Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 27 aprile 2019
Nella sua omelia nel Duomo di Acerra, il giorno di Pasqua, il vescovo monsignor Antonio Di Donna, ha parlato della sua come di una “città crocifissa”, martoriata dall’intreccio di una crisi ambientale, sociale ed economica che appare senza sbocco, criticando inoltre duramente l’ipotesi di potenziamento del termovalorizzatore, con la realizzazione di una quarta linea: “I ragazzi e i giovani continuano ad ammalarsi e a morire” ha ricordato Di Donna “prima la Montefibre, poi l’inceneritore hanno distrutto i nostri campi.”
Sono accenti e ragionamenti già presenti nel documento pastorale della Chiesa campana sui roghi tossici del novembre 2012, sottoscritto dai vescovi della “Terra dei fuochi”, con le diocesi di Aversa, Caserta, Capua, Acerra, Nola, Pozzuoli e Napoli. Eravamo allora all’inizio della tempesta mediatica che sarebbe esplosa nell’estate del 2013, con l’intervista televisiva del pentito Carmine Schiavone.
Dalla pubblicazione di quel documento sono trascorsi sette anni. Se pure buona parte dei problemi restano irrisolti, molte cose sono successe, ed è utile ragionare sulla lezione appresa.
Diversamente dai timori del vescovo, il monitoraggio capillare delle aree agricole e dei prodotti alimentari ha definitivamente scagionato il settore primario da ogni sospetto. I suoli e gli ecosistemi agricoli della piana non sono compromessi: sui 50.000 ettari analizzati solo 30 alla fine sono stati interdetti alle produzioni alimentari. Insomma, la distruzione dei campi, della quale parla monsignor Di Donna, riguarda l’abusivismo edilizio, non la presunta contaminazione. Nel frattempo però, l’allarmismo ingiustificato ha causato la chiusura di molte aziende agricole, lasciando spazio ulteriore al degrado.
Per il resto, è vero che il recupero delle ferite del territorio, e il restauro dei paesaggi violati procede a rilento, ma c’è pure qualche segno nuovo di speranza. La messa in sicurezza della RESIT, la madre di tutte le discariche, è completata. L’area di discarica, resa sicura, come accade negli altri paesi, è ora un parco con alberi e arbusti, mentre il vicino frutteto di San Giuseppiello, dove i Vassallo interravano fanghi industriali, è diventato un bosco con 20.000 pioppi, dove i suoli vengono puliti con tecniche naturali. Un approccio che deve ora essere esteso alle altre aree ferite nella piana.
Anche per quanto riguarda l’emergenza sanitaria, una lettura più approfondita è stata fatta. L’analisi dei dati del Registro tumori dell’ASL Napoli 3, comprendente gran parte del territorio di Terra dei fuochi, mostra come l’incidenza delle patologie tumorali sia in linea con il resto del paese, mentre la mortalità è di alcuni punti superiore. L’indicazione è che nella Terra dei Fuochi ci si ammala nello stesso modo, ma si muore di più. Il problema dunque c’è, e riguarda screening, prevenzione e cure tempestive; il rafforzamento dei servizi essenziali, piuttosto che bonifiche generiche e costose.
Su questo sfondo metropolitano sofferente, grava come un macigno il problema della chiusura del ciclo regionale dei rifiuti, con il superamento del deficit impiantistico, una necessità autorevolmente ribadita nei giorni scorsi sulle pagine di questo giornale da Paolo Mancuso e Ugo Leone.
Gli impianti dei quali disponiamo sono insufficienti, per ora ce la caviamo esportando fuori regione quasi metà di quanto produciamo, indirizzandolo a caro prezzo verso gli inceneritori altrui. Ci affatichiamo a incrementare la raccolta differenziata, ma poi mancano gli impianti di compostaggio e le piattaforme per il recupero dei materiali, e tutto si risolve, per usare l’immagine di Daniele Fortini, in una sorta di costosa e improduttiva “ginnastica collettiva”.
Ad ogni ipotesi di localizzazione di un possibile impianto, di qualunque natura e dimensione esso sia, segue inevitabile l’opposizione delle popolazioni. L’assoluta, invalicabile sfiducia delle comunità locali, rispetto ad ogni tipo di iniziativa pubblica, prevale per ora su ogni dato o valutazione laica, non ideologica.
