

L’area è di una bellezza e suggestione assolute, Legambiente l’ha in fitto dalla Fondazione Banco Napoli, l’altra parte è di un’immobiliare milanese, l’ha acquistata dall’antica proprietà, la contessa di Corigliano, per ora sta mandando via a uno a uno i coloni superstiti, in attesa di chi sa quali sviluppi.

Gianni coi suoi ragazzi ha ripulito l’area, ripreso i sentieri e le percorrenze, e la gestisce con rigore filologico, rispettando gli elementi minuti di questo paesaggio mozzafiato, l’arboreto, le vigne, gli orti, le siepi, i piccoli fabbricati rurali, soprattutto assecondando un equilibrio tra gli spazi coltivati, e quelli riconquistati dalla vegetazione spontanea.

Il risultato è un luogo che ha aspetti favolosi, subtropicali, dove accanto alle piante da frutto nostrane, puoi trovare un boschetto silenzioso di bambù, e una dracena gigantesca, dalle foglie acute: una natura primitiva, all’inizio del tempo, sembra di stare in un quadro di Henri Rousseau.

Il parco agricolo è aperto al pubblico, l’unica avvertenza è quella di rispettare il silenzio, la pulizia e la grazia dei luoghi. In attesa dell’altro grande parco, quello dell’acciaieria, se e quando verrà, quest’area è già adesso, grazie al lavoro di questi ragazzi, un polmone verde, testimonianza preziosa della storia rurale del quartiere, prima dello sviluppo turistico inseguito dal marchese Giusso e Lamont Young alla fine dell’800, e dello sconquasso che è seguito poi, nel secolo breve dell’acciaieria.

Resta il fatto che Bagnoli è oggi la somma di luoghi notevoli, che non dialogano tra loro, e la cosa da fare, assai semplice, sarebbe iniziare a spezzare i recinti, a partire dal muro della fabbrica, restituendo subito alla città il “terzo paesaggio”, la trama verde di erbe alberi e arbusti cresciuta in silenzio sulle loppe d’altoforno, senza chiedere permesso a nessuno, mentre noi perdevamo tempo con la burocrazia malata, e una bonifica senza fine.

Passiamo ancora i binari, siamo di nuovo sul boulevard ridente, c’è aria d’estate, macchie d’ombra e di sole. Mentre ci salutiamo Velo mi affida l’ultimo ricordo di quando ragazzi, seduti su queste panchine, aspettavano il passaggio degli operai lungo il viale, alle tre del pomeriggio venivano giù dalla stazione della metropolitana, per l’inizio del turno. Poi gli operai sono diventati loro, e ora il cerchio s’è chiuso, sono tornati sulle panchine, ma di qui non passa più nessuno.