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Francesco Erbani, Repubblica del 27 gennaio 2017

L’ultima battaglia racconta molto di Gerardo Marotta. L’avvocato Marotta, che si è spento a Napoli alla vigilia dei novant’anni, l’ha condotta senza stancarsi, contro il trascorrere del tempo che rendeva ordinaria, trascurabile, una storia che restava pazzesca: la dispersione dei suoi trecentomila volumi raccolti con pazienza e ardore, rincorsi negli anfratti

dell’ultimo rigattiere e che un groviglio burocratico lasciava marcire. Trecentomila volumi: non sono tante le cose culturalmente più rilevanti. E dire che Marotta, il cappello a larghe tese indossato anche in casa, calcato sui capelli candidi, ne ha sostenute di battaglie per una cultura che rompesse i diaframmi elitari, diventando lievito civile.

«Dobbiamo chiedergli perdono », diceva ieri l’assessore alla Cultura del Comune di Napoli, Nino Daniele. Mentre Massimiliano, figlio di Gerardo, ricordava «i libri sparpagliati in diversi depositi, da Arzano a Casoria, che attendono la ristrutturazione dei locali che dovrebbero ospitarli, acquistati dalla Regione nel 2008, ma per i quali manca il progetto esecutivo». I ritardi, accumulati durante la precedente amministrazione, impediscono l’uso della biblioteca. Più il tempo passava, più i capelli dell’avvocato si appoggiavano sulle spalle e il viso smagriva al pensiero che con i libri si disperdesse il patrimonio che aveva condiviso non solo con la sua città. Nel 1975 Marotta diede vita all’Istituto italiano per gli studi filosofici. Fondamentale era il “per”. Gli studi filosofici come obiettivo, un complemento di scopo o di vantaggio e non un genitivo. Per tanto tempo l’Istituto ha avuto sede a casa Marotta, all’estremità di Monte di Dio. Nel salotto affacciato su Capri ci si ammassava per ascoltare Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, Norberto Bobbio, Paul Oskar Kristeller, Paul Dibon, Eugenio Garin e il meglio del pensiero filosofico europeo.

Marotta era un principe del diritto amministrativo, il suo studio discuteva cause miliardarie. Ma lui lo lasciò, vendette proprietà. I soldi servivano per l’Istituto e per i libri. All’inizio degli anni Ottanta gli fu assegnata la seicentesca Biblioteca dei Girolamini. Ma prima del trasloco, subito dopo il sisma del 1980, quelle stanze furono aperte ai terremotati. Nel bel film La seconda natura di Marcello Sannino si vede Marotta che racconta ai senzatetto il divario che a Napoli ha separato l’alta cultura e il popolo e aggiunge che una casa andava loro assicurata, ma non la sala con i volumi appartenuti a Giambattista Vico. Al che un uomo gli si avvicina: «Te do ‘nu vaso ‘nfronte» (ti do un bacio in fronte).

Nel salotto-istituto si respirava il lascito crociano, degli hegeliani napoletani e del meridionalismo liberale (Giustino Fortunato più che Gaetano Salvemini). Su tutto aleggiava la Repubblica giacobina del 1799 e quando parlava dei giovani impiccati dal re Borbone, Marotta era colto da commozione vera. Avvicinandosi Tangentopoli, Marotta istituì le Assise di Palazzo Marigliano, laboratorio sulla storia e la società meridionale. Per i duecento anni dalla Repubblica del 1799, sindaco Bassolino, Marotta fece aprire il portone principale del Palazzo Serra di Cassano, dove si era trasferito l’Istituto, chiuso da due secoli. Si affacciava su Palazzo Reale e i Serra di Cassano lo avevano sbarrato per disprezzo verso i Borbone che avevano ucciso il figlio Gennaro, fra i protagonisti della rivoluzione giacobina. Il portone era il simbolo della separatezza fra un potere nutrito di umori plebei e una cultura mortificata. Fu riaperto, poi di nuovo chiuso. Napoli sembrava la capitale di una rinata Repubblica delle Lettere, dell’Istituto scrivevano riviste internazionali.

Gli ultimi anni sono più tristi: i libri dispersi, i finanziamenti risicati che non consentivano più le borse di studio né i convegni internazionali. Un crepuscolo ha avvolto la spettacolare scalinata di Ferdinando Sanfelice e tutto Palazzo Serra di Cassano, dove Marotta sempre più piccolo, si aggirava intabarrato in un cappotto nero. Mai domo, però. «Martedì mattina sembrava riprendersi », racconta Massimiliano, «per i suoi novant’anni voleva una lezione su Bertrando Spaventa e su Luigi Einaudi».

Foto da internazionale.it

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 1 dicembre 2016

La classifica 2016 della qualità della vita pubblicata da “ItaliaOggi” certifica il momento assai difficile per le città del centro-sud: Napoli perde ancora tre posizioni ed ora è al terzultimo posto nella graduatoria delle centodieci città, e anche Roma è in caduta libera, perde diciannove posizioni in un solo anno, piazzandosi all’ottantottesimo posto.

Prima di giudicare se questo tipo di studi abbia senso, se i risultati coincidano con l’esperienza e la percezione di chi le città le vive ogni giorno, è importante comprendere cosa veramente la ricerca si propone di misurare, che è la qualità della vita non delle singole città, ma delle province, cioè di sistemi urbani più ampi.

Detto questo, il primo messaggio che viene dalla lettura della graduatoria 2016 è una difficoltà complessiva che riguarda tutte le grandi città metropolitane del paese, rispetto ai centri di minori dimensioni, la cosiddetta “provincia”.