Questa sfiducia si nutre anche di generalizzazioni, e sarebbe meglio non accomunare, come fa monsignor Di Donna nella sua omelia, in un riflesso di anti-industrialismo radicale, la Montefibre con il termovalorizzatore, una tecnologia quest’ultima in uso in gran parte delle città europee. Nello specifico poi, gli studi e i monitoraggi compiuti dicono che l’impatto sulla qualità dell’aria dell’impianto di Acerra è limitato, rispetto alle emissioni del sistema metropolitano dei trasporti: il traffico automobilistico, ma anche le grandi attrezzature di scala territoriale nel territorio di Napoli, come l’aeroporto e il porto.
A nessuno, in questo momento difficile della storia del Paese e del Mezzogiorno, sfugge il valore del pluralismo, la necessità che tutte le comunità, gruppi, corpi intermedi siano in grado di arricchire il confronto pubblico con le proprie visioni, esigenze, proposte. Nei territori sofferenti dei quali stiamo parlando la Chiesa, la scuola pubblica e il volontariato, rappresentano spesso le sole infrastrutture civili di ascolto e assistenza alle persone. Per questo, il segnale di sofferenza che la Chiesa raccoglie, del quale l’omelia di monsignor Di Donna è interprete, non può essere messo in discussione.
Se realmente intendiamo difendere assieme i cittadini, i territori, e le istituzioni democratiche che li rappresentano, è però il momento di una riflessione nuova, a distanza di sette anni da quel primo documento ecclesiale, che tenga conto con apertura, responsabilità e coraggio dei termini reali della questione, di tutti i dati e le analisi disponibili, delle cose che non sapevamo e abbiamo dovuto giocoforza apprendere. Le generalizzazioni apocalittiche non aiutano a trovare soluzioni, è il tempo dei ragionamenti.
2 commenti
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11/05/2019 a 10:20
Antonello Pisanti
Le parole e gli scritti consapevoli di Antonio Di Gennaro spingono ad un certo ottimismo ed incitano all’azione e non al “consueto atteggiamento di rassegnazione”, purtroppo spesso comune in alcuni ambienti e rappresentanze ecclesiastiche. Per fortuna il lavoro e l’impegno quotidiani spesso silenziosi di tante persone tra laici e cattolici concorrono ad avere un po’ di speranza per il futuro. Tuttavia è veramente sorprendente e paradossale specialmente quando la voce è proprio quella della Chiesa e si parla di alcuni territori e nella fattispecie di Acerra non si faccia mai più cenno ad un grosso ed ambizioso progetto di cui tantissimo si è parlato all’epoca : Il POLO PEDIATRICO DI ACERRA , Il sogno di Don Riboldi anch’Egli paradossalmente VESCOVO di ACERRA , il quale auspicava la costruzione (ricordo che fu posta addirittura la prima pietra) di un grande ospedale pediatrico per il Sud-Italia, di cui tuttora c’è tantissimo bisogno. Una vera necessità per impedire le migliaia di migrazioni di piccoli pazienti e … di risorse economiche, negli ospedali delle Regioni del centro-Nord Italia. Allora io dico: se pure non si ha il coraggio di riproporre di costruire un grande ospedale pediatrico in un territorio tanto discusso e forse a rischio per la salute, questo non vuol dire che comunque non vi sia bisogno, necessità ed urgenza di attuare finalmente un “sacrosanto” e “benedetto” progetto, indipendentemente da qualsiasi forma e sentimento di campanilismo magari pensando ad un’altra localizzazione.
11/05/2019 a 10:25
Silvestro Gallipoli
Caro Antonio, conosci benissimo le mie perplessità (giusto per utilizzare un eufemismo) relativamente alle interdizioni effettuate. Alcuni di quei terreni li conosco e non c’è alcun serio motivo per lasciarli interdetti. In particolare quelli interdetti per presunte anomalie geomagnetiche. Se effettivamente si sospettasse la presenza dei tanto ricercati “fusti tossici”, che si aspetta a scavare? Non si fa perché si sa bene che non c’è niente, altrimenti sarebbe semplicemente criminale. Per quanto riguarda la definizione della Resit come “madre di tutte le discariche”, ti invito a documentarti meglio anche alla luce delle ultime risultanze processuali che escludono qualsivoglia “disastro ambientale” e si limitano, in attesa del pronunciamento dell’ultimo grado di giudizio, a presumere una contaminazione della falda strettamente sottostante a causa di una presunta gestione irregolare della stessa. Io credo che, da cittadini, dovremmo molto vergognarci di quanto accaduto e tu, in particolare, da persona autorevole quale sei, usare molta attenzione nell’uso dei termini anche per evitare il perpetuarsi di questa vergogna da cui dovremmo, invece, tutti emendarci. Per il resto, non posso che apprezzare il tuo scritto.