Era rimasto un po’ fermo Horatiopost, ora si riprende. Una raccolta di articoli scritti negli ultimi tempi per Repubblica Napoli.

Posillipo ovvero come ti ricostruisco la città

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 18 gennaio 2023

Questo giornale ha seguito passo passo la vicenda della ricostruzione dei viali distrutti di Posillipo, dando  conto di tutti i diversi aspetti, dei punti di vista, dei problemi aperti da risolvere, resta ora da ricomporre il quadro, stabilire finalmente il da farsi.

Alcune cose appaiono piuttosto chiare, a partire dal fatto che il punto critico non è la scelta della specie da impiegare. L’ha spiegato bene il soprintendente Buonomo: prima di pensare agli alberi occorre progettare il suolo destinato ad accoglierli.

Per fare questo è necessario ripensare la sezione stradale, il sopra e il sotto, e ricostruire preliminarmente lo spazio sufficiente di vita, l’habitat idoneo per i nuovi organismi viventi che intendiamo mettere a dimora per i prossimi 150 anni, assieme alla rete intricata dei sottoservizi.

Evitando in questo modo di ripetere gli errori e le forzature dei progettisti del Duce, che per ottenere viali imperiali di pronto effetto piantarono i pini alla metà della distanza necessaria per una loro crescita equilibrata, che è come pretendere di allevare un delfino nella vasca da bagno.

Una volta ricostruito un suolo fertile, è possibile riflettere su quali specie arboree impiegare per i nuovi paesaggi di Posillipo, che è un esercizio di saggezza e responsabilità, si tratta di capire il tempo che viviamo, perché l’ecosistema urbano della Napoli del terzo millennio non è quello (purtroppo) di inizio ‘900, c’è un clima fatto di eccessi e difetti d’acqua e temperatura, di eventi estremi, la vita dei grandi alberi in città è diventata una cosa assai complicata, in più ci sono i nuovi nemici, a cominciare dalla cocciniglia venuta da lontano che i pini del Duce li ha uccisi quasi tutti.

In un contesto ambientale così problematico la proposta dell’assessore Santagada di pensare a un gruppo di specie, in funzione della situazione specifica, piuttosto che a una specie sola, appare assolutamente ragionevole. D’altro canto il piano paesistico vigente è stato scritto quando il cambiamento climatico non era nella nostra mente, e una riflessione serena da parte delle istituzioni competenti, con le necessarie modifiche, sarebbe un atto di ragionevolezza, più che un cedimento.

Rimane il fatto che la ricostruzione di Posillipo potrebbe rappresentare un momento di svolta nella vita della città: la presa di coscienza che il lavoro che abbiamo davanti è quello di mettere in sicurezza e rigenerare il capitale urbano e vegtazionale nella sua interezza, da San Giovanni a Bagnoli.

Per fare questo occorre ricomporre daccapo una macchina comunale svuotata di energie e competenze: per manutenere il verde di Napoli occorrono almeno 20 agronomi in pianta stabile, non i valorosi quattro che lavorano a contratto. Occorrono gli ingegneri e gli architetti, e il flop del concorso con il quale dovevamo assumerne cento e ne abbiamo trovati una decina – l’ha raccontato bene Giuseppe Pulli su queste pagine – riempie la nostra mente di pensieri.

Lotta all’abusivismo e cura del bosco, le due facce della (in)sicurezza territoriale

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 28 novembre 2022

Quando irrompe dal limitare del bosco, sopra via Celario, il fiume di fango e massi ha percorso dal crinale dell’Epomeo un dislivello di 400 metri, dispone già di tutta la sua forza distruttiva, pure l’ago del sismografo impazzisce.

Prima di giungere al mare, gli resta da dilaniare un chilometro di terrazzamenti agricoli, case, persone e automobili e ha ragione Mimmo Calcaterra nella sua intervista al Corriere, siamo di fronte a un evento complesso: non una sola frana, ma una molteplicità di distacchi e liquefazioni, una dinamica che si auto-alimenta, dopo la pioggia anomala di una notte, e la mente va al maggio ‘98, ai giorni tragici delle cento frane simultanee di Sarno e Bracigliano.