Milano, Torino, Roma e Napoli si trovano tutte sulla parte destra della classifica, lontane dalle posizioni di vertice, e tutte, con l’eccezione di Torino, perdono colpi, peggiorando visibilmente rispetto all’anno prima.

Anche la Milano scintillante dell’Expo, alla quale molti guardano come la città italiana più dinamica, maggiormente in grado di rinnovarsi, di reggere la sfida con il resto d’Europa. Queste quattro città metropolitane inglobano 663 comuni, nei quali vive il 20 per cento della popolazione italiana, sul 5 per cento appena del territorio nazionale. Si tratta dunque delle aree del paese di massima densità e complessità urbana. All’opposto, per capirci, la città di Mantova, che quest’anno è in vetta alla graduatoria, ha quarantanovemila abitanti, meno del quartiere dove vivo, e tutta la sua provincia ha quattrocentomila abitanti, collocati in modo piuttosto ordinato e distribuito, su un territorio che è il doppio di quello della provincia di Napoli, che ne ospita più di tre milioni.

Insomma, questa classifica della qualità della vita somiglia a un Gran Premio dove accanto alle macchine da corsa gareggiano i caterpillar, ma sarebbe sbagliato dare un giudizio riduttivo e liquidare tutto così, perché è vero che l’Italia da troppo tempo ha smesso di fare politiche nazionali per migliorare la qualità dei suoi sistemi urbani.

Le vecchie province sono state mandate in soffitta, e le nuove Città metropolitane stentano ancora ad assumere un ruolo di guida e coordinamento. Ma la storia non finisce qui, perché c’è il lato più doloroso per noi, ed è la cesura tra il Mezzogiorno del paese, dove secondo la classifica si concentra larga parte del disagio urbano, e il resto d’Italia, dove i sistemi urbani sono comunque in grado di offrire ai cittadini un paniere di servizi ed opportunità almeno sufficiente, se non soddisfacente.

Insomma, Milano e Torino non brillano, ma rimangono pur sempre nel quadrante positivo della qualità urbana, quello dove l’offerta di lavoro, servizi, istruzione, salute, tempo libero è più vicina all’Europa. Roma e Napoli arrancano invece nel quadrante grigio, quello dove prevale la fatica quotidiana del vivere.

Ad ogni modo, il messaggio per Napoli è particolarmente amaro perché la classifica di “ItaliaOggi” è lì a ricordare che il capoluogo non si salva da solo, che il giudizio su di esso non dipende dai luna park sul lungomare, ma dalla qualità delle sue periferie, e di quell’hinterland dimenticato, che comprende il novanta per cento del territorio, e nel quale vivono come possono i due terzi degli abitanti della città metropolitana. Di fronte a questa realtà particolarmente dura Napoli ha due strade, come sempre: rinchiudersi nei suoi confini fisici ed oleografici, o stringere una nuova alleanza con il territorio, con le altre novanta città, dai Lattari al lago Patria, passando per il Vesuvio, costruendolo davvero un governo metropolitano capace di invertire la rotta.


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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 25 novembre 2016

Secondo l’Oxford Dictionary la parola dell’anno per il 2016 è “post verità” (post truth), dove “post” sta proprio per “dopo, oltre”. Secondo il prestigioso dizionario si parla di  “post verità” in tutte le “circostanze nelle quali i fatti oggettivi risultano meno influenti nel modellare la pubblica opinione rispetto all’istanza delle emozioni e delle credenze personali”.

Dietro l’affermazione del termine “post verità” ci sono evidentemente avvenimenti precisi che hanno contraddistinto l’anno che volge al termine, che sono innanzitutto le due campagne elettorali per la Brexit e le presidenziali americane, ambedue vinte, a dispetto dei pronostici, sulla base di affermazioni e slogan che per oltre il 60% dei casi non hanno poi retto il fact checking, la verifica dei fatti, ma questo importa poco, perché quello che conta è l’affermazione di uno stato d’animo diffuso, incontenibile, che come un fiume carsico riemerge e travolge tutto, infischiandosene altamente del principio di realtà e del senso critico.

Naturalmente, c’è anche chi dice che c’è poco di nuovo in quello che sta succedendo, che di post verità, se proprio si vuole proprio chiamarla così, la politica e la comunicazione pubblica si sono sempre nutrite, dai tempi del discorso di Pericle agli ateniesi, fino alla propaganda e alla pubblicità commerciale dei nostri giorni. Se proprio vogliamo cogliere elementi importanti di novità, è al potere straordinario conferito alla post verità dai social e dal web che dobbiamo allora guardare, e alla capacità che questi strumenti hanno di diffondere viralmente questa comunicazione emozionale, plasmando atteggiamenti e comportamenti in modo evidentemente non controllabile e prevedibile dai politici e sondaggisti vecchia maniera.

Sia quel che sia, i redattori dell’Oxford Dictionary sono incorsi in un errore non da poco, perché non sono stati Nigel Farage e Donald Trump i primi a cavalcare strumentalmente la post verità, ma noi poveri abitanti della Piana campana, con la nostra “Terra dei fuochi”, che pure è stata, a pensarci bene, una tempesta socio-emozionale che si è affermata globalmente grazie anche al web, in grado di mobilitare le coscienze, al di là di ogni ragionevole verifica dei fatti.

Sulla dimensione internazionale del fenomeno, discutevo proprio ieri con un giovane leader dei comitati, che mi raccontava con un certo compiacimento di come siano ormai numerosi i dipartimenti di scienze sociali europei che studiano con interesse il movimento di liberazione ambientale che è nato intorno alla terra dei fuochi, proponendolo come riferimento a scala mondiale.

