Greta, Francesco e la democrazia

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 12 ottobre 2019

Soffia forte sulla città il vento di “Friday for future”, il movimento dei ragazzi ispirato da Greta Thunberg che si batte contro il cambiamento climatico, prima con la grande manifestazione dei cinquantamila di fine settembre, seguita dall’assemblea nazionale a Castel dell’Ovo, una due giorni cui hanno preso parte centinaia di attivisti da tutt’Italia. Sono eventi di rilievo, cui “Repubblica” ha giustamente dato ampia copertura. In sede di commento i richiami al ’68 si sprecano. Come allora, la società degli adulti è colpita da un giudizio di inadeguatezza duro come uno schiaffo. Di fronte all’emergenza climatica in atto una frattura s’è spalancata, un “noi” contrapposto a un “loro”. I vecchi modi di pensare non servono più, l’attendismo è il peggior delitto. Greta e i suoi ragazzi chiamano a un’azione immediata, una svolta netta, imperativa, che riguarda tutto: modello economico, tecnologie, stili di vita, atteggiamenti, valori. Il tempo è finito, e comunque di noi non si fidano più.

Ci sono due risposte, ugualmente inadeguate, che a questo punto è possibile dare. La prima è quella denigratoria, della destra più becera, che mette in dubbio le capacità di Greta, la sua integrità, autenticità, autonomia, insieme alla robustezza mentale e culturale dei ragazzi scesi in strada nelle città di mezzo mondo. La seconda è il plauso peloso, gattopardesco, di chi pensa di blandire a parole il movimento, aspettando che magari si sgonfi, continuando in ogni caso a fare tutto esattamente come prima.

Il modo più onesto di vivere l’ondata impetuosa di novità, che cammina con le gambe e il respiro dei nostri figli, resta quello del confronto, del ragionamento, separando se possibile le parole d’ordine, gli obiettivi, dai percorsi realisticamente praticabili per il loro conseguimento.

Qui l’esempio può venire da Papa Francesco. La narrazione che la Chiesa latino-americana ha fatto del dramma amazzonico è molto simile per pathos, linguaggio, scenari a quella di Greta. Le soluzioni, il processo operativo che è necessario attivare per scongiurare la catastrofe ecologica e sociale – che ora il Sinodo mondiale che si è aperto a Roma dovrà sviluppare – Francesco le ha comunque delineate nella sua enciclica “Laudato si’”. E’ un documento fondamentale, che colloca l’ecologia integrale al centro della dottrina sociale della Chiesa. La parte pastorale dell’enciclica si sofferma lungamente sui metodi di valutazione preventiva e confronto, che è necessario utilizzare per identificare gli impatti ecologici e sociali delle diverse opzioni per contrastare il cambiamento climatico e il degrado degli ecosistemi, mettendo sul tavolo un bilancio trasparente, da sottoporre alla discussione pubblica. Insomma per Francesco l’urgenza degli obiettivi di sostenibilità e giustizia sociale è fuori discussione, ma le strade per raggiungerli possono essere diverse, la democrazia ha gli strumenti per scegliere, e non ci sono scorciatoie.

Di fronte a queste cose, le parole di Greta suonano dure: “Per me è bianco o nero, e non esistono zone grigie quando si parla di sopravvivenza. O continuiamo a vivere come civiltà, o moriamo… Tutto deve cambiare. E bisogna cominciare oggi. Quindi dico a tutti là fuori che è arrivato il momento della disobbedienza civile, il momento di ribellarsi.” In un recente commento sul New York Times, un giornale certamente progressista, che pure ha seguito e sostenuto il lavoro di Greta, Christopher Caldwell, un tipo che di fondamentalismi se ne intende, giunge alla conclusione che “il suo approccio radicale entra in frizione con la democrazia”. Da noi, ci aveva pensato Massimo Cacciari su “La Stampa” del primo ottobre a osservare che Greta procede per semplificazioni estreme, e che pure questo è populismo.

Sono giudizi troppo severi, bisogna dare tempo a questi ragazzi.  Il loro impegno è ammirevole in una società di adulti che ha smarrito la maniera di integrarli, dare loro un lavoro, un futuro, un percorso di vita perscrutabile. Magari in questi movimenti si formerà una nuova classe dirigente utile al Paese. La direzione che indicano è quella giusta, il loro stimolo è provvidenziale. Cerchiamo di lavorare con loro, di ricordare che il metodo democratico, con tutti gli acciacchi, è l’unica cosa che abbiamo, che il tempo per costruire soluzioni deve esserci, non è detto sia sempre inerzia o cattiva coscienza.

