
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida
Un viaggio nei luoghi simbolo della città, lungo un itinerario in sette tappe, dai grattacieli fantasma del Centro direzionale svuotato, ai paesaggi mondiali di Posillipo distrutti dalla cocciniglia e dall’incuria, al limbo delle aree industriali estinte, a est e a ovest della città, ai quartieri informali ed abusivi. Un racconto pieno di sorprese e imprevisti, pubblicato a tappe sull’edizione napoletana del quotidiano “La Repubblica” con le foto straordinarie di Riccardo Siano, nell’anno secondo di pandemia. Il libro è pubblicato da Clean edizioni ed è fatto di sette pezzi solo in apparenza facili, che riguardano argomenti complicati: il destino di luoghi urbani importanti, lasciati in sospeso, dimenticati, interrotti, insieme alle proposte per rimetterli in gioco, restituirli ai cittadini, ripartendo dal quotidiano, dal temporaneo, dalle cose che possiamo fare oggi, in attesa del meglio.
Ecco la premessa degli autori.
Un urbanista e un agronomo in giro per Napoli. L’intenzione era quella di raccogliere idee, per contribuire al dibattito pubblico su come rimettere in cammino una città sospesa, interrotta, dopo un ventennio di governo stentato, a bassa intensità. È iniziato così il viaggio nei luoghi simbolo della città, nel secondo anno di pandemia, raccontato in sette reportage pubblicati sull’edizione napoletana de la Repubblica, ma anche sul sito web del quotidiano nazionale, a testimonianza di un’attenzione particolare del giornale per i fatti della terza città d’Italia.
Un itinerario in sette tappe, dai grattacieli fantasma del Centro direzionale svuotato dal Covid, ai paesaggi mondiali di Posillipo distrutti dalla cocciniglia e dall’incuria; al limbo senza prospettive delle aree industriali estinte, a est e a ovest della città. Su molte di queste cose avevamo già scritto nel corso degli anni, ciascuno per proprio conto, sempre su Repubblica, ma questa volta occorreva qualcosa di diverso: nel nuovo mondo, del quale anche Napoli evidentemente è parte, scosso dal crack del clima e dal virus globale, dall’irruzione della rete, dalla corrosione della fiducia e della democrazia, almeno come l’avevamo sperimentata nel ‘900; in questo mondo nuovo, per non ripetere inutilmente le stesse parole di prima, bisognava mescolare saperi e punti di vista: muoversi in territorio incognito, per leggere con occhi quanto più possibile sgombri, quel che accade nelle realtà diverse che confluiscono in quella cosa complicata che sbrigativamente chiamiamo “Napoli”.
Il linguaggio e gli strumenti sono naturalmente quelli del giornalismo. I pezzi raccolti in questo volume non sono saggi, ma articoli per i lettori del giornale; ciò che abbiamo fatto semplicemente è scendere in strada, zaino in spalla, per osservare ed esplorare i luoghi, parlare con le persone, respirare i paesaggi, e raccontare tutto in modo diretto, cercando il più possibile di mettere da parte gerghi, specialismi, messaggi rituali per addetti ai lavori. Le foto che Riccardo Siano ha scattato per il giornale, percorrendo assieme a noi i luoghi, sono un elemento essenziale della storia, che spesso comunica più e oltre le parole.
Al ritorno dal viaggio, due o tre cose avevamo soprattutto compreso. La prima riguarda il potenziale umano, l’attaccamento ai luoghi, la capacità delle persone e dei contesti di riorganizzarsi e adattarsi, di costruire pezzi di futuro, anche in assenza di un governo urbano e di un progetto comune. Questo è vero nella città abusiva di Pianura, come nella periferia industriale rarefatta di San Giovanni Barra Ponticelli, o in quella interna, incredibilmente densa, del centro storico: nel deserto della rete istituzionale, si muove tutto un mosaico di iniziative e storie collettive, si tratti di far rivivere la vigna antica dei Certosini sui terrazzamenti medievali di San Martino; di aprire una scuola di frontiera nei Quartieri spagnoli; di costruire orti sociali a Ponticelli, in mezzo al grade parco pubblico in rovina, per combattere marginalità e dipendenze; o di produrre cocciutamente un giornale di quartiere per perpetuare nonostante tutto una storia locale, una prospettiva.
Assieme a questo, la constatazione di quanto sia ancora fragile l’imbastitura che tiene insieme le molteplici tessere che formano il grande mosaico della città. A un secolo di distanza dall’accorpamento alla Grande Napoli della cintura dei casali – da San Giovanni a Pianura, fino agli anni ‘20 del secolo scorso comuni autonomi, con la loro storia, cultura, economia – un progetto unitario di città, ancora stenta ad affermarsi. Nel frattempo i borghi si sono tumultuosamente trasformati in centri urbani di 40, 50, 60mila abitanti, vere e proprie città nella città, ma un’agenda di governo, una strategia amministrativa che tenga conto delle necessità basilari di ciascuno di questi mondi, così diversi tra loro, per associarli finalmente in un’unica comunità di destino, ancora non c’è: la cosiddetta “città dei quindici minuti”, come si dice ora, resta una chimera, e Napoli continua a presentarsi come un’aggregazione provvisoria di villaggi. Alla fine, girando la città, risulta evidente come senza una strategia pubblica che tenga insieme tutto, la resilienza e l’impegno ammirevole di individui e comunità locali da soli non bastano, mentre rimane insopportabilmente largo lo scarto tra l’incredibile capitale umano, territoriale, culturale e simbolico del quale la città continua nonostante tutto a disporre, e le condizioni di vita reali dei cittadini. 17
Un esempio per tutti, l’accessibilità delle aree verdi. Come raccontato nei reportages raccolti nel libro, durante l’epidemia, nelle città del mondo l’uso di parchi e giardini urbani è raddoppiato, a volte triplicato, in risposta alla nuova domanda di spazi aperti di salute e socialità per i cittadini, soprattutto i più piccoli, i giovani, gli anziani.
