Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 28 novembre 2017
Con la limitazione della circolazione sui viadotti insicuri, anche Genova si è trovata a vivere, certo in condizioni più estese e critiche, i disagi sperimentati a Napoli con la chiusura parziale della tangenziale. Tempi di percorrenza infiniti, cittadini e mezzi commerciali bloccati in lunghe code, e su tutto la sensazione di essere tornati indietro di cinquant’anni. Scopriamo così che il problema del deterioramento delle infrastrutture è di scala nazionale, che quel “debito pubblico territoriale” del quale dicevamo nell’articolo dello scorso 18 novembre – il costo delle manutenzioni e delle sostituzioni non fatte – rappresenta una posta passiva colossale, che si aggiunge a quella finanziaria, rendendo ancora più critico l’equilibrio di bilancio dello stato italiano. E’ evidente che in un simile quadro, aumentano gli aspetti di preoccupazione per il Mezzogiorno d’Italia, il pezzo di paese dove la crisi economica e istituzionale sta mordendo con maggiore violenza.
Il problema non è solo nostro, interessa molte economie avanzate, grandi paesi che in apparenza stanno meglio di noi. Attorno al deterioramento della rete autostradale statunitense si dibatte da almeno un quarto di secolo. Il budget pubblico per tenere in ordine le autostrade è costantemente diminuito, mentre l’Highway Trust Fund, l’ente federale che finanzia queste cose, è in bancarotta. A leggere i racconti sul New York Times, gli impatti sulle famiglie americane sono simili a quelli che stiamo vivendo noi, ed è questo il punto.
Nelle democrazie occidentali la rete dei trasporti è, in parte consistente, eredita del welfare state, un investimento pubblico colossale che, negli “anni d’oro” come li chiama Hobsbawm, dal secondo dopoguerra alla crisi degli ’70, ha cambiato la vita dei cittadini e delle aree geografiche, aprendo la strada alla modernizzazione, connettendo con modalità mai sperimentate prima le comunità nazionali, e rafforzando in ultima analisi le democrazie, pensiamo solo all’impatto sulla nostra società ed economia dell’Autostrada del Sole.
Ora il welfare è in crisi nera, e la risposta è stata la privatizzazione progressiva delle reti pubbliche, che pure erano state realizzate con il contributo collettivo, di lavoro e di soldi, di almeno un paio di generazioni. E’ un processo che le politiche dell’Unione europea, che ha fatto della concorrenza un idolo, più che un criterio di ragionamento, hanno fortemente promosso e incoraggiato. Con il crollo e l’ammaloramento dei viadotti prendiamo atto che si è trattato di un’operazione finanziaria, più che di un nuovo modello gestionale, visto che alla fine le manutenzioni e il turn over delle opere comunque non è stato fatto.
Il prezzo, alla fine, lo pagano i cittadini, come è assai bene descritto nel libro “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana” (Einaudi), frutto del lavoro di un collettivo di economisti e sociologi europei, tra i quali il nostro Davide Minervini del Dipartimento di scienze sociali della Federico II. Il libro racconta la grande crisi, dal punto di vista delle famiglie europee, che vedono progressivamente erodersi il paniere di beni e servizi pubblici, proprio quelli legati al welfare, che vanno dai trasporti, all’energia, all’istruzione alla sanità fino alla telefonia e internet, a causa dei mancati investimenti, della liberalizzazione dei canoni, in un regime che è diventato di fatto un oligopolio privato.
In tutta questa storia il Mezzogiorno d’Italia è l’anello debole, e qui il ministro Provenzano ha pienamente ragione a mettere in discussione la posizione di Milano, l’unica città italiana veramente legata all’economia globale, tanto da poter disporre di fatto di una finanza parallela autonoma, grazie alla sua capacità di attrarre capitali internazionali. E’ singolare che in questa situazione i pochi grandi investimenti strategici nazionali, dall’Expo al Technopole, riguardino il capoluogo lombardo, come una sorta di premio aggiuntivo alle straordinarie performance di Milano, la sola delle nostre città che Paragh Kanna colloca tra le “città-stato”, i gangli forti delle supply chain globali, sempre più insofferenti, per ragioni evidenti, ai governi territoriali, regionali o statali che siano.
Non c’è alcun dubbio. Le politiche nazionali stanno andando in soccorso dei più forti e non si capisce più, in questa partita per la vita, quali asset, quali carte possa giocare il Sud, con il suo marchio di “inefficienza” che è diventato la scusa – lo spiega bene Nadia Urbinati nel suo “La mutazione antiegualitaria” (Laterza) – per un indebolimento asimmetrico del diritto di cittadinanza, della possibilità di contribuire con pari dignità alla formazione delle scelte pubbliche nazionali.
Una cosa è certa. In tutta questa discussione evitiamo almeno di spararla grossa: certo una “nuova IRI” potrebbe essere d’aiuto, se si disponesse di qualche decina di miliardi l’anno, per tutto il tempo necessario a rimettere in sesto l’armatura fisica del Paese; di una classe dirigente credibile; e possibilmente, di una strategia territoriale decentemente riequilibrata. Se non c’è questo, sono solo slogan per prender tempo, guadagnare un po’ di spazio sui giornali.
(La foto è tratta dal sito del Fatto Quotidiano)
Lascia un commento
Comments feed for this article