 

Bagnoli ovvero la pianificazione alla rovescia

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 16 ottobre 2019

“Se si fa la bonifica e non ci sono le infrastrutture per raggiungere il nuovo quartiere, non si riesce a restituire Bagnoli ai cittadini e al mondo”. Le parole del ministro Provenzano suonano sacrosante, una boccata finalmente di aria buona, anche se una simile constatazione era già nel parere motivato del Ministero dell’Ambiente sul piano di risanamento di Invitalia, tanto lacunoso, secondo i tecnici di quel dicastero, da rivestire – è scritto proprio così nel decreto – “carattere virtuale”.

Lo schema infrastrutturale, il progetto indispensabile di trasporto pubblico, la rete del ferro per far vivere la nuova Bagnoli,  così come i relativi fondi, non ci sono, ma è comunque partito il concorso di idee pensato da Invitalia, che è un po’ come progettare arredi e finiture di un nuovo appartamento, in un palazzo nel quale mancano ancora l’accesso, le scale, l’ascensore, le uscite di sicurezza, e pure il tetto. Insomma, la pianificazione al contrario.

La stessa cosa era successa in verità anche per la bonifica, che si intende ostinatamente realizzare sull’intera area, il cui costo (quasi quattrocento milioni, che uniti ai seicento già spesi fanno un miliardo di euro, quanto Milano ha speso per fare l’Expo) è stato computato senza mai pubblicizzare gli esiti dell’analisi di rischio, l’attività cruciale per capire dove bonificare, e sino a che punto.

Alla domanda esplicita che pure “Repubblica” aveva posto, Invitalia ha prima replicato che l’analisi di rischio c’era, ma era segreta, dando in seguito una versione ancora diversa: l’analisi di rischio si farà una volta decise le destinazioni finali, che è un altro bel caso di pianificazione alla rovescia, perché uno Stato che volesse comportarsi come buon padre di famiglia, tenderebbe ragionevolmente a localizzare le destinazioni d’uso anche in funzione dei livelli di rischio, evitando di fare sforzi inutili, e buttare soldi e tempo.

Stando così le cose, il ministro non ha potuto che registrare la situazione di stallo, prender atto della solitudine del commissario Floro Flores che ha pure lamentato, a distanza di cinque anni dal decreto Sblocca-Italia, la mancanza di una struttura tecnica (sic!); la complessiva incertezza sulle risorse finanziarie che servono per portare a termine tutto.

Nel clima deprimente che si è creato, le parole del ministro piovono come una spruzzata rigenerante d’acqua sul viso, e fanno ben sperare, così come la volontà da lui espressa di “chiarire alcune cose col soggetto attuatore”, cioè con Invitalia. Potemmo magari smetterla con la pianificazione al contrario, dedicarci finalmente a una sobria, pragmatica messa in sicurezza delle aree, che costerebbe assai meno; liberare risorse per le infrastrutture e il trasporto pubblico, che è il modo per far nascere davvero, e sostenibilmente, la nuova città.

 

Senza Tangenziale

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 23 ottobre 2019

A causa dei controlli di stabilità al viadotto di Capodichino dureranno almeno tre settimane i disagi e gli ingorghi per la restrizione del transito a sole due corsie. I percorsi alternativi suggeriti da Tangenziale di Napoli fanno sorridere: se vieni da occidente e vuoi prendere l’autostrada esci a Fuorigrotta e percorri il lungomare. Facevano prima a dire di non prenderla proprio, ma il dato triste è l’essere improvvisamente tornati alla situazione di viabilità di quarant’anni fa, prima dell’inaugurazione nel ’72 del primo tratto dell’opera, e constatare ancora una volta quanto la città sia fragile, priva di alternative, risorse, soluzioni di scorta per superare le emergenze.

Tutto questo in un clima generale ancora impressionato dal crollo di Genova: come quel ponte anche il nostro è gestito da Atlantia, e se è del tutto fuori luogo qualunque semplicistico accostamento, resta l’incertezza sul ciclo di vita delle grandi infrastrutture in cemento, che promettevano l’eternità, ma hanno i loro acciacchi pure loro. Ad ogni modo, in attesa di notizie più precise da parte della concessionaria, la decisione di un esercizio a scartamento ridotto del viadotto si rende ora necessaria per l’effettuazione dei controlli, o la riduzione precauzionale dei carichi, o probabilmente tutt’e due le cose.

Resta il fatto che la città è inerme, priva di alternative, dinnanzi a problemi che pure sono noti almeno da un vententennio. Nel Piano della rete stradale primaria approvato dall’Amministrazione comunale nel 2000, l’insostenibilità dell’accesso unico da est alla città, costituito proprio dal viadotto che ora s’è ammalato, veniva fortemente sottolineata, con la previsione di realizzare un secondo, necessario corridoio d’ingresso da ovest (l’Occidentale), con un collegamento tra la Perimetrale di Scampia e la Tengenziale, all’altezza degli svincoli del Vomero. Un tracciato era stato individuato, ed è allegato al Piano, con uno studio di fattibilità e di inserimento paesaggistico ed ambientale estremamente avanzato. In questo modo, a chi deve rientrare in città, si proponeva una doppia alternativa, distribuendo più razionalmente i flussi, evitando le forche caudine dell’unico, congestionato ingresso orientale alla città.

