Fabrizio Cembalo Sambiase e Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 23 dicembre 2019
Un fortunale con raffiche da sud-ovest di vento oltre i 100 km/h ha spazzato il litorale tirrenico, dalla Liguria alla Sicilia, ed è ancora un bollettino di guerra di allagamenti, crolli d’alberi e di terre, vite umane perdute. Napoli paga un prezzo altissimo. Lo schianto di una branca di cipresso, trascinata come un fuscello dalla tempesta, di primo mattino spezza una vita ad Agnano; la tragedia è solo sfiorata al Vomero, in via Belvedere nella notte un cedro imponente si ribalta, schiaccia un’auto, cade sul palazzo difronte, quasi demolendo un balcone, gli inquilini hanno pensato a un terremoto. Alberi caduti in quasi tutti i quartieri della città da via Crispi a viale Traiano, alle strade attorno la Ferrovia, da Posillipo all’Arenella, fino a Napoli Nord, da via Miano alla Toscanella.
Domenica mattina presto ci trovavamo per motivi personali in via Belvedere. Il grande cedro era lì, sdraiato, le radici all’aria, a occhio una pianta di una quarantina-cinquantina d’anni. Un rapido esame, dalla chioma al tronco al sistema radicale, e un’angoscia sottile ci ha preso. Siamo agronomi, è il nostro lavoro, inutile girarci attorno. L’albero che si è schiantato non mostrava segni di consunzione, malattia, squilibrio statico, radicamento debole. Era una pianta sostanzialmente sana.
Nella scala di velocità del vento di Beaufort, che come la Mercalli per i terremoti classifica la magnitudo dell’evento in base alla rilevanza degli effetti, il vento di sabato notte è classificato tra la “tempesta” e il “fortunale”, il decimo e l’undicesimo grado della scala, dopo c’è solo l’uragano. Una delle peculiarità distintive di tempeste e fortunali è la capacità di sradicare grossi alberi.
La scala di Beaufort è stata pensata all’inizio dell’800, e tempeste e fortunali c’erano già. Quello che caratterizza il nostro tempo è il fatto che la frequenza, la probabilità che questi eventi ad alta energia si verifichino, è considerevolmente aumentata. La comunità scientifica lo va ripetendo in tutti i modi: il global change non è una cosa che verrà, ci siamo dentro fino al collo.
A rendere più difficile le condizioni di stabilità dei grandi alberi urbani, è il fatto che i venti si incanalano nei canyon tra i fabbricati con modalità imprevedibili, crescendo ulteriormente di forza e turbolenza, scaricando sovente la propria energia su suoli già imbibiti dalla pioggia, che hanno quindi perso tenacità e coesione.
La maggior parte dei grandi alberi urbani li abbiamo piantati 50, 60, 70 anni fa, quando le condizioni ambientali erano diverse. Molti di questi esemplari hanno pressoché esaurito la propria parabola di vita, che per un albero di città, costretto a vivere in condizioni difficili di suolo, spazio vitale e inquinamento, è su per giù un quarantennio.
Nel frattempo l’ecosistema globale e quello urbano sono mutati, di fronte a questi fenomeni il patrimonio vegetazionale della città va in crisi. Nella tempesta di sabato notte sono venuti giù come birilli anche alberi che risultano alla vista in buono stato di salute e con apparati radicali ben formati. Certo lo spazio non è mai adeguato. Per il cedro caduto a via Belvedere. servono almeno 100 mq di area libera e lui sopravviveva da decenni in uno spazio ben più piccolo.
La vegetazione presente nella nostra città soffre di un male che viene da lontano, la crescita veloce della città, con alberi messi a dimora in situazioni paradossali, troppo vicino alle abitazioni, in spazi residuali e piccoli, su suoli urbani non sempre idonei.
In questo contesto mutato, serve a poco puntare l’indice, alla spasmodica ricerca di un colpevole, continuando a considerare il verde un problema degli altri. Dobbiamo renderci conto che ormai la città ha bisogno di una vegetazione in continuo rinnovamento, un turn-over fisiologico, un ricambio generazionale. La convivenza con l’albero è qualcosa da ripensare, progettare, curare consapevolmente nel tempo.
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