Antonio di Gennaro, 27 giugno 2020
Alla fine del suo viaggio alla ricerca vana dell’immortalità Gilgamesh torna a Uruk, la città sulle sponde dell’Eufrate che ha edificato e di cui è re, l’osserva dall’alto e descrive com’è fatta: all’interno delle mura “un terzo di tutto è città, un terzo giardino, un terzo campagna”. E’ il primo racconto scritto di un ecosistema urbano di quattromilacinquecento anni fa, un millennio e mezzo prima dei poemi omerici.
Gli habitat dell’uomo sono ancora quelli – la città, il giardino, la campagna – è da questi che dobbiamo partire per discutere della nostra vita in tempo di emergenza, perché attraverso parole d’ordine come “distanziamento” e “confinamento”, la pandemia ha cambiato prima di ogni altra cosa la metrica dei nostri spazi di vita.
La cosa urgente ora è capire come sono attrezzati gli ecosistemi nei quali viviamo – Napoli, l’area metropolitana, la Campania – per adattarci alle nuove condizioni di vita; che possibilità abbiamo di farcela, tenuto conto che l’emergenza Covid non porta problemi nuovi, ma presenta tutto insieme il conto di quelli vecchi, lasciati lì a marcire.
Un primo aspetto è che, almeno per un po’, la densità non è più una virtù. La concentrazione di relazioni, occasioni, scambi che costituiscono la forza inarrivabile dell’ecosistema urbano, si è trasformata nel suo tallone di Achille, e c’è ora chi decanta le virtù del borgo, della periferia dispersa, della vita a bassa intensità.
Per una regione come la Campania, dove il 75% degli abitanti vive stipato sul 15% del territorio regionale, nell’area metropolitana più scombinata e pericolosa d’Europa, la pandemia appare l’occasione per un affrontare il riequilibrio demografico verso la green belt appenninica, la costellazione dei trecento piccoli comuni che ha perso in mezzo secolo più di un terzo della popolazione.
Per l’area metropolitana invece, tornando a Gilgamesh, l’emergenza rappresenta il momento buono per riscoprire il valore delle campagne urbane. Proprio come l’antica Uruk infatti, in maniera sorprendente la metropoli è fatta ancora per il 60% di spazi verdi – aree coltivate, boschi, pascoli – in un mosaico caotico con le aree urbanizzate e il reticolo di infrastrutture, che coprono il restante 40% dello spazio.
Se fino ad ora abbiamo considerato queste campagne come una specie di terra di nessuno, spazio di riserva per l’espansione edilizia, è questo il momento di riassegnare loro la funzione primaria: quella di spazi verdi multifunzionali nei quali, accanto all’agricoltura di qualità, si produce cultura, vita all’aria aperta, educazione e didattica, sport. Un bene pubblico insomma, il giardino della metropoli, al posto dell’immagine desolata della Terra dei fuochi. Ricordando che nella civiltà della Piana campana “giardino” è propriamente il frutteto, l’arboreto promiscuo tradizionale, col groviglio multiforme di piante da frutto e viti, sulle terre vulcaniche più fertili del mondo.
In altri termini, la metropoli ha al suo interno i suoi spazi pregiati di decompressione e distanziamento, quello che dobbiamo fare è rimuovere la coltre di incuria e degrado che li imprigiona, curarli un po’, viverli, vigilare, fare ordine, ricostruire una toponomastica e una leggibilità dei luoghi.
Per il capoluogo il discorso è simile, seppur a una scala diversa. Gli ecosistemi verdi in città coprono 3.500 ettari, 3.100 dei quali sono campagne, tutte protette dal Piano regolatore, e i restanti 400 ettari, che è invece la somma dei 52 parchi e giardini, dai maggiori come Capodimonte, Floridiana, il Parco dei Camaldoli e il Virgiliano, a quelli della Ricostruzione, fino ai più piccoli di quartiere e vicinato.
E qui veniamo al punto. Queste aree sono in potenza uno strumento formidabile, sono spazi sociali che la città può mettere in campo per attrezzarsi in tempi di pandemia. Sono beni pubblici, come sono beni pubblici le altre armi che abbiamo per vincere il male, il Cotugno, le terapie intensive, i centri di ricerca e i laboratori. Il problema delle aree verdi, dal Parco delle colline (in freezer da un decennio), ai parchi storici in disarmo, senza più manutenzione, è la loro accessibilità effettiva per gli abitanti, atteso che la lotta al virus non si fa con numeri, slogan e proclami, ma migliorando giorno per giorno la qualità dei nostri desolati ambienti di vita.
L’articolo è pubblicato in: COVID. Le cento giornate di Napoli. la Repubblica Novanta-Venti. Guida editori, pp. 171-173
3 commenti
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27/06/2020 a 13:40
Antonello Pisanti
“….quello che dobbiamo fare è rimuovere la coltre di incuria e degrado che li imprigiona, curarli un po’, viverli, vigilare, fare ordine, ricostruire una toponomastica e una leggibilità dei luoghi.”….
È quello che da circa un decennio sta cercando di fare l’associazione Miradois onlus che non a caso è presieduta da un pediatra-pneumologo……”Queste aree sono in potenza uno strumento formidabile, sono spazi sociali che la città può mettere in campo per attrezzarsi in tempi di pandemia. Sono beni pubblici, come sono beni pubblici le altre armi che abbiamo per vincere il male, il Cotugno, le terapie intensive, i centri di ricerca e i laboratori.” …. Quello di Miradois e della sua ” collina gentile” è uno spazio privato messo però a disposizione del pubblico e ” CONDIVISO” al cui interno non si cerca solo di coltivare la flora ( VITIGNI , AGRUMI, ORTI naturali e non solo , la fauna ( api, bombi, farfalle etc) ma si coltiva la Storia del Luogo, l’Arte in tutte le sue espressioni e la BELLEZZA in tutte le sue declinazioni.
27/06/2020 a 14:08
Antonello Pisanti
È quello che da circa un decennio sta cercando di fare l’associazione Miradois onlus che non a caso è presieduta da un pediatra-pneumologo.
Quello di Miradois con la sua ” collina gentile” è uno spazio privato messo però a disposizione del pubblico ( atti privati per interesse pubblico) e ” CONDIVISO” al cui interno non si cerca solo di coltivare la flora ( VITIGNI , AGRUMI, ORTI naturali e tanto …altro) e la fauna ( api, bombi, farfalle, etc) ma si coltiva la Storia del Luogo, l’Arte in tutte le sue espressioni e la BELLEZZA in tutte le sue declinazioni.
11/10/2020 a 00:07
erminia romano
Concordo con Antonello Pisanti: abito nella stessa (meravigliosa!) zona ma spesso siamo ridotti a chiedere a qualche ‘pia’ donna di aiutarci per mantenere un minimo di pulizia! E quando ciò non accade (a parte che anche loro si sono..arrese ormai, cosi come qualche giovane volenteroso del quartiere a causa della maggiore ‘pericolosità’ cui ci si esposti in questo periodo di contagi) arriviamo veramente a condizioni di terzo mondo! Nemmeno efficaci si sono rivelati i solleciti alla Circoscrizione perchè sostenesse nostre proteste ad ASIA.Vero, molti degli abitanti NON sono abituati alla ‘cura’ degli spazi esterni che sentono ESTRANEI, ma forse è su questo che bisognerebbe lavorare, in vari modi ma sicuramente iniziando a ‘dare l’esempio’ !