Lasciando perdere i sociologi scozzesi, continuo a ritenere che la  generosità e l’impegno di questi ragazzi rappresentino un’energia positiva, un motore di cambiamento. Solo, ho provato a far osservare al mio entusiasta interlocutore come questo potenziale vada incanalato, facendo poi le domande giuste, nel senso che il governo di Roma sarà sempre ben contento di erogare qualche decina di milioni per bonifiche placebo, se questo gli consente di non impegnarsi per risolvere, con politiche serie, il  surplus di povertà, e il drammatico deficit di servizi essenziali, che rappresentano la vera emergenza dell’area metropolitana, e la causa principale, secondo tutti gli esperti in materia di salute pubblica, dei due anni e mezzo di aspettativa di vita che ci mancano rispetto alla media nazionale.

Insomma, la post verità è una nostra vecchia conoscenza, e su questa strada stiamo pure sperimentando cose nuove. A inizio novembre, infatti, la magistratura aveva dissequestrato i suoli agricoli di Caivano, riconoscendo finalmente che lo sforamento di alcuni valori era dovuto al fondo naturale, alla loro costituzione intrinseca. Ora, l’ASL2, non evidentemente appagata da tali conclusioni, ha intimato l’amministrazione comunale di interdire nuovamente quei suoli, per la presenza di alcuni inquinanti organici, appellandosi al principio di precauzione.

Ai tecnici dell’ASL bisognerebbe a questo punto ricordare che i rifiuti non c’entrano niente, si tratta di sostanze che nei suoli di un’area metropolitana possono esserci finiti per tutta una serie di motivi, e che comunque non sono assolutamente presenti nei prodotti che finiscono sulle nostre tavole. Insomma, di rischi concreti per la salute non c’è nemmeno l’ombra, ma il combinato disposto di una post verità (la frutta e la verdura avvelenate dai rifiuti), e del principio di precauzione (al quale sarebbe meglio ricorrere con un po’ più di precauzione, appunto), ci respinge nel medioevo più buio, in una dimensione dove non sono i dati, i fatti, il confronto critico ad avere la meglio, ma la forza irrefrenabile di uno slogan, di un’emozione.

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli dell’11 novembre 2016

Con un decreto dello scorso due novembre la magistratura ha disposto in via definitiva il dissequestro dei suoli agricoli di Caivano. I motivi del provvedimento sono proprio quelli descritti nell’articolo con il quale questo giornale commentò, giusto tre anni fa, la notizia del sequestro (“Ma i rischi sono dubbi”): gli elementi chimici presenti nei suoli agricoli e nelle acque dei pozzi irrigui sono parte del “fondo naturale”, sono tipici degli ambienti vulcanici della piana campana, ed anzi rappresentano un aspetto della particolare fertilità di questi ecosistemi agricoli. Non bisognava essere Sherlock Holmes per dire queste cose, bastavano le cognizioni di base di scienza del suolo e di agronomia. Eppure, i tecnici che ragionavano in questo modo furono tacciati di negazionismo, e sono stati necessari tre anni, e l’iniziativa di pochi agricoltori coraggiosi, perché una verità ovvia acquisisse finalmente rilievo giudiziario.

Ma erano i giorni della caccia alle streghe, c’era uno schema preciso e convincente, ripreso incessantemente dai media, che non poteva essere messo in discussione: i rifiuti hanno inquinato i suoli, i suoli hanno contaminato le colture alimentari, il consumo di quei prodotti ha fatto ammalare le persone. In questa catena gli agricoltori erano dalla parte del nemico, l’agricoltura un’attività gravida di rischi. Così, i pomodori finirono sull’altare, come simbolo della disfatta di una terra.

Il provvedimento della magistratura del 2 novembre dice ora che quell’interpretazione era priva di fondamento, mentre anche i monitoraggi rigorosi, con migliaia di analisi sui prodotti, hanno confermato che gli ortaggi e la frutta della piana campana continuano ad avere qualità eccellente, e ad essere assolutamente sicuri.

L’impatto economico della crisi mediatico-giudiziaria è stato destabilizzante, non solo per gli agricoltori interessati dai sequestri, ma per l’intero settore agricolo. Uno studio condotto dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria per conto del governo ha evidenziato come il danno economico sia ricaduto, nell’area di crisi, soprattutto sulle piccole aziende, non in grado di autocertificare i propri prodotti, con un calo dei prezzi di vendita dal 25 fino al 75%. Per i piccoli agricoltori della piana campana questo svilimento assolutamente immotivato del loro lavoro ha rappresentato l’umiliazione estrema, nonché una minaccia per la loro stessa esistenza.

Il dissequestro dei suoli di Caivano rappresenta uno spartiacque in questa dolorosa vicenda. E’ venuto il momento di riconsiderare le attività agricole delle pianure campane per quello che sono veramente: gli unici presidi di cura e gestione della terra e delle acque, nonché di buona economia, in uno sconquasso urbanistico e territoriale senza fine. Di questo disordine gli agricoltori sono vittime piuttosto che soggetti attivi.

Ricordando sempre una cosa: nella grande area metropolitana il sessanta per cento del territorio è spazio rurale, è cioè fatto non da strade e palazzi, ma da coltivi, boschi e aree naturali. E’ la maglia capillare di ventottomila aziende agricole che ancora resistono a prendersi cura di questa immensa cintura verde, che noi ci ostiniamo a non considerare. L’umiliazione degli agricoltori, la chiusura delle aziende agricole, è la strada più breve e sicura per lo sconquasso finale del nostro ecosistema e della nostra economia.

