Antonio di Gennaro e Fabrizio Cembalo Sambiase

Nel febbraio del 2020 con Fabrizio intervenimmo a Treviso al convegno della Fondazione Benetton dal titolo promettente: il suolo come paesaggio. Eravamo in piena tempesta e non lo sapevamo, al rientro a Napoli l’emergenza Covid è esplosa. Ora gli atti del convegno sono stati pubblicati a cura di Luigi Latini e Simonetta Zanon da Antiga edizioni. Ecco il testo del nostro intervento.

Se provi a digitare su Google la parola “terra”, è l’algoritmo a completare la frase, e tra le primissime opzioni compare proprio “terra dei fuochi”. È una conferma della risonanza mondiale delle vicende della piana campana massacrata dall’abusivismo e dai rifiuti, tanto da fare della locuzione un simbolo, un luogo comune, uno stereotipo. Qualcosa che viaggia nel discorso pubblico globale, spogliata alla fine di ogni aspetto misurabile, tecnico, territoriale. La cosa singolare è il fatto che sia stata alla fine l’agricoltura il principale imputato, anche se dopo sei anni neanche uno delle migliaia di campioni di prodotti agricoli analizzati ha rivelato problemi. Circoscrivere il problema è essenziale per definire le possibili soluzioni. Il modo generico ed emotivo con il quale questa questione è circolata sui social network è proprio quello giusto per allevare paure, guardandosi bene dall’indicare possibili strade d’uscita. Quello che abbiamo capito, alla fine, è che la Terra dei fuochi è una malattia del paesaggio. Malattia generata dall’assenza di pianificazione pubblica. Le 140 città intorno al capoluogo partenopeo si sono saldate in un’unica, informe periferia lunga 90 chilometri. In questa città malcresciuta sono rimasti intrappolati i lacerti di Campania felix, i suoli agricoli più fertili della galassia, con 20.000 aziende agricole che, su meno del 10% della SAU (Superficie Agricola Utilizzata) producono il 40% del valore della produzione agricola regionale. Terra dei fuochi è la tragedia dei due milioni di italiani che vivono faticosamente questo spazio che sfida l’umana comprensione. In questa situazione complessa, abbiamo lavorato a numerosi progetti di paesaggio per curare le ferite: gli spazi agricoli mortificati, le cave, le discariche. Alcuni di questi luoghi simbolo, come l’ex Resit di Giugliano, la “madre di tutte le discariche”, ora sono spazi verdi pubblici, abbelliti dai murales di Jorit e dalle istallazioni di land art degli studenti del Liceo artistico di Napoli. Lì vicino, nel podere di San Giuseppiello, dove i camorristi sversavano i fanghi delle concerie toscane, un bosco di 20.000 pioppi lavora per tenere in sicurezza i suoli e le terre. È un laboratorio verde all’aperto in continuo progresso, dove migliaia di studenti delle scuole pubbliche della Campania vengono a studiare e comprendere come si ricostruiscono i suoli e gli ecosistemi, restituendo dignità ai luoghi, e un futuro diverso alle comunità che li abitano.

Il territorio rurale metropolitano come “spazio vuoto”

L’agricoltura e gli agricoltori dell’area napoletana sono presenze invisibili, vittime di un mutamento epocale. Nell’ultimo sessantennio, l’esplosione della città sulle terre fertili della piana ha mutato per sempre un assetto territoriale che resisteva ancora a metà Novecento, e che costituiva il risultato di tre millenni di civiltà. A scala metropolitana, le aree urbanizzate, in assenza di una qualunque pianificazione pubblica, passano dai 20.000 ettari del 1960, ai 120.000 ettari attuali. Nel 1960, i centri urbani erano ancora isole compatte, a confini netti, all’interno di un mare di ruralità, con gli stessi paesaggi che aveva visto Goethe arrivando in carrozza da Roma, in un inverno di due secoli fa. Dopo la deflagrazione, le aree agricole si frammentano, diventano isole verdi incastrate nella maglia delle infrastrutture e dello spazio costruito. Il loro statuto diventa quello indefinito di spazi vuoti, per usare l’espressione di Bauman: “Gli spazi vuoti sono innanzitutto e soprattutto vuoti di significato. Non sono insignificanti perché vuoti: sono piuttosto visti come vuoti (o più precisamente non vengono visti affatto) perché non presentano alcun significato e non sono ritenuti in grado di presentarne uno… …Gli spazi vuoti…sono luoghi non colonizzati e luoghi che nessuno desidera o sente la necessità di destinare alla colonizzazione. Sono, potremmo dire, i posti “restanti” una volta completata l’opera di strutturazione degli spazi più appetibili … La vacuità del luogo è negli occhi di chi guarda e nelle gambe o nelle ruote di chi procede. Vuoti sono i luoghi in cui non ci si addentra e in cui la vista di un altro essere umano ci farebbe sentire vulnerabili, a disagio e un po’ spaventati.”

