
Antonio di Gennaro e Giuseppe Guida, 18 agosto 2021
Comincia qui il centro storico di Napoli, nel mare di ulivi e viti di Vigna S. Martino, sui terrazzamenti quattrocenteschi che attorniano la Certosa: tutto un sistema che i monaci costruirono di muri in pietra di tufo, rafforzati con archi, archi rampanti e contrafforti, e poi cisterne e acquidocci per regimare l’acqua e proteggere i suoli; una macchina paesaggistica strepitosa, che ci appare ancora stamattina com’è raffigurata nella Tavola Strozzi, la foto della città scattata cinquecento anni fa, un ricamo di migliaia di viti e ulivi, tra la Certosa e i Quartieri Spagnoli, che è insieme ecosistema, monumento, e opera d’arte. E un po’ metafora della città che pullula là sotto, immediata, dopo il cancello di accesso dal Corso Vittorio Emanuele.
L’appuntamento con Peppe Morra è di primo mattino, proprio lì, al cancello anonimo sul corso, percorriamo una rampa ripida tra i palazzi, poche decine di metri, poi miracolosamente si spalanca il grande anfiteatro verde, l’esperimento di agricoltura urbana tra i più importanti al mondo.
Lungo il sentiero in terra perfettamente curato che ci porta in alto, le cime degli alberi tremano nel vento; sotto di noi il reticolo immenso della città storica, fino al porto, il Maschio Angioino, il colonnato della piazza grande, poi si spalanca il golfo, con il Vesuvio e la Penisola sospesi nell’azzurro.
Quando trent’anni fa Morra ha scoperto questi luoghi, la vigna era un roveto immenso, in rovina. Con i suoi collaboratori è iniziato il lavoro – certosino è il caso di dire – di restauro, giorno dopo giorno, per riprendere e riparare i muri, le percorrenze, le vie d’acqua, ricostruire la morfologia originaria dove s’era perduta. Sino al reimpianto delle colture storiche, i vigneti e gli oliveti, sulla base di una lettura filologica dei luoghi. La risistemazione delle antiche morfologie ha fatto anche emergere il sentiero pedonale che i viandanti percorrevano quotidianamente per arrivare alla Certosa: segue le curve di livello del promontorio per poi terminare sopraelevato su archi di tufo verso l’ingresso, ora murato.
Peppe ci accompagna tra i filari rigogliosi delle viti, camminando accarezza le piante, si ferma a sfogliare un grappolo perché prenda luce. Ora siamo sulla terrazza più alta, proprio ai piedi della Certosa: nel buio fresco della cantina scavata nelle ceneri del vulcano, il bicchiere di falanghina coi riflessi d’oro che ci viene offerto è la sintesi di tutto. Per salvare e restaurare la Vigna, per quasi un decennio Morra ha dovuto mettere in secondo piano la sua attività principale di promotore e creatore d’arte e cultura, ma ora che la scommessa è vinta, questo paradiso verde si aggiunge alle altre due creature cui ha dedicato la vita, il “Museo Nitsch” e “Casa Morra”.
Al ritorno, sulla terrazza larga di un oliveto, un gruppo di bambini gioca e impara all’aria aperta sotto lo sguardo di giovani animatori. “In questo anno e mezzo di lockdown” racconta Morra “la Vigna è stata uno spazio importante per i bambini di un quartiere dove il verde non c’è. Inspiegabilmente gli spazi verdi della città invece di essere potenziati sono stati chiusi. Noi possiamo essere d’esempio, offrire un modello, ma il problema rimane, la domanda sociale di aree verdi è enorme, ci sono in città altri 2.300 ettari di agricoltura storica da recuperare e far vivere, da Pianura a Poggioreale, nel Parco delle Colline di Napoli, un’istituzione nata col piano regolatore, della quale non si sa più niente, come dissolta nel nulla”.