Tutte cose che sapevamo già. I suoli vulcanici, sui quali cresce la foresta sopra Casamicciola, sono tra i più fertili al mondo, ma anche i più fragili, per certe loro proprietà chimico-fisiche, che in determinate condizioni di shock e umidità li trasformano in un istante da terra solida in fango.

Abitare queste terre significa perciò da sempre convivere con molteplici rischi: quello vulcanico (l’Epomeo è parte del complesso vulcanico dell’isola di Ischia, tuttora attivo); quello sismico, come la sequela tragica di terremoti, sino a quello recente del 2017, ci ricorda; e infine quello idrogeologico, e qui siamo alle frane di sabato mattina, anche se la prova generale c’era stata nel 2006, sempre a Casamicciola, quando una colata venuta giù dal Monte Vezzi cancellò la vita di quattro persone, insieme alla loro abitazione.

Nonostante i rischi, nella mente degli abitanti ha prevalso lungo quasi tre millenni un legame forte di vita con queste terre, con pratiche collettive virtuose, come  quella che ha portato alla costruzione nei secoli dei terrazzamenti storici, coi vigneti e gli orti arborati dell’isola d’Ischia, un ecosistema e un paesaggio rurale di bellezza e valore conservativo inestimabili.

Alle pratiche sociali virtuose sono seguite quelle distruttive, parliamo della sciagurata proliferazione nell’ultimo sessantennio, proprio nelle aree più a rischio, ai piedi della montagna fragile, di un tessuto disordinato e continuo di edilizia fai-da-te, che ha moltiplicato per sette la superficie urbanizzata: un mosaico scombinato di infima qualità, insicuro, che consuma il suolo e mortifica il paesaggio.

Ad ogni modo, nelle drammatiche foto di sabato, subito dietro le casupole disordinate di via Celario, si vede il mare verde della foresta, la fascia di boschi lussureggianti che ricopre con continuità i versanti alti dell’Epomeo, ed è anche intorno al bosco che i fatti di sabato ci portano a ragionare, perché è lì che il fenomeno è iniziato.

Come questo giornale ha più volte raccontato, dentro l’area metropolitana di Napoli, coi suoi tre milioni di abitanti, la più congestionata d’Europa, è pure presente, contro ogni aspettativa, una superficie forestale di 20.000 ettari, una città verde grande due volte il capoluogo, fittamente compenetrata con quella grigia di cemento,.

Si tratta di una ricchezza enorme, ma anche di un patrimonio di ecosistemi assai fragile, esposto com’è alle sollecitazioni del cambiamento climatico, con la temperatura media che sale, la siccità che morde, e il vento e le precipitazioni che tendono a concentrarsi in eventi a elevata intensità e energia, sempre più frequenti, i cui impatti sulle terre non sono più controllabili.

Se questo è il territorio nel quale ci tocca vivere, la prevenzione di eventi tragici come quello di sabato richiede di lavorare su molteplici fronti, cominciando da un cambio di marcia nella lotta all’abusivismo, un fenomeno che in queste terre tocca record continentali, ipotecando per il beneficio effimero di pochi, grazie alla storica assenza di controlli, il futuro di intere comunità.

A seguire, ciò di cui pure abbiamo disperatamente bisogno, è una nuova politica di cura e utilizzo programmato dei 20.000 ettari di foreste metropolitane, dai Monti Lattari al Vesuvio alle colline flegree a Ischia, attraverso un lavoro capillare, quotidiano, tenace di governo e messa in sicurezza dei suoli e dei soprassuoli, e di contenimento dei rischi di frana e incendio, il più delle volte conseguenze dei processi opposti, ugualmente nefasti, del sovra-sfruttamento e dell’abbandono.

Come sempre, è un problema di governo, cura e programmazione della casa comune, si tratti della città verde, fatta di foglie e tronchi, come di quella grigia, di pietra. L’alternativa, è la condanna dei nostri paesaggi più preziosi, delle economie locali, delle prospettive di vita delle nuove generazioni di abitanti, a un futuro incerto, un limbo perpetuo di approssimazione, dolore, precarietà, insicurezza.