Questa agricoltura che è intorno alla città, spesso dentro la città, è invisibile all’opinione pubblica, ma anche alle istituzioni. A causa della sua estrema frammentazione, non viene nemmeno più rilevata dall’istat. Nel censimento dell’agricoltura 2010, meno della metà delle aree agricole effettivamente presenti viene censito. Il resto sfugge alla contabilità territoriale dello stato, è territorio invisibile, in attesa di destinazione.

La realtà, al di là delle statistiche stanche dell’istat, è sorprendente. Nonostante gli scempi del passato, il 60% dell’area metropolitana è ancora campagna, con coltivazioni agricole, frutteti, boschi, aree seminaturali, dal lago Patria a Punta Campanella, passando per le colline flegree e il Vesuvio. Un patrimonio rurale straordinario, che costituisce la parte pregiata del tessuto metropolitano.

Ancora, a dispetto di questo clamoroso difetto percettivo, i numeri veri raccontano invece di un’agricoltura della piana campana che, seppur incastrata nei vuoti del disordinato sistema metropolitano, è ancora viva, con un sistema di 38.000 aziende attive, che producono il 40% del valore aggiunto dell’agricoltura regionale, con valori di produzione unitari che sono tre volte la media regionale. Il motore dell’agricoltura regionale, nonostante tutto, è ancora qui.

La salubrità delle produzioni di questa agricoltura degli spazi vuoti – pregiatissime fragole, meloni, insalate, asparagi, pesche mele, cavoli, patate – che pure continuano ad essere acquistate in prevalenza dalla grande distribuzione, e viaggiano lungo le filiere lunghe di mezzo mondo, è stata recentemente messa in dubbio, a causa di possibili contaminazioni dovute ai rifiuti. L’assoluta diffidenza dei consumatori ha imposto per le produzioni della piana campana, una commercializzazione in forma anonima, con quotazioni ricattatorie, inferiori anche del 75% rispetto a quelle correnti, perché lo slogan imperante negli esercizi commerciali è “qui non si vendono prodotti campani”. Prese nella morsa del ricatto le aziende agricole chiudono, e lo spazio agricolo periurbano, in assenza di presidio e manutenzione, rischia di trasformarsi rapidamente in un deserto economico e sociale, una terra di nessuno, disponibile per ogni tipo di speculazione e manomissione.

Eppure, i rigorosi controlli effettuati dicono il contrario: i suoli agricoli contaminati identificati dal gruppo di esperti ministeriale assommano ad una trentina di ettari, mentre gli oltre 5.000 controlli effettuati sulle produzioni, ne hanno evidenziato la completa sicurezza e conformità alle leggi.

In definitiva, le conoscenze delle quali disponiamo consentono di affermare che la piana campana deve sì considerarsi un pezzo di territorio scombinato e sconquassato da un cinquantennale saccheggio, ma soffre alla fine degli stessi mali delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione e urbanizzazione. Si tratta certo di un contesto nel quale le attività agricole devono faticosamente convivere con un sistema urbano fuori controllo, ma almeno sotto il profilo della sicurezza alimentare l’inferno non abita qui, i prodotti agricoli si sono rivelati sicuri: gli spazi rurali continuano a funzionare come elemento di ordine e riserva di futuro, piuttosto che come centri di rischio. I risultati del monitoraggio capillare dei suoli e delle produzioni agricole condotto in questi ultimi due anni dicono questo.