Molti dei bambini che abbiamo incontrato sono allievi della Fondazione Focus, la cittadella dell’educazione sorta nel grande convento che s’era svuotato, proprio al centro dei Quartieri Spagnoli. Per capire anche questa storia ripassiamo il Corso, ci reimmergiamo nella città di pietra, il quartiere pensato quasi cinquecento anni fa da don Pietro da Toledo per dare alloggio ai soldati e agli inurbati nella capitale che scoppiava d’uomini, un caso unico di edilizia residenziale d’iniziativa pubblica che ha resistito mezzo millennio, insieme ai suoi abitanti,
La densità abitativa è altissima, oltre 17mila abitanti per chilometro quadro, più del doppio della media comunale; il 10% dei bambini di Napoli vive qui, in questa città senza prati e alberi (il solo polmone di verde pubblico del vecchio Ospedale militare è fruibile a mezzo servizio, nonostante i tanti milioni spesi); e qui si registra il tasso di evasione scolastica più alto d’Italia.
Rachele Furfaro e Alberto Caronte ci accolgono nel chiostro pieno di vita, arte e colori della Fondazione Quartieri Spagnoli: con Renato Quaglia sono le persone che hanno immaginato questa realtà e la fanno vivere ogni giorno. A loro, chiediamo innanzitutto cosa ha significato per il quartiere questo anno e mezzo di pandemia. “L’impatto è stato devastante, le statistiche ci dicono che 6 bambini su 10 non ce l’hanno fatta, hanno lasciato, e il problema non è tecnologico, il computer o la connessione, quanto l’interruzione della relazione educativa diretta, in contesti domestici precari, dove la DAD per il bambino o il ragazzo significa solitudine e isolamento.”
È questa relazione che Foqus ha dovuto costruire, nel quartiere con il deficit educativo più alto d’Europa, e l’idea è stata innanzitutto quella di rivoluzionare i rapporti, qui in ogni classe lavorano sei maestri, contro i tre del metodo istituzionale. “Questi bambini non vedono un futuro: in assenza di una risposta adeguata da parte delle istituzioni, l’unica cosa che possiamo fare è prenderci carico di queste esistenze. Ma non basta, è necessario lavorare con le loro famiglie, perché non abbiamo risolto niente, se un briciolo di speranza non si riaccende anche nei genitori e nei fratelli maggiori.”
Per non spezzare questo filo, i maestri di Foqus nel lungo lockdown hanno dovuto lavorare d’intelligenza, sfruttando tutte le occasioni per dare continuità al rapporto personale coi piccoli, facendo lezione all’aperto, dai balconi, nei chiostri, o sotto gli alberi della Vigna. Anche se la legge non è stata violata, innumerevoli sono stati i controlli dei vigili, in un’applicazione di pignoleria burocratica difficilmente comprensibile.
Insomma, in queste situazioni una delle cose più importanti da fare è restituire senso e significato ai luoghi, riscoprirli come spazio pubblico, proprio come ha fatto Peppe Morra duecento metri più alto nella Vigna, ed è con evidente orgoglio che la Furfaro ci racconta dell’ultimo lavoro di Foqus, presentato pochi giorni or sono: la realizzazione di una toponomastica interattiva dei Quartieri Spagnoli, con una mappa e una segnaletica che oltre ad aiutarti nell’orientamento in mezzo al dedalo incredibile di vicoli, ti racconta sul tuo smartphone la storia lunga, la cultura e il significato degli spazi che stai percorrendo.
Progetti reali, fattibili, in linea con i tempi, indirizzati ad un obiettivo, forse parziale, ma connessi con quello che accade. Il contrario, insomma, dei disegni vaghi e pretenziosi dei progetti urbani e architettonici proposti negli ultimi decenni per il centro storico. Guardando con gli occhi attuali sembra quasi impossibile che si siano persi decenni a discutere di menate urbanoidi come “Il regno del possibile”. Una visione redatta comodamente poggiati su un tavolo da disegno e a chiacchiere, che alterava in senso “moderno” l’intero centro storico, con sventramenti per strade e grandi attrezzature urbane. Una visione in ritardo non solo sui grand travaux di fine ottocento, ma anche sulle utopie corbusierane, fraintese e fuori tempo massimo, come nei casi del Centro Direzionale e delle macrostrutture residenziali pubbliche piazzate attorno agli antichi casali (Secondigliano, Ponticelli, Miano, Barra).