Gli alberi di Ponticelli, un impegno per il futuro

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 22 novembre 2022

Una mattina a Ponticelli, dopo i giorni difficili della violenza, le istituzioni si sono ritrovate, il Comando forestale dell’Arma dei Carabinieri ha voluto celebrare qui, ieri, in questo quartiere di Napoli grande quanto una città, la Giornata nazionale dell’albero, mettendo a dimora nuovi alberi nel parco pubblico “Fratelli De Filippo”, ed è stato un bel momento di festa, sotto un cielo azzurro e terso, con una presenza folta di bambini, educatori, cittadini, neo-agricoltori degli orti sociali, e i tanti volti della rete di volontariato che è la risorsa inesauribile del quartiere.

Dicevamo le istituzioni, a tutti i livelli di rappresentanza, perché il progetto dei Carabinieri Forestali ha un respiro nazionale, coinvolge insieme a Napoli tutti i capoluoghi di regione d’Italia, è stato pensato in collaborazione con il Ministero per l’Ambiente e l’Unesco, anche questa giornata di Ponticelli è stata organizzata assieme a Regione Campania e Comune di Napoli.

Il progetto si chiama “Un albero per il futuro”, l’idea è quella di partire dagli alberi per ragionare insieme di cura e manutenzione della città, del diritto di ciascuno, si tratti di centro o di periferie, ad abitare un ambiente salubre, gradevole, stimolante; del rispetto della vita e della legalità.

Per tutti questi aspetti, il parco “Fratelli De Filippo” è veramente un luogo-simbolo. L’area verde è enorme, dodici ettari, più grande della Floridiana, è una delle opere della Ricostruzione, realizzato negli anni ’80 restò inaccessibile un decennio, poi finalmente inaugurato all’inizio degli anni ’90, con la prima amministrazione Bassolino. Il resto è una storia triste di declino: dopo decenni di gestione inesistente, la parte fruibile del Parco si arresta ormai al primo ettaro, con il grande piazzale: per i restanti undici, la vegetazione arborea di pini palme oleandri e magnolie è abbandonata a sé stessa, e va evolvendosi in boscaglia, un muro inaccessibile di rovi, con i viali e gli arredi che si sbriciolano e finiscono in malora.

La riconquista palmo a palmo di questo paradiso perduto è opera della comunità locale, della rete di associazioni, scuole, parrocchie fiorita nel tempo attorno al centro diurno “Lilliput” del servizio dipendenze dell’Asl Napoli 1, che ha strappato ai rovi terrazza dopo terrazza, grazie al lavoro di cittadini appassionati e cocciuti, dando vita al giardino di orti sociali  tra i più belli d’Italia, stamattina nell’aria fresca e pulita è tutto un ricamo preciso di filari di finocchi verze, cavoli e broccoli di ogni foggia, piante aromatiche, e il verde tenero delle fave.

L’elenco di sigle, organizzazioni enti che tiene in vita questa esperienza unica di riappropriazione dei luoghi è lungo, oltre il centro Lilliput per la cura delle dipendenze c’è il Nucleo Operativo di Neuropsichiatria Infantile dell’Asl Napoli1, le cooperative sociali “L’Albero della Vita” e “ERA”, ed ancora “ReMida”, “Renato Caccioppoli”, “Terra di Confine”, “Ve.Spe”, “ANMIL”, “La Roccia”, il “Comitato cittadino” di Ponticelli; le scuole pubbliche, con gli istituti superiori “Ugo Tognazzi”, “Archimede”, “Calamandrei”, poi certamente la Chiesa di San Pietro e Paolo, con la facciata ocra che dà proprio sul parco e stamattina brilla luminosa nel sole.

Alla fine anche l’amministrazione comunale ha dovuto riconoscere il valore di questa esperienza “dal basso” per molti versi unica nel panorama cittadino, stipulando con il Centro dipendenze dell’ASL Napoli 1 un accordo di collaborazione per la gestione degli orti sociali e degli spazi verdi riconquistati. All’interno dell’accordo, ciascun gruppo, ente, associazione, prende in affido una terrazza, impegnandosi a curarla e coltivarla rispettando un programma di gestione collettivo, costruito attraverso una serie paziente di incontri ed assemblee periodiche per risolvere i piccoli e grandi problemi, e decidere insieme gli sviluppi futuri.