Erano tempi nei quali ci permettevamo ancora il lusso di programmare il futuro, anche se poi comunque quel piano fu accantonato. Oggi viviamo precari, beneficiando la rendita di decisioni prese quaranta, trenta, venti anni fa. Viviamo di rammendi, rattoppi, verifiche di stabilità, pregando a mani giunte che il capitale infrastrutturale e fisico della città, sottoposto a disumane pressioni, in qualche modo resista.

 

Il deserto a Mezzogiorno

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 8 novembre 2019

Dopo la presentazione dell’ultimo rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, è veramente sorprendente il rimprovero di autorevoli osservatori al prestigioso istituto di ricerca, di riproporre alla fine sempre la stessa ricetta, quella di chiedere più fondi per il Sud. Si tratta proprio di cattiva ideologia, perché il rapporto dice tre cose incontrovertibili. Primo: la somma di trasferimenti e investimenti pubblici è minore nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, quindi ciò che Svimez chiede è che sia ristabilita come minimo l’equità. Secondo: la crisi ha innestato, con l’emigrazione dei migliori, un impoverimento del capitale umano e sociale che costituisce l’aspetto più drammatico del problema. Terzo: il Paese non ha una strategia per fronteggiare tutto questo, se non quella cinica di sganciare, con l’autonomia differenziata, i vagoni più lenti.

Vanno via dal Sud i ragazzi che hanno studiato, ma anche le multinazionali come Whirlpool e Arcelor, e viene da chiedersi se, oltre la “trappola dello sviluppo intermedio” di Gianfranco Viesti (siamo troppo inefficienti per attrarre l’eccellenza, troppo costosi per concorrere coi paradisi della delocalizzazione), non finisca per pesare molto alla fine una sorta di populismo anti-tecnologico e anti-industriale.

Facciamo il caso dell’ArcelorMittal. Chiunque conosca gli impianti siderurgici d’Italia, da Piombino a Taranto, passando naturalmente da Bagnoli, sa che sono stati concepiti, e per tutto il Novecento hanno funzionato con una logica arcaica: l’occupazione sciatta dello spazio, centinaia di ettari, a volte migliaia, per dare la possibilità allo stabilimento di smaltire in libertà i propri residui, le loppe, gli scarti, come fossimo ancora nel mondo di Dickens, e poi i carbonili a cielo aperto, pronti a spandere al vento polveri insane. Uno stato di cose inaccettabile, ormai palesemente, contrario al quadro normativo, nazionale e europeo.

Eppure, in questa situazione è evidente che se vuoi mantenere la siderurgia assieme al più grande impianto d’Europa, una cosa che vale quindicimila posti di lavoro, quasi l’1,5% del PIL nazionale considerando l’indotto, devi necessariamente prevedere uno scudo legale, che non significa l’impunità per i colpevoli, ma la possibilità di disporre del tempo ragionevole per la messa a norma, per la conversione ecologica degli impianti. Lo scudo serve a evitare che chi oggi vuole risolvere i problemi, debba rispondere delle mancanze delle gestioni precedenti. Ma il senso vero è quello di proteggere l’ordinamento giuridico stesso, evitandogli di funzionare fuori contesto, come un meccanismo cieco, dagli esiti drammaticamente inappropriati.

Ma tant’è, l’ideologia vuota degli slogan ha vinto. Con il voto parlamentare che ha abolito lo scudo, la ricerca di un colpevole da punire ha prevalso sulla ricerca di soluzioni responsabili. Certo, è evidente che una multinazionale come Arcelor, consapevole del suo potere negoziale, abbia sparato alto, per strappare condizioni più favorevoli, complice anche l’attuale calo della domanda mondiale di acciaio. Ma dall’altro lato del tavolo, ci sono istituzioni repubblicane che appaiono allo sbando, prive di una visione e uno straccio di politica territoriale e industriale, si tratti di Whirlpool o dell’Ilva.

Ad ogni modo, ad alimentare questo clima scoraggiante per le imprese, è lo stesso modo di pensare che da noi ha trasformato la crisi della piana campana nel mito eterno, privo di soluzioni della Terra dei fuochi; che continua ad opporsi ostinatamente a qualunque civile, moderna impiantistica per i rifiuti.  Quel che è certo, è che non si governa a lungo con gli slogan. Dopo la sbornia parolaia del ventennio, a riportare il Paese a un principio di realtà ci pensò la Costituzione repubblicana, che dice che la politica è tutta un bilanciamento ragionevole e faticoso di principi: iniziativa privata e programmazione pubblica, libertà e sicurezza, sviluppo economico e qualità dell’ambiente. L’arte di fare i compromessi giusti, in vista di un superiore bene comune. Ora sembra che quella strada sia definitivamente persa.