In realtà, le aree da mettere in sicurezza sono perfettamente note da un decennio, sono le poche centinaia di ettari (su 140.000 ettari della piana) di pertinenza delle grandi discariche che per un trentennio hanno ingoiato flussi ingenti, legali e non, di rifiuti urbani e speciali. L’unica cosa da fare è quella di mettere in sicurezza una volta per tutte queste ferite, con approccio sobrio e tempi rapidi, restaurando un paesaggio leggibile, di qualità, e affrontando di petto la causa dei problemi, invece di inseguirne i malintesi sintomi. In assenza di ciò, il risultato, per ora, è l’assegnazione per legge all’area napoletana, da parte della comunità nazionale, di un marchio di inaffidabilità a tempo indeterminato.

Resta il fatto che il mosaico rurubano, fatto di spazi vuoti e poveri pezzi città, il paesaggio senza capo né coda, che si coglie dai viadotti che frettolosamente lo attraversano e scavalcano, è l’ambiente nel quale vivono i due terzi della popolazione provinciale, che ha oramai identificato proprio in questo disordine, nella fatica del vivere quotidiano che esso comporta, la principale minaccia alla propria esistenza e al futuro. La crisi della Terra dei fuochi sta tutta qui, nell’atteggiamento di complessivo rifiuto di un habitat percepito come ostile, a partire proprio dalle sue componenti rurali, considerate in un simile contesto alla stregua di vere e proprie fonti di rischio. Una prospettiva da ribaltare completamente, restituendo alle componenti rurali dell’area metropolitana, il ruolo prezioso di green belt multifunzionali, aree preziose di compensazione ecologica e di conservazione del paesaggio.

Curare le ferite

A partire dal 2012 abbiamo partecipato a ecoremed, il progetto LIFE sulla bonifica ecocompatibile dei suoli agricoli contaminati della piana campana, assieme a un’ottantina di ricercatori dell’Università Federico II di Napoli, un gruppo interdisciplinare di agronomi, biologi, chimici, geologi, medici, urbanisti, ingegneri, economisti coordinati da Massimo Fagnano, docente di agronomia presso il Dipartimento di Agraria.

Per cinque anni lo stato di salute degli ecosistemi agricoli della piana campana è stato studiato a fondo, con un check-up approfondito dei suoli, delle acque, della biodiversità vegetale e animale, del paesaggio, ma anche dell’economia, per capire le ferite che la tempesta mediatica della Terra dei fuochi ha lasciato sulla pelle delle aziende e degli agricoltori.

Le ricadute del progetto sono state molteplici. Innanzitutto, il contributo che il progetto ha fornito al governo italiano per l’identificazione delle aree potenzialmente contaminate, e la messa a punto di tecniche di recupero ecocompatibili, basate sull’impiego di piante, microrganismi e compost, che rappresentano un’alternativa concreta a quelle ingegneristiche. In questo modo, con un costo che è un ventesimo delle bonifiche tradizionali, è possibile salvare il suolo, evitandone l’asportazione o la sigillatura, con l’impianto invece di una vegetazione forestale che aiuta anche a ricostruire il paesaggio.

Un’altra ricaduta importante è stata l’applicazione pilota di queste tecniche, già nel corso del progetto, ad aree problematiche della piana campana, con l’impianto di boschi inerbiti dove trentamila pioppi, come instancabili fabbriche verdi, lavorano ora per estrarre i contaminanti e tenere in sicurezza i suoli e l’ambiente di lavoro.

Il terzo aspetto di rilievo è il lavoro di divulgazione svolto nel corso del progetto, con il coinvolgimento di migliaia di studenti, professori, amministratori, agricoltori: una capillare opera di informazione, per chiarire i reali aspetti della crisi della Terra dei fuochi, e le vie di uscita possibili. Le aree pilota del progetto si sono trasformate in un laboratorio, un’aula all’aperto dove gli studenti delle scuole pubbliche della Campania, con i loro docenti, vengono ad imparare come si cura e si recupera un paesaggio malato.