Per le persone che prendono parte all’esperienza, gli orti sociali funzionano di volta in volta come spazi terapeutici, aule all’aperto per imparare la natura, luogo di incontro, di esplorazione, di gioco, di produzione artistica, di cura della persona, con l’agricoltura che rimane nonostante tutto, ancora in questo terzo millennio, il fulcro identitario di questo antico casale, il linguaggio comune, l’elemento di riconoscimento e aggregazione.

I piccoli delle scuole medie ed elementari sono arrivati stamattina con gli educatori delle cooperative sociali, molti di loro vengono da famiglie Rom, ridono e giocano con gli altri, ora tutti assieme aiutano gli operai forestali a mettere a dimora nella grande aiuola sul piazzale i giovani alberi, sono ontani, frassini, farnie, pioppi, olmi, le specie della foresta planiziale che c’era qui nella pianura del Sebeto, prima che i Sanniti fondassero il primo di villaggio, prima che il bosco fosse sostituito poco a poco dal sistema capillare di campi, porche, cavedagne e canali di scolo, il mosaico di orti che ha nutrito la città per duemilacinquecento anni. Tutto è descritto raccontato in una bella bacheca anch’essa dono dell’Arma

In una terrazza degli orti sociali le specie arboree messe a dimora sono invece quelle della tradizione agricola, il ciliegio, il melo, il gelso, il melograno. I bambini guardano gli operai al lavoro, i loro gesti lenti e pensati, capiscono che piantar alberi è un’arte, quella di saper scegliere l’albero giusto, al posto giusto, per la giusta funzione.

Assieme agli alberi, sono parte del dono un grande tavolo, con le panche, tutto in legno massiccio, ricavato da alberi morti per cause naturali all’interno delle riserve naturali dello Stato gestite dell’Arma dei Carabinieri, i bambini non perdono tempo, hanno fame, se ne appropriano subito, accalcandosi tutt’attorno per uno spuntino.

La mattinata volge al termine, l’azzurro si appanna appena un po’, nel grande parco, in mezzo alla piccola folla di cittadini, amministratori, lo stormo variopinto di bambini, le uniformi precise dei carabinieri, cogli come un senso di serenità, di unità, il piacere d’esserci stati, la soddisfazione per il lavoro fatto, per l’attenzione e l’apprezzamento finalmente ricevuto.  Ponticelli stamattina è Napoli, è Italia, ha una storia da raccontare, come gli altri trenta quartieri della città, i piccoli alberi cresceranno, se ne avremo cura, assieme a questi bambini, ogni giorno, in un lavoro che non finisce mai.  

Sovranità alimentare, istruzioni per l’uso

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 ottobre 2022

C’è grande attenzione al linguaggio in questa fase d’avvio del governo Meloni: il maschile o il femminile delle cariche, ma anche la nuova denominazione di alcuni ministeri importanti. Visitando il Centro Agroalimentare di Roma nei giorni scorsi il neoministro Lollobrigida ha precisato che l’acronimo del suo dicastero sarà “Masaf”, che sta per Ministero delle Politiche agricole, della Sovranità alimentare e forestale.

Dunque, la sovranità alimentare al centro, anche se non è semplice capire di cosa stiamo parlando. Il ministro ricorda opportunamente che non è questa maggioranza di governo ad aver coniato l’espressione, la cui nascita anzi avviene in un’area politico-culturale del tutto diversa, la Conferenza internazionale del movimento “Via Campesina” che si è svolta in Messico nel 1996, e poi il Forum per la sovranità alimentare del 2007 in Mali, nella cui dichiarazione finale è scritto che “la sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto con metodi ecologicamente corretti e sostenibili, e il loro diritto a definire i propri sistemi alimentari e agricoli”. Insomma, il concetto di sovranità alimentare nasce in risposta a quello di “sicurezza alimentare”, ponendo l’attenzione sulla difesa dei piccoli agricoltori, allevatori e pescatori locali dagli arbitrii del mercato globale.

L’espressione ha avuto successo, anche grazie al lavoro illuminato e tenace di persone come Carlo Petrini e dell’organizzazione Slow Food da lui fondata, ed è stata adottata a scala mondiale da governi e organizzazioni internazionali. Ciò detto, è evidente che il suo impiego ne ha inevitabilmente modificato il senso se, nelle parole del ministro Lollobrigida, la priorità per l’Italia è quella di “difendere la propria cultura, i propri prodotti, e in questo contesto la sovranità alimentare è contraria all’autarchia. C’è bisogno che la nostra nazione esporti all’estero e per farlo bisogna difendere la qualità perché è la qualità che distingue i prodotti italiani dagli altri che cercano di copiarci in malo modo”.