Dalla prospettiva verso la Stazione Marittima, si percepisce dalla Vigna il brandello di un’ennesima visione urbana forse un po’ più calibrata sui luoghi: quella di Carlo Aymonino di più di trent’anni fa, che prometteva un taglio in diagonale dei Quartieri Spagnoli, dalla Certosa fino al porto. Un richiamo, quasi il fossile di quella visione immaginifica, è rappresentato dal taglio centrale oggi già realizzato al centro di Piazza Municipio, pensato da Alvaro Siza per la stazione della metropolitana, una sorta di segno urbano attraverso il quale guardare l’invaso sottostante.
Se si escludono le desolate ricostruzioni “in stile” di alcune insulae urbane, uno dei pochi episodi potenzialmente in grado di catalizzare lo spazio pubblico portando un segno di attualità nelle incrostazioni edilizie dei Quartieri Spagnoli, è il Mercatino e Centro Sociale progettato da Salvatore Bisogni e Anna Bonaiuto in via Sant’Anna di Palazzo, un luogo oggi mortificato dall’incapacità gestionale di Comune e Municipalità, e forse anche di una città che non l’ha capito del tutto.
Per quanto riguarda poi i restauri promessi con i 100 milioni di euro (oggi 80, domani forse ancora di meno) del programma Unesco, i pochi cantieri partiti sono tutti in corso, i tempi di chiusura dei lavori tutti sforati: se articolare un giudizio sull’operazione sulle singole operazioni sarà possibile forse tra qualche anno, quello che si può dire oggi è che l’obiettivo principale è già stato mancato: prevedere una serie di interventi integrati, diffusi e articolati, appunto, in un “grande progetto” capace i generare tutela e rilancio.
Per lasciarci definitivamente alle spalle i progetti di manomissione del centro storico, meglio ripartire da cose più semplici e alla portata, cominciando ad esempio dal progetto di pedonalizzazioni mirate (ora più credibili con il completamento delle nuove stazioni della metropolitana), e riqualificando le antiche pedamentine, evitando magari che siano impunemente invase dalle superfetazioni abusive, come nel caso della Salita del Petraio.
Nonostante le tante parole spese sul centro storico, ciò che preoccupa è che nessuno, pensando a cosa saranno queste zone tra 20 o 30 anni, riesca a prefigurare un cambiamento reale, uno scarto di lato improvviso, qualcosa di programmato e attuabile con la speranza di mutare lo stato delle cose e la vita degli abitanti. Una mancanza di prospettiva preoccupante, che affida il futuro alle visioni dei privati che si avventurano, alle occasioni estemporanee, all’informale, alla fortuna.
E allora un credibile programma politico sarebbe, proprio come per le periferie esterne della città, quello di recuperare una capacità di gestione ordinaria e quotidiana dei luoghi, un impegno di cura e attenzione che è alla base di esperienze rigenerative, come la Vigna, e come Focus, o come l’Associazione Quartieri Spagnoli Onlus, animata da Giovanni Laino e Annamaria Stanco, che da quarant’anni si occupa di progetti di protezione sociale dei più deboli.
Comprendendo che “rigenerazione urbana” qui significa soprattutto lavorare con le persone, produrre spazio pubblico, riconoscendo e interpretando il mix e gli episodi di annidamento sociale che contraddistinguono questi densi ambiti urbani. Consentendo a chi vuole agire, di agire di concerto e con il sostegno delle istituzioni, senza impedimenti vuoti e con poche regole irrinunciabili. Un augurio, più che un programma.
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