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Antonio di Gennaro, Eticaeconomia 2 novembre 2016

Sarebbe un’occasione formidabile, quella della “Terra dei fuochi”, per una riflessione sulle politiche ambientali in Italia, e sulla capacità del nostro apparato legislativo  e amministrativo di progettarle e implementarle. Ora che il clamore sembra essersi placato (in realtà abbiamo imparato che è solo un alternarsi ciclico di fasi ad alta e bassa attenzione dei media, periodicamente riattivato da nuovi ritrovamenti e denunce), dovrebbe essere finalmente possibile ragionare, a mente fredda,  sugli eventi di questi ultimi tre anni.

Perché, se di “Terra dei fuochi” si parla almeno dal 2003 – anno di pubblicazione del rapporto Legambiente sulle ecomafie, nel quale l’espressione è impiegata per la prima volta – è dall’estate del 2013 che tutto si è amplificato e accelerato, con l’intervista del pentito Carmine Schiavone al telegiornale Sky, nella quale si racconta come il clan Bidognetti si sia arricchito per un ventennio, seppellendo nei suoli fertili della piana campana rifiuti di ogni tipo, provenienti in prevalenza da industrie del nord.

L’impatto è enorme, e senza fine è la serie di servizi e reportage sul tema, la cui tesi implicita è la seguente: i clan hanno seppellito nella piana campana ingenti quantità di rifiuti speciali e pericolosi, sovente miscelati al flusso disordinato di rifiuti urbani; i suoli e le falde della piana campana – quella che una volta chiamavamo Campania felix, l’ecosistema agricolo più fertile del globo terracqueo – ne sono stati diffusamente contaminati; le produzioni ortofrutticole coltivate su quei suoli sono anch’esse irrimediabilmente avvelenate; il consumo alimentare di quei prodotti agricoli è la causa del picco di malattie tumorali che affligge le popolazioni della Piana campana.

Questo schema viene proposto come un ragionamento scontato, auto-evidente, che non ha bisogno di prove e conferme. Sin dal primo momento, quanti non appaiono immediatamente persuasi dalla ferrea concatenazione di cause ed effetti, vengono tutti identificati come “negazionisti”.

E’ comunque questo stesso schema di ragionamento a guidare il governo nella scrittura del decreto sulla Terra dei fuochi, emanato nel dicembre 2014. L’obiettivo urgente, per rassicurare opinione pubblica e consumatori, è quello di individuare e mappare le aree agricole contaminate, e interdire l’ulteriore coltivazione. Nel frattempo la diffidenza nei confronti dei prodotti agricoli provenienti non solo dall’area interessata, ma dall’intera regione, attanaglia i mercati, e si moltiplicano in giro per l’Italia i casi di esercizi commerciali che espongono avvisi del tipo “Qui non si vendono prodotti provenienti dalla Campania”.

Ad ogni modo, con il decreto viene attivato un gruppo di lavoro per il monitoraggio e la mappatura delle aree agricole contaminate. Entrano in gioco l’Istituto superiore di sanità, l’Istituto zooprofilattico per il Mezzogiorno, le Università, i servizi di prevenzione del Sistema sanitario nazionale, i servizi tecnici regionali. La piana campana diventa il territorio più monitorato d’Europa. I risultati di questa indagine capillare sono convergenti: lo stato di salute dei suoli e delle acque della piana campana è simile a quello della altre pianure agricole europee a comparabile grado di antropizzazione. Migliaia di controlli sulle produzioni agricole (allo stato siamo a circa quattromilacinquecento determinazioni) ha consentito l’individuazione di soli due campioni di ortaggi contaminati da piombo, che non deriva dai rifiuti ma dalla benzina super che impiegavamo una ventina di anni fa. Ad uguali conclusioni giungono i dati del RASFF, il sistema di allerta rapido dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, e i controlli sistematici effettuati dalla grande distribuzione organizzata, che rimane il principale acquirente del prodotto campano, in prevalenza destinato ai mercati del centro-nord ed europei.

Nel frattempo, le indagini del gruppo di lavoro ministeriale identificano una trentina di ettari (sui cinquantamila interessati dal monitoraggio) da interdire alla coltivazione a causa della concentrazione anomala di potenziali contaminanti. Sul piano epidemiologico, la serie storica di dati dei registri tumori, a partire da quello dell’ASL Napoli 3, attivo da un ventennio, evidenzia come l’incidenza delle principali malattie tumorali (il numero di nuovi casi ogni centomila abitanti), sia in linea con il resto d’Italia, e comunque caratterizzata da un trend decrescente, mentre la mortalità per le stesse patologie (sarebbe a dire il numero delle persone affette che non supera la malattia) è significativamente più elevata nella piana campana rispetto alle altre parti del paese. Detto in altri termini, nella Terra dei fuochi ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più, ed allora il discorso riguarda aspetti completamente differenti, che investono le  performances del servizio sanitario nazionale, la diffusione delle pratiche di prevenzione e screening precoce, la tempestività ed efficacia delle cure.

La mole di dati dei quali disponiamo per questi territori martoriati è imponente, probabilmente senza eguali per nessun’altra regione d’Europa. Alla luce di queste conoscenze, lo schema implicito, che dai rifiuti conduce ai tumori, passando per le attività agricole, ha mostrato tutta la sua debolezza.

Sul piano operativo, l’accertamento dei fatti ecologici ed epidemiologici – basato sulle indagini di campo, piuttosto che su inferenze e narrazioni a tavolino – è importante, perché consente di definire i problemi reali che siamo chiamati ad affrontare. Se vogliamo apprendere qualcosa dalla lezione della Terra dei fuochi, è proprio dal territorio della piana campana – nella sua attuale configurazione, territoriale, demografica e sociale –  che è indispensabile ripartire.