E’ evidente che qui il discorso si fa lungo, difendere il nostro export è una cosa senz’alcun dubbio fondamentale, ma lo è altrettanto decidere qual è il posto dell’agricoltura nell’economia e nella società italiana all’inizio del terzo millennio e quali siano realmente i margini di sovranità da conquistare.

Il settore agricolo non ha mai occupato nel nostro paese un ruolo tanto marginale. Il cibo e le materie prime che produce valgono solo il 2% del Pil, ma poi attraverso la trasformazione e commercializzazione il loro valore aumenta, l’agroalimentare italiano con tutte le attività correlate vale il 20% del prodotto interno lordo, anche se nella catena del valore agli agricoltori rimangono le briciole.

Resta il fatto che i 900.000 agricoltori italiani, con il loro lavoro quotidiano oltre a produrre cibo e risorse, curano e tengono a posto il paesaggio, sarebbe a dire il nostro brand più famoso, quello che nessuno al mondo è in grado di riprodurre, e stiamo parlando proprio di quell’85% di territorio rurale del paese fatto di coltivi, pascoli, boschi, biodiversità, bellezza.

Tutto questo si chiama “multifunzionalità”, ma la realtà, per ora, è che nelle politiche del territorio, a tutti i livelli di governo, il suolo agricolo continua a essere considerato non una risorsa essenziale, un capitale non riproducibile della nazione, quanto piuttosto spazio libero di conquista per un’urbanizzazione senza logica, pensiero, qualità. In troppi casi l’agricoltore non è garanzia di presidio civile del territorio, nell’interesse generale, ma un ospite indesiderato.

L’unica strategia efficace che rimane al mondo agricolo per difendersi e affermarsi, soprattutto nel Mezzogiorno, rimane quello di serrare le fila, organizzarsi, aggregarsi, aumentare attraverso la cooperazione il proprio peso nella contrattazione e nel dibattito pubblico. Per fare questo sono necessarie politiche nuove, è questo il pezzo di sovranità del quale si avverte maggiormente il bisogno.

Salto nel buio

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 8 novembre 2022

All’editoriale di Ottavio Ragone pubblicato su queste pagine domenica scorsa (“Autonomia, destra e sinistra unite nel “no”) ha in qualche modo risposto ieri, nell’intervista a Dario Del Porto sempre su questo giornale, l’on. Edmondo Cirielli, parlamentare di Fratelli d’Italia e viceministro agli affari esteri del governo Meloni.

Tirando le fila del lungo e approfondito dibattito sull’argomento che Repubblica ha ospitato in questi mesi, Ragone auspicava l’unico atto politico ragionevole: una presa di posizione bipartisan delle forze politiche di ogni ispirazione per scongiurare i rischi di un progetto sgangherato di autonomia in grado solo di spaccare il paese e divaricare ancora le diseguaglianze.

La risposta di Cirielli è netta: “Considero l’Autonomia un fatto positivo per le Regioni più virtuose come Emilia Romagna e Lombardia. Per quelle che invece restano al di sotto dei livelli minimi di assistenza, si possono centralizzare le funzioni, affidando allo Stato il compito di intervenire attraverso un fondo centrale”.

Veramente non avevamo ascoltato sino ad ora nulla del genere. Scopriamo in queste frasi un percorso verso l’autonomia addirittura a doppio senso: in avanti, verso la sempre maggiore emancipazione dallo stato centrale per le regioni “virtuose”; all’indietro, verso uno status di protettorato a sovranità limitata per quelle inefficienti, a cominciare dal Mezzogiorno. E’ evidente a tutti quanto questa prospettiva sia lontana dalla Costituzione, ed equivalga a una bomba a orologeria, dritta al cuore dello stato unitario.

Quanta ideologia poi si celi dietro simili posizioni, solo all’apparenza pragmatiche e fattuali, è evidente a tutti. Se vogliamo parlare di fatti, sono proprio i sistemi sanitari delle aree del paese presentate come “virtuose” – quelli che più avevano puntato sulla privatizzazione e lo smantellamento della sanità territoriale – ad aver mostrato maggiori difficoltà nel contrastare la pandemia.

