Antonio di Gennaro, 1 novembre 2013
E’ possibile che si debba guardare alla manifestazione del 26 ottobre scorso a Napoli come a una data in qualche modo storica: quella nella quale l’hinterland di Napoli si è per la prima volta proposto come soggetto politico autonomo. La pianura vulcanica fertile attorno al capoluogo troppo a lungo ha funzionato come riserva silente, urbanistica ed elettorale. La tragedia collettiva della terra dei fuochi, l’improvvisa, dolorosa consapevolezza del saccheggio territoriale, dei crimini che sono stati commessi contro l’ecosistema e il paesaggio, la non tollerabile incertezza circa gli effetti sulla salute delle persone; tutto questo ha finito per funzionare come crogiuolo di nuove esperienza sociali e politiche.
“Grumo Nevano non deve morire” si leggeva sui cartelli, con lo slogan declinato per le decine di toponimi di comuni e città disseminate per la piana: i casali che ancora 60 anni fa conservavano loro fisionomia urbanistica, sociale e culturale, le loro agricolture, manifatture, opifici; tutti risucchiati nella selvaggia espansione urbanistica dell’ultimo quarantennio, che li ha fusi insieme in una disordinata, sterminata periferia con quattro milioni e mezzo di abitanti, della quale ciascuno di essi rappresenta ormai solo un indistinto, congestionato, povero segmento. Anche se, come nel caso di Giugliano, si tratta della terza città della Campania, entrata oramai nella lista delle prime 50 città d’Italia.
Eppure la manifestazione del 26 ottobre ha dimostrato come le identità locali non siano estinte, anzi. I comuni dell’hinterland reclamano ciascuno e collettivamente un proprio diritto al futuro, e tutti guardano con preoccupazione alla costituzione prossima della città metropolitana, vista come momento di definitiva dissoluzione, di subordinazione ad un capoluogo che li ha sino a questo momento disconosciuti e traditi.
Naturalmente tutto questo è anche frutto della drammatica incapacità di Napoli di costruire una leadership credibile, un proprio ruolo di rappresentanza e servizio, di lavorare ad un progetto di scala territoriale, in nome e per conto anche dei partner minori dell’alleanza: quei comuni e casali che hanno sfilato il 26 ottobre, per le strade gonfie di storia del capoluogo, contro il capoluogo. Un’incapacità, un atteggiamento angusto delle classi dirigenti napoletane, esercitato nei riguardi dell’hinterland, ma in fondo anche in casa propria, se la città vive ancora, come nel racconto di Leopardi, sulla convivenza di quartieri e municipalità che disperatamente vivono di vita propria, privi di un progetto e di un destino comuni.
Le modalità con le quali il nuovo soggetto territoriale e politico nasce non sono naturalmente quelle del passato, più comodamente gestibili dalle forze politiche tradizionali, ma piuttosto quelle poliformi e liquide del web, delle reti di comitati, con un ruolo importante svolto dall’infrastruttura capillare delle parrocchie e delle diocesi. Tutti i giochi risultano così scompaginati. Se sino a pochi mesi fa lo schema era quello di un centrosinistra egemone nel capoluogo e un centrodestra più competitivo nell’hinterland, tutto questo potrebbe all’improvviso non valere più, con il riproporsi a scala metropolitana di un nuovo campo di forze, simile piuttosto a quello assai più imprevedibile dell’attuale parlamento nazionale.
Quello che è certo è che in questa complicata situazione non è possibile salvarsi da soli. Quell’integrazione, quell’immagine unitaria che i territori campani non riescono autonomamente a costruire sul terreno dei progetti e dei valori territoriali, paesaggistici e culturali specifici, è l’opinione pubblica globale ad affibbiarcele rudemente, questa volta all’insegna dei veleni e di un insensato terrore.
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