Un territorio che durante l’ultimo trentennio ha visto i casali della piana, intorno al capoluogo, tumultuosamente raddoppiare la superficie urbanizzata, e fondersi in un’unica conurbazione che abbraccia un centinaio di comuni: una periferia indistinta nella quale si concentra il massimo del disagio abitativo, economico e sociale, della domanda inevasa di servizi essenziali, il più elevato deficit di cittadinanza, per usare l’espressione di Fabrizio Barca. Anche il rapporto tra Napoli e le città dell’hinterland, per la prima volta nella storia, si ribalta: il capoluogo adesso è minoritario, dei tre milioni di abitanti della città metropolitana, meno di uno risiede ormai all’interno di esso.

Pure, nella grande conurbazione, il sessanta per cento del territorio rimane rurale, con un tessuto di ventitremila aziende agricole che producono, su una superficie ridotta, il trentacinque per cento del valore della produzione agricola della Campania. Si tratta di produzioni intensive, pregiate, che la grande distribuzione organizzata compera ed esporta, e che rappresentano un’importante voce attiva della disastrata economia metropolitana. Il motore dell’agricoltura regionale è ancora qui, ma si tratta di una realtà semiclandestina, che il censimento ISTAT non è più nemmeno in grado di rilevare interamente, a causa degli aspetti di frammentazione e commistione con lo spazio urbano. Quello che abbiamo scoperto in questi tre anni, è che nel disordine metropolitano, la rete di aziende agricole professionali, snobbato dalla programmazione pubblica e dalle politiche comunitarie, ed anzi identificato come centro di rischio, alla fine, è l’unica cosa che funziona.

Lo spazio rurale metropolitano, che pure è dominante dal punto di vista dell’estensione territoriale, è trasparente alle politiche pubbliche, assieme ai suoi abitanti, e finisce per trasformarsi in uno “spazio vuoto”, un’area di risulta priva di valori specifici, nella quale un sistema urbano fuori controllo può vomitare tutti i suoi problemi ed esternalità, a partire dalle grandi discariche, come la famigerata RESIT di Giugliano,  che per un trentennio hanno funzionato come recapito dei rifiuti – sia autoctoni che d’importazione – e che ancora attendono i necessari interventi di messa in sicurezza e riqualificazione. Per inciso, tutte cose che sapevamo già, senza bisogno di rivelazioni di pentiti o di sofisticati monitoraggi, perché scritte da più di un decennio nel Piano regionale di bonifica dei siti inquinati.

Il dramma della Terra dei fuochi è tutto qui, in un’area metropolitana, la terza del paese, ancora priva di un sistema minimo di governo del territorio, di una strategia pubblica in grado di restituire senso e coerenza ad un mosaico scombinato di realtà urbane sofferenti e di poveri pezzi di countryside. La protesta degli abitanti della Terra dei fuochi – i due milioni di cittadini che popolano l’hinterland metropolitano di Napoli –  parte da qua, da un ambiente di vita avaro di opportunità e vissuto come incerto e ostile, nel cui disordine anche gli scampoli di ruralità finiscono per essere percepiti, anziché come risorsa, come fonte di rischio.

Se tutto questo è vero, ciò di cui ha disperatamente bisogno la cosiddetta Terra dei fuochi,  non sono le bonifiche, pure necessarie, e reclamate a gran voce dell’arcipelago di comitati, che della crisi ambientale hanno fatto un questione identitaria, quanto le politiche. A questo punto, la missione della nascente città metropolitana dovrebbe essere quella di mettere ordine in un mosaico territoriale fuori controllo; di dotare questo sistema congestionato degli standard minimi di civiltà, di ricreare un ambiente sicuro e attrattivo per i cittadini come per le aziende. In tutte queste cose, si è visto, lo spazio rurale non rappresenta il problema, quanto piuttosto la risorsa dalla quale partire per ricostruire un paesaggio di vita credibile.

Sono cose che riguardano per intero la dissestata filiera dei poteri, da quelli locali fino al governo centrale, maledettamente più impegnative degli interventi placebo messi in campo per arginare la tempesta mediatica degli ultimi tre anni. Nel frattempo, in attesa che le politiche ripartano, continuare a fronteggiarsi sul piano dei simboli e delle narrazioni fantastiche, rimane senza alcun dubbio la cosa più comoda da fare.

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 30 ottobre 2016

La firma del patto per Napoli è stata una specie di fusione fredda, nonostante l’importanza dei temi in gioco gli animi non si sono entusiasmati, ed è utile capire perché. Probabilmente conta il rapporto difficile tra i contraenti, se il premier ha tirato in ballo la stretta di mano tra Rabin e Arafat il problema evidentemente c’è, ma non è questo l’aspetto centrale della vicenda.

In altri tempi, il finanziamento di un piano infrastrutturale e di ammodernamento urbano sarebbe stato considerato come un fisiologico trasferimento dallo stato centrale verso la terza città d’Italia: la modalità normale con la quale il paese tiene in ordine e in sicurezza il suo sistema urbano, insomma un atto dovuto. Adesso, questa modalità ordinaria di funzionamento della Repubblica viene spettacolarizzata, si trasforma in un evento da celebrare, e questo nelle persone sensate finisce per destare preoccupazione anziché euforia, perché l’erogazione delle risorse necessarie alla vita di una metropoli diventa quasi un atto discrezionale, che risente delle contingenze, del momento politico, dei rapporti di forza, delle esigenze comunicazione, addirittura della qualità dei rapporti personali.