Qui al Mezzogiorno abbiamo affrontato la bufera con le risorse delle quali disponevamo, che sono di gran lunga inferiori in termini di spesa pro-capite a quelle delle regioni “virtuose”, a causa di un sistema di riparto che premia la spesa storica, che qui da noi è più bassa, ed è basato per il resto su indicatori che penalizzano le regioni demograficamente più giovani. Si tratta evidentemente solo di un esempio, perché lo stesso andazzo si registra per tutti gli altri settori cruciali, si tratti di scuola, assistenza, servizi.

I fatti sono questi, e impongono un ragionamento in direzione ostinata a contraria: per salvare l’unità e il futuro del paese, per avvicinare le distanze territoriali, la strada non è quella di istituire per le aree in difficoltà un nuovo, offensivo status di cittadinanza limitata, ma all’opposto, attuando l’articolo 3 della Costituzione, continuando a rimuovere le cause che queste distanze creano e riproducono.

L’autonomia differenziata fa male al paese. Parole chiare dai vescovi italiani

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 5 settembre 2022

Le corrispondenze di Conchita Sannino dal convegno di Benevento dei vescovi italiani sulle aree interne, pubblicate su questo giornale, hanno dato conto di quello che senza dubbio è il fatto politico più rilevante di questa campagna elettorale: la presa di posizione chiara, netta della chiesa cattolica italiana sull’autonomia differenziata e sui migranti. Nella dichiarazione finale dell’incontro ci sono parole che pesano come pietre: “… qualora entrasse in vigore l’autonomia differenziata, ciò non farebbe altro che accrescere le diseguaglianze nel Paese.”

La cosa importante è che non sono i vescovi del Mezzogiorno a parlare così, ma quelli “…  provenienti da tutto il Paese, riuniti a Benevento per riflettere sui criteri di discernimento con l’obiettivo di elaborare una pastorale per le Aree interne”.

E’ all’Italia intera che i vescovi guardano, un paese che si sta spaccando in due non solo trasversalmente ma anche longitudinalmente, tra una galassia di aree metropolitane dove si addensano i due terzi della popolazione, e il restante 80% del territorio, quello dei piccoli centri che gestiscono una ruralità straordinaria e immensa, che continuano a perdere uomini, servizi, risorse, rappresentanza, capacità amministrativa e di presidio.

La cosa inaccettabile, a giudizio dei vescovi, è il divario civile che si è creato e si va sempre più accentuando: la ripartizione ineguale delle risorse tra le due Italie nega sempre più a una quota importante di popolazione l’accesso ai diritti costituzionali fondamentali, a partire da salute, istruzione, assistenza ai più deboli.

La perennizzazione di questo divario, che è poi il fulcro del progetto di autonomia differenziata attualmente in circolazione, sulla base di una spesa storica che già premia i territori che stanno meglio, significa di fatto dire addio, per sempre, all’unità del Paese.

E’ in questa lettura complessiva che si colloca l’affondo sul Mezzogiorno, e l’intervento al convegno di monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio e vice-presidente della CEI, con tutti i numeri precisi e inoppugnabili del divario, andrebbe studiato nelle scuole.

C’è poi l’aspetto ecologico, dietro quello civile ed economico. Nel suo saluto al convegno di Benevento papa Francesco ha sottolineato l’importanza del lavoro che le aree interne svolgono per il sostentamento della vita: è solo grazie al flusso di servizi ecosistemici di base – acqua e area pulita, alimenti, assorbimento della CO2, difesa del suolo, biodiversità, paesaggio – che le aree metropolitane riescono a vivere. Ciò nonostante, l’opera impegnativa di cura del capitale naturale che le popolazioni delle aree interne svolgono a beneficio del paese intero non trova riconoscimento civile ed economico nelle politiche pubbliche.

I vescovi comunque non si fermano qui. Passando alle soluzioni possibili, nel documento finale del convegno si legge ancora che “i flussi migratori possono costituire un’opportunità per ravvivare molte realtà soggette a un decremento progressivo della popolazione, ma è necessario affinare sempre più la disponibilità all’ascolto, ad assumere, nel rispetto della legge, logiche inclusive, non di esclusione.”

Più chiaro di così. Nel flusso stanco di messaggi incolori che ci giungono in questi giorni, viene da Benevento il progetto di un paese diverso, consapevole di sé, delle differenze e delle difficoltà, e dei modi ragionevoli per provare a superarle. Partendo dalle persone, senza paura, con un sentimento di apertura al futuro e alle cose nuove che verranno. Tutto chiaro, c’è solo da decidere da quale parte andare.

Il mare metropolitano che manca

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 21 agosto 2022

La Campania ha 480 km di coste, per metà sabbiose, l’altra metà rocciose: dalla foce del Garigliano a Sapri, passando per le isole del Golfo, si tratta di un patrimonio notevolissimo e diversificato, con alcuni dei paesaggi marini più belli del mondo. Un patrimonio pubblico, è bene ricordarlo: secondo il Codice civile il lido, la spiaggia e le loro pertinenze sono un bene di proprietà pubblica, fanno parte del demanio, in quanto tale destinato, leggo al volo sulla Treccani, “…all’uso gratuito e diretto della generalità dei cittadini, o comunque a una funzione pubblica”.

Nulla di più lontano dalla realtà, come l’editoriale di Ottavio Ragone ha dovuto ancora ieri crudamente sottolineare: il diritto al mare taglia la popolazione in due,  una barriera di filo spinato, non solo metaforica, la divide, vedi l’articolo sempre di ieri di Tiziana Cozzi sui lidi di Posillipo. Certo il fenomeno ha livelli di gravità diversi. Se in Penisola, in Costiera, o nel Golfo di Napoli, l’accesso al mare per un comune cittadino è cosa quasi impossibile, la situazione migliora appena un po’ se ti allontani dall’epicentro metropolitano, a nord lungo le spiagge domizie, oppure a sud verso quelle della piana del Sele, e poi giù sino al Cilento.

Il problema riguarda dunque soprattutto i tre milioni di abitanti della città metropolitana, la parte del territorio regionale maggiormente urbanizzata, che vale il quindici per cento dello spazio, ma dove vive come può il 75 per cento della popolazione campana. Per inciso, una delle aree in Europa nella quale il disagio sociale è più forte, e l’accesso al mare è solo un punto in più nell’elenco lungo dei diritti negati.

Qui, il combinato disposto dell’edificazione della costa (in molti casi abusiva o illegittima), con la privatizzazione di fatto di tratti significativi; di problemi ambientali mal intesi e comunque mai risolti nei litorali post-industriali a est e ovest del capoluogo; della presenza di importanti aree portuali; infine, nei tratti di costa potenzialmente fruibili, delle concessioni balneari; tutto questo riduce pressoché a zero le possibilità di accesso libero per il comune cittadino, a meno che non abbia possibilità e voglia di spendere, per una giornata al mare con la famiglia, almeno un centinaio di euro.

Con questa situazione la direttiva Bolkenstein c’entra poco. La concorrenza è una buona cosa quando si tratta di beni di mercato, le coste non rientrano tra questi, qui il problema è quello di garantire il diritto di accesso a una risorsa comune, che è una cosa che non si risolve aprendo al mercato, ma con il controllo effettivo del patrimonio, sui suoi usi e trasformazioni fisiche, non tollerando l’esistenza di “enclosures” di fatto, assicurando e salvaguardando l’esistenza di tratti ad accesso libero e, soprattutto, per quelli in concessione, stabilendo obblighi di esercizio chiari, che salvaguardino i diritti di base di accesso dei cittadini al lido, alla spiaggia, al mare, come da codice civile.

Come sempre, per l’autorità pubblica il compito è quello di stabilire regole, poi di essere presente e vigilare. Qualche piccolo segnale c’è. Qualche sera fa sulla spiaggia davanti la Rotonda Diaz c’erano ragazze e ragazzi a giocare a pallavolo sulla spiaggia pulita al riparo della scogliera, sembrava d’essere a Barcellona. Le spiagge sobriamente recuperate a San Giovanni a Teduccio sono un altro caso. Certo, rispetto al fabbisogno sterminato di un popolo metropolitano all’asciutto, in attesa dietro il filo spinato, si tratta ancora di frammenti, ma la strada è quella.