A Napoli è successo il contrario, l’azzeramento della macchina gestionale e manutentiva del Comune ha portato alla decisione opposta, la chiusura pressocché totale degli spazi verdi, che è suonata come la dichiarazione di resa dei poteri pubblici, condannando la cittadinanza a vivere la forma più desolante di povertà: quella di chi non possiede più nemmeno la forza e la capacità di accedere al patrimonio di risorse che pure gli appartiene, che gli è vicino, ma resta lì, chiuso dietro un cancello, come il bosco appenninico di cento ettari dei Camaldoli, una foresta urbana straordinaria che entra dentro la città, e marcisce silenziosamente nell’incuria.
A Napoli il metabolismo urbano s’è bloccato. Il riciclo delle vastissime aree dismesse 90, 50, 30 anni fa dall’industria novecentesca, che in tutte le città un minimo governate si sarebbe fatto laicamente, senza tanta retorica, con una sobria e rapida messa in sicurezza, qui si è trasformato in un’opera pubblica a perdere, che non finisce mai, che non deve dar conto di sé, bruciando laidamente soldi pubblici, speranze e prospettive. Le eccezioni non sono molte, come il recupero a San Giovanni a Teduccio dell’ex area Cirio, che ora ospita il campus di Ingegneria. Eppure, i reportages nel libro raccontano come, se solo lo volessimo, il sortilegio potrebbe svanire in un attimo, semplicemente aprendo il cancello del parco provvisorio nell’ex area siderurgica di Bagnoli, che la natura con i suoi alberi ed erbe ha già costruito e messo in sicurezza per noi. Poter calpestare nuovamente queste terre è un buon esercizio di democrazia, e un’esperienza urgente, tenuto conto che la vita è breve – nel lungo termine Keynes ci ha ricordato cosa succede – e in ogni caso è bene che l’aria torni a circolare, il resto verrà.
Rileggendo a distanza di tempo gli articoli, ci siamo resi conto di quanto abbia pesato la pandemia. Abbiamo iniziato il viaggio che un vaccino e una cura non c’erano, e un senso di fragilità traspare in tutte le parole che abbiamo scritto. La malattia globale non è un ospite di passaggio, ma un protagonista nel nuovo mondo che ci attende: la vita delle persone e dei luoghi che abbiamo raccontato dovrà ancora fare a lungo i conti con essa. Così come è parte del viaggio il sentimento di gratitudine e riconoscenza provato al momento della vaccinazione, segno tangibile, esemplare del potere dell’azione pubblica, della conoscenza e della democrazia, quando sono chiamate a proteggere la vita delle persone.
Quanto al titolo, riecheggia evidentemente i “Sei pezzi facili” del fisico Richard P. Feynman, il libricino di Adelphi con il testo delle lezioni tenute dall’autore nei primi anni ‘60, su concetti di base come l’energia o la realtà quantistica, con parole e ragionamenti semplici e piani. Insomma i pezzi sono facili, ma gli argomenti difficili. Con le debite proporzioni, anche il libretto che proponiamo è minuto, e tratta di cose importanti – il destino di parti fondamentali della città – cercando di raccontare in modo semplice storie piuttosto complicate, o che sarebbero anche semplici, se avessimo la capacità di affrontarle con più coerenza e costanza. La parola “pezzi” poi, allude sia agli articoli di stampa raccolti nel volume, sia ai pezzi della città che vengono raccontati, ognuno abbandonato a una sua particolare deriva, spezzato dal contesto, in attesa.
Resta da dire qualcosa sulla scrittura del libro. I sette racconti tutto sommato scorrono, il lavoro a quattro mani non si avverte troppo, senza che ci sia stato bisogno, ripensandoci, di un’opera di raccordo particolare. Certo di ragionamenti ne abbiamo fatti, nella scelta dei luoghi, e poi sul campo, mentre l’esplorazione si svolgeva, con tutte le sorprese e gli imprevisti del caso. Ma poi ognuno tornava a casa, e scriveva le cose che credeva. Il fatto sorprendente è come poi i testi si combinassero con facilità, senza bisogno di chissà quali tagli o ritocchi. Comunque, se pure in queste diverse parti una differenza di vedute veniva fuori, non siamo stati lì troppo a smussarla, il lettore forse se ne accorgerà: in fondo, come proponeva Calvino nelle sue lezioni per il prossimo millennio, anche la molteplicità di sguardo può essere uno strumento utile, in questo mondo nuovo e incerto che ci tocca vivere.
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