La storia del progetto ECOREMED è singolare, perché per una volta la ricerca scientifica è riuscita ad operare “in tempo reale”, nel pieno della crisi, con i risultati delle attività di studio che sono stati tempestivamente trasmessi ai ministeri competenti via via che venivano prodotti e validati, ed impiegati nella redazione dei due rapporti governativi sulla Terra dei fuochi, quello sulla mappatura dei suoli agricoli, e quello sugli aspetti socio-economici della crisi. Un’altra notazione positiva riguarda la cooperazione istituzionale, perché in tutta questa vicenda i ricercatori hanno lavorato in stretto contatto con le istituzioni, a partire dall’Assessorato regionale all’Agricoltura, che ha affiancato l’università come partner del progetto europeo.

I risultati di cinque anni di lavoro consentono di raccontare una storia molto diversa da quella mainstream di un’agricoltura inaffidabile e senza futuro, produttrice di rischio e malattia. Se c’è una cosa che funziona nella pianura campana, spezzettata da un cinquantennio di crescita urbana senza regole, sono propri gli spazi agricoli residui, che non sono pochi, rappresentando ancora il 65% del territorio complessivo. In queste aree, dei circa diecimila campioni di prodotti ortofrutticoli esaminati, quelli difformi dalla severa normativa europea si contano sulle dita di una mano, per colpa soprattutto del piombo, che non viene dal ciclo dei rifiuti, ma è quello tetraetile delle benzine super di quindici anni fa, che si è depositato, come accaduto in mezz’Europa, nelle fasce agricole più prossime agli assi stradali.

Anche i suoli agricoli potenzialmente contaminati alla fine sono solo una trentina di ettari, sui cinquantamila presi in esame, e per questi ecoremed ha messo a punto tecniche a basso costo per pulirli e metterli in sicurezza utilizzando boschi inerbiti, la cui azione di bio-fitorisanamento è opportunamente stimolata dall’apporto di compost e microrganismi autoctoni. Questi boschi verdi di fitorisanamento funzionano come sentinelle, consentendo il monitoraggio nel tempo del destino dei potenziali inquinanti nei diversi comparti dell’agroecosistema, ma sono soprattutto presidi di civiltà, il segno che lo Stato è ritornato, e che il paesaggio rinasce.

Il bosco più grande, sei ettari, è stato realizzato a San Giuseppiello, a Giugliano, vicino la discarica Resit, in collaborazione con l’ex Commissariato di governo. Qui, al posto della terra di nessuno, è nato un grande parco pubblico con ventimila pioppi. In questo arboreto magnifico la camorra, come accertato dalle indagini della Magistratura, ha scelleratamente interrato per anni fanghi industriali.

Come detto in precedenza, al posto delle tecniche ingegneristiche tradizionali, estremamente costose, e che per di più non consentono di proseguire con l’agricoltura, nel fondo di San Giuseppiello è stata invece completata l’operazione di messa a dimora di ventimila pioppi: un bosco inerbito che lavorerà negli anni, sotto attento monitoraggio, per ridurre la frazione biodisponibile dei metalli ora presenti nel suolo. Negli hot-spot a più elevata concentrazione di inquinanti sono state seminate specie iper-accumulatrici come la Senape indiana (Brassica juncea) che è tra le specie erbacee più efficaci nell’asportare i metalli.

Il costo dell’intervento è stato circa ottocentomila euro, contro venti milioni che sarebbero serviti con le tecniche tradizionali. Con il vantaggio di conservare queste aree all’uso agricolo, di non consumare il suolo, di ricostruire il paesaggio rurale.

L’impianto del bosco è stato preceduto da un monitoraggio capillare, con campionamenti tradizionali e con tecniche radiometriche innovative, delle effettive condizioni di contaminazione dei suoli. Sono state così prodotte mappe dettagliate, che descrivono lo stato di salute dei suoli sia in superficie che in profondità. In questo modo è possibile intervenire adeguatamente punto per punto, in funzione delle effettive condizioni di contaminazione.

Queste indagini hanno consentito di accertare una cosa importantissima: le particolari proprietà dei suoli vulcanici di San Giuseppiello hanno impedito la migrazione verso il basso dei contaminanti somministrati con i fanghi industriali, evitando che arrivino alle falde. Ad ogni modo, il grande bosco verde che si è finito di impiantare verrà scrupolosamente monitorato dai ricercatori dell’Università Federico II, per seguire l’evoluzione di tutti i parametri chimici e biologici.

Si tratta di un approccio estremamente interessante, perché potrà essere esteso agli altri siti della piana campana che hanno gli stessi problemi, con costi compatibili, ricostruendo e mettendo in sicurezza il paesaggio della piana campana. E’ questo un punto molto importante: a San Giuseppiello non si sta solo recuperando la fertilità dei suoli. Si sta anche ricostruendo il paesaggio. Al posto di un sito degradato, c’è ora un bosco verde che rappresenta anche un presidio visibile di legalità: un luogo nel quale grazie all’azione dei poteri pubblici si sta lavorando per rimediare ai crimini e agli errori del passato.

L’obiettivo è quello di curare i suoli agricoli senza distruggerli ed evitando anche di rimuoverli come se si trattasse di un rifiuto speciale da smaltire in discarica. Si tratta quindi di un approccio ben diverso da quello, per riferirsi a un caso molto noto, messo in campo in occasione di Expo 2015, dove cento ettari di suolo contaminato sono stati sepolti sotto una piattaforma di cemento, sulla quale è stata poi allestita l’area espositiva.

Come detto in precedenza, il bosco di San Giuseppiello è un laboratorio verde all’aperto, ma è diventato anche un’aula, un luogo di informazione e divulgazione, per mostrare e raccontare agli studenti delle scuole pubbliche campane, e ai cittadini, cosa si può fare concretamente per curare gli ecosistemi agricoli feriti, per ricreare condizioni di sicurezza e salubrità, per conservare e curare i suoli feriti di Campania felix.

Conclusioni

La “Terra dei fuochi”, con tutte le sue difficoltà, è stata alla fine anche l’occasione per una riflessione laica, senza slogan e infingimenti, sulle politiche ambientali in Italia, e sulla capacità del nostro apparato legislativo e amministrativo di progettarle e implementarle. È necessario riflettere seriamente sul perché, uno spazio rurale metropolitano, pure dominante dal punto di vista dell’estensione territoriale, alla fine sia diventato trasparente alle politiche pubbliche, assieme ai suoi abitanti, finendo per trasformarsi in uno “spazio vuoto”, un’area di risulta priva di valori specifici, nella quale un sistema urbano fuori controllo può vomitare tutti i suoi problemi ed esternalità.

Il dramma della Terra dei fuochi è tutto qui: la sua collocazione in un’area metropolitana, la terza del paese, ancora priva di un sistema minimo di governo del territorio, di una strategia pubblica in grado di restituire senso e coerenza ad un mosaico scombinato di realtà urbane sofferenti e di poveri pezzi di campagna.

La protesta degli abitanti della Terra dei fuochi – i due milioni di cittadini che popolano l’hinterland metropolitano di Napoli – parte da qua, da un ambiente di vita avaro di opportunità, vissuto come incerto e ostile, nel cui disordine anche gli scampoli di ruralità finiscono per essere percepiti, anziché come risorsa, come fonte di rischio. Se tutto questo è vero, ciò di cui ha disperatamente bisogno la cosiddetta Terra dei fuochi, non sono le bonifiche, anche necessarie, e reclamate a gran voce dell’arcipelago di comitati, che della crisi ambientale hanno fatto una questione identitaria, quanto le politiche.

A questo punto, la missione è piuttosto quella di ristorare i paesaggi, mettere finalmente ordine in un mosaico territoriale fuori controllo; dotare questo sistema congestionato di standard minimi di civiltà, ricreando un ambiente sicuro e attrattivo per i cittadini come per le aziende. In tutte queste cose, si è visto, lo spazio rurale non rappresenta il problema, quanto piuttosto la risorsa dalla quale partire per ricostruire un paesaggio di vita credibile. Sono cose che riguardano la dissestata filiera dei poteri, da quelli locali fino al governo centrale, maledettamente più impegnative degli interventi placebo messi in campo per arginare la tempesta mediatica degli ultimi anni.