Poi, c’è la vertigine della lista, nel senso che per ovvie esigenze di sintesi il messaggio che passa è un elenco di progetti eterogenei, dei quali riesci certo a cogliere l’importanza, ma la cui somma non configura immediatamente una strategia, un racconto coerente di come si intenda cambiare la città. Prendiamo l’abbattimento delle Vele, un’idea non nuova, se ne parla da un quarto di secolo, ma che da sola, se non dici cosa viene dopo, evidentemente non basta a mutare le sorti di un quartiere, a favorire quella benefica miscela di ceti, funzioni, culture, opportunità che è alla base della qualità urbana.

Quindi il fattore tempo: nella lista dei progetti alcuni evidentemente esplicheranno benefici nel medio-lungo termine, vedi il completamento della metropolitana fino all’aeroporto; altri, come l’acquisto dei nuovi treni, la messa in sicurezza delle scuole, la ripresa del progetto Sirena (perché si è aspettato così tanto?), produrranno effetti in un orizzonte via via più ravvicinato, ma anche qui, non è facile per il cittadino immaginare, nel dedalo di difficoltà e malfunzionamenti che è chiamato in solitudine a fronteggiare, quale possa essere il concreto margine di miglioramento nella sua vita di ogni giorno.

Per tutti questi motivi probabilmente il patto per Napoli fatica a suscitare entusiasmi, a mutare realmente il clima che si respira, e qui comune e regione possono fare molto. Perché alla fine, a pensarci bene, i progetti presentati sono solo un segmento di un’agenda più vasta, che comprende la zona est, il centro storico, le periferie, il porto, il parco delle colline, la costruzione della città metropolitana, gli impianti per i rifiuti, oltre naturalmente a Bagnoli. Se mettiamo insieme le risorse in gioco si arriva ad una cifra da capogiro, probabilmente superiore ai tre miliardi, dieci volte quindi l’investimento del quale si è parlato in questi giorni, una cosa da far tremare le vene e i polsi. In quest’impresa, il fattore limitante non sono i soldi, ma la capacità amministrativa, la macchina per attuare – integrandole in un progetto coerente – tutte queste cose, ed è la vera infrastruttura che ci manca.

(L’articolo è stato pubblicato con il titolo:”Quello che manca al Patto per Napoli”)

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 6 ottobre 2016

Le leggi ci sono, nell’ultimo quarto del ‘900 l’Italia si è dotata di una moderna strumentazione giuridica in materia di tutela delle acque, paesaggio, aree protette, difesa del suolo. Con il terzo millennio sono pure arrivati il nuovo Codice del paesaggio e il Testo unico in materia ambientale. Si tratta degli attrezzi indispensabili per affrontare le conseguenze della modernità, di uno sviluppo urbano ed industriale che non ha confronti con nessun momento della storia precedente, e che ha cambiato per sempre, in pochi decenni, il volto del Mezzogiorno e del paese intero. Insomma, le regole le abbiamo, eppure dal ciclo dei rifiuti al rischio idrogeologico, da Bagnoli a Taranto, il governo del territorio e dell’ambiente in Italia arranca, fatica a tenere il passo, a proporre e attuare soluzioni credibili. Le regole scritte stentano a trasformarsi in politiche efficaci.

Da questo punto di vista, la crisi della piana campana – la cosiddetta Terra dei fuochi – rappresenta un caso esemplare, nel quale queste difficoltà di sistema, di governance, si sono manifestate tutte insieme, in modo parossistico.

In questi tre anni, nel sofferente territorio dell’hinterland, abbiamo sperimentato come la Repubblica abbia serie difficoltà ad agire, soprattutto perché i diversi settori dell’amministrazione, che quelle stesse regole dovrebbero applicare, lavorano separatamente. Ambiente, sanità, agricoltura, paesaggio, governo del territorio, funzionano come recinti separati, comparti stagni, che non comunicano e collaborano tra di loro.

A questa frattura “orizzontale”, che impedisce ai diversi specialismi di dialogare e fare squadra, in vista della risoluzione degli stessi identici problemi, si unisce poi la faglia “verticale”, figlia dell’infelice riforma del Titolo V, che ha completamente disarticolato la catena di governo, dallo stato centrale alle regioni ai comuni, ingarbugliando responsabilità e competenze, alimentando contenziosi, giustificando alla fine ogni tipo di irresponsabilità e debolezza d’azione.

Di fronte a queste difficoltà si rafforza la consapevolezza che sia questo il momento di una indispensabile riflessione, per restituire finalmente senso e organicità alle politiche pubbliche per l’ambiente e il territorio, che appaiono in troppi frangenti scoordinate, prive di visione e strategia.

Di tutte queste cose si discute nel convegno “Le politiche per l’ambiente in Italia” (il sottotitolo è eloquente: “Sviluppo sostenibile, rischi ambientali, adeguatezza della pubblica amministrazione”), che si svolgerà domani presso la sede storica della Camera di commercio in Piazza Bovio, a partire dalle ore 10, alla presenza del ministro all’ambiente Gianluca Galletti, del sottosegretario alla pubblica amministrazione Angelo Rughetti, del presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, del vicepresidente della giunta regionale campana, Fulvio Bonavitacola, che nel governo regionale detiene le deleghe strategiche all’ambiente e al governo del territorio.

Il convegno è stato organizzato dalla Scuola di governo del territorio e dall’istituto di studi sulle società del Mediterraneo del CNR di Napoli, nelle persone del direttore della scuola Riccardo Realfonzo, e della storica dell’ambiente Gabriella Corona.

Il programma si presenta promettente: dopo le relazioni introduttive di Maurizio Franzini e dei due organizzatori, sul quadro attuale e le prospettive delle politiche ambientali in Europa e in Italia, gli esponenti dei governi nazionale e regionale, insieme al presidente Cantone, si confronteranno in una tavola rotonda sul tema “Ambiente e pubblica amministrazione: controlli, sanzioni, difficoltà di governance”. Insomma, ci troviamo proprio al centro dei problemi dei quali abbiamo parlato, ed è lecito, considerato il profilo dei partecipanti, attendersi spunti e proposte di rilievo.

Nel pomeriggio, una nutrita serie di interventi su temi specifici, sempre con un occhio al problema dei problemi, che è la governance, la capacità dei poteri pubblici di agire in modo coordinato, con l’indispensabile partecipazione delle aziende, delle famiglie, dei privati cittadini. Si parlerà quindi di bonifiche, con Benedetto De Vivo, Antonio di Gennaro, Salvatore Capasso; del ciclo dei rifiuti con Daniele Fortini e Raphael Rossi; di attività produttive, rischio ambientale e sviluppo sostenibile, con Carlo Iannello, Leonardo Cascini, Giuseppe Marotta, Walter Palmieri, Salvatore Romeo, Salvo Adorno, Francesco Vona.

Insomma, un dibattito che ci riguarda da vicino, e che interessa la riforma più importante di tutte, che è quella del nostro modo – come singoli e come comunità – di abitare sostenibilmente questo nostro povero, meraviglioso paese.

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli  22 luglio 2016

C’è arrivata in ritardo l’Italia rispetto alle altre democrazie europee, ma ora anche da noi qualcosa finalmente si muove, il tema del “consumo di suolo” è entrato nel dibattito pubblico e, con maggiore lentezza, nell’agenda politica. Il fatto è che uno stato moderno è obbligato a tenere una contabilità della risorsa suolo, del modo con il quale viene impiegato, e a renderne conto ai cittadini. Ogni anno, ad esempio, il governo inglese pubblica in rete un bollettino nel quale è illustrato, con l’aiuto di tabelle semplici e chiare, come è cambiato l’uso di ogni ettaro di territorio nel regno, e quanto è cresciuta la città a detrimento dei boschi e delle campagne. Questo perché in quelle democrazie si crede ancora che il suolo, il territorio e il paesaggio siano la prima risorsa di un paese, e che dal modo come vengono impiegati e gestiti dipenda grandemente il benessere, la sicurezza nazionale la sostenibilità stessa dei percorsi di sviluppo.

Dicevamo che anche da noi qualcosa si muove. Da due anni l’ISPRA, l’Istituto superiore per la protezione e la sicurezza ambientale, pubblica un rapporto sul consumo di suolo in Italia, quello relativo al 2016 è stato presentato nei giorni scorsi a Roma, ed è reperibile in rete. Diciamo subito che la chiarezza e la facilità di lettura sono per ora assai distanti dai limpidi bollettini anglosassoni, ma c’è sempre modo di migliorare. Per il resto, il rapporto propone alcuni punti di interesse. In primo luogo, a causa della crisi economica, il consumo di suolo per urbanizzazione si è sostanzialmente dimezzato nell’ultimo biennio, rispetto ai valori degli anni 2000, passando da 8 a 4 metri quadrati al secondo. Questo significa che ogni anno, secondo il rapporto, il nostro paese mette sotto asfalto o cemento dodicimilacinquecento ettari di campagna, prima erano venticinquemila. Nonostante il rallentamento, è come se ogni anno in Italia ci fossero un paio di città in più, grandi più o meno come Napoli.

La novità del rapporto, è il calcolo del costo economico che questa perdita di suolo comporta, in termini di diminuzione dei servizi ecologici essenziali (produzione di cibo, acqua, depurazione, biodiversità ecc.). Ebbene, si tratta di ottocento milioni l’anno, una sorta di finanziaria occulta, che comporta una crescita del debito pubblico territoriale (le spese che dobbiamo affrontare per supplire alla diminuzione dei servizi della natura) che è probabilmente superiore al debito finanziario.

In assenza di una politica pubblica nazionale di contenimento dei consumi, è quindi la crisi economica a proteggere i nostri suoli, e questa cosa non deve rassicurarci, perché è evidente che qualora, come è auspicabile, le cose dovessero riprendere a camminare, anche il consumo di suolo risalirà, a meno che non si riesca a “disaccoppiare” la crescita economica dallo spreco di capitale naturale, e a ripensare l’edilizia in termini di recupero, anziché di ulteriore distruzione di spazio rurale.

C’è poi il fatto che il suolo non si perde solo per urbanizzazione, ma anche per inquinamento, e noi in Campania ne sappiamo qualcosa. La crisi ambientale, sociale e mediatica degli ultimi anni ci ha costretto ad una mappatura dettagliata dei suoli agricoli contaminati, ora sappiamo che sono solo alcune decine di ettari, ma il problema del degrado e dello sciupio del nostro territorio agricolo rimane.

Su questi due argomenti – il consumo di suolo, e il recupero dei suoli inquinati con tecnologie “verdi” – l’Università Federico II con il supporto dell’Assessorato regionale all’Agricoltura, ha condotto negli ultimi anni due importanti progetti – Soil Monitor ed Ecoremed – che hanno impegnato un centinaio di studiosi e il cui contribuito alla definizione delle politiche e delle azioni a scala nazionale è stato rilevante.

I risultati di questi due progetti, sullo sfondo del rapporto nazionale 2016 dell’ISPRA, sono l’argomento del dibattito che si terrà venerdì 22 luglio, presso la sala Pessina in Corso Umberto I n. 40, alla presenza dei curatori del rapporto, e del gruppo di ricercatori che stanno lavorando ai due progetti, con la partecipazione di politici e amministratori. L’intenzione è quella di affrontare gli aspetti scientifici del problema, insieme a quelli sociali, politici e amministrativi, perché anche una buona conoscenza alla fine servirà a poco, se non si tradurrà rapidamente in buone politiche, per la nostra Campania e per l’Italia.

 

 

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Social batte tank nella notte tragica

Lucio Caracciolo, la Repubblica 17 luglio 2016

C’era una volta l’esercito turco, campione mondiale di golpe. Venerdì sera gli epigoni di quella tradizione si sono cimentati in un farsesco remake che, non fosse per la scia di sangue e per le imprevedibili conseguenze geopolitiche, parrebbe una riuscita imitazione di Vogliamo i colonnelli, il non troppo fantapolitico film diretto nel 1973 da Mario Monicelli. Nelle scuole di intelligence, dove i colpi di Stato veri si studiano e si preparano, questi ufficiali turchi sarebbero finiti dietro la lavagna. Probabilmente serviranno da caso di studio: il contromodello perfetto, l’esempio di come non si deve azzardare un golpe.

Gli aspiranti tirannicidi di Ankara hanno sbagliato secolo. Sono rimasti alla belle époque del secondo Novecento, quando per “riportare l’ordine” bastava prendere possesso dei pochi, visibili gangli vitali del regime vigente, arrestarne i capi e spaventarne i sostenitori, se necessario (ma non sempre) sparando. Oggi, pensare di prendere il potere schierando qualche carro armato in alcuni crocevia strategici di Istanbul, bombardando il parlamento e costringendo una terrea speaker della tv di Stato a leggere un vago proclama, significa votarsi alla più disonorevole delle sconfitte.

Il catalogo degli errori (quello degli orrori è appena abbozzato, in attesa della vendetta di Erdogan, che si annuncia sanguinosa) è il seguente.

Primo: in un paese moderno, vivace e interconnesso o riesci a mobilitare subito il popolo, oppure il tuo golpe è abortito. Valga il caso egiziano del generale al-Sisi, il quale prima di rovesciare il legittimo presidente Morsi si era assicurato il supporto di una vasta e assai mediatizzata piazza. Nell’era delle tv private e dei social network, un’annunciatrice che parla dal canale pubblico suona come l’arpa in una banda di ottoni. Il parziale blocco di Facebook, Twitter e YouTube è durato appena un paio d’ore. Per tutta la notte le tv private hanno trasmesso in diretta i video postati sui social network dai cittadini che filmavano le violenze e i bombardamenti dei golpisti.

Secondo: il capo nemico va subito preso e neutralizzato. Il pensiero corre ancora al 1973, quando gli uomini di Pinochet puntarono sulla Moneda e liquidarono (o spinsero al suicidio) il presidente Allende. Evidentemente i pianificatori della sollevazione turca non erano bene informati sul rifugio di Erdogan. O non hanno avuto la forza di prenderlo. Sicché il presidente ha potuto rivolgersi al paese in videochiamata FaceTime, banalissima app collegata a Internet. È bastato l’appello del leader per mobilitare masse di manifestanti, specie nella sua roccaforte di Ankara. Il fatto che tutti i partiti, anche i più ostili al sultano, si siano più o meno sinceramente schierati contro i golpisti ha contribuito a isolarli.

Terzo: un capo si sostituisce con un altro capo. Non pare che i molti colonnelli e i pochi generali disponessero di un leader, forse nemmeno di un improvvisato direttore d’orchestra. Oppure costui era talmente impresentabile da non osare mostrarsi. Errore già commesso dai golpisti tardobolscevichi dell’agosto 1991, quando vollero imporre il triste, sconosciuto Janaev sulla sedia di Gorbaciov. In ogni caso, un colpo di Stato turco senza nemmeno una testa di turco è pretendere troppo.

Quarto: se fai un golpe militare devi poter contare sui militari. Almeno su alcuni reparti decisivi. La parte sostanziale delle Forze Armate non ha partecipato alla ribellione, restando in attesa degli eventi o schierandosi con il presidente. All’interno delle diverse armi sono emerse linee di frattura ed esitazioni. Di qui l’umiliazione di militari superarmati e addestrati che si fanno disarmare e arrestare dalla polizia. Quinto: sembra che i golpisti turchi si siano fidati della malcelata simpatia dei colleghi occidentali, alleati Nato. I quali si sono guardati dal mettere un dito nell’ingranaggio, ma certo non hanno scoraggiato gli insorti. È difficile immaginare che gli americani non abbiano visto muoversi le colonne corazzate turche qualche ora prima del golpe. Nessun alleato si è sognato di avvertire Erdogan del pericolo. Le prime reazioni delle capitali atlantiche, Roma compresa, ad “iniziativa militare” in corso, sono state tiepide se non gelide nei confronti del presidente turco. Senza curarsi di troppo mascherare la speranza di sbarazzarsi dell’inaffidabile sultano, fresco dell’ennesima “svolta” che lo ha riavvicinato a Putin. Torna ancora alla mente il golpe contro Gorbaciov, con i leader di mezzo Occidente a tifare privatamente per i «salvatori dell’Unione Sovietica ». Sommando questi e altri errori — di norma i golpe riescono meglio all’alba, non all’ora del dessert, quando la gente è sveglia e i media crepitano — i dietrologi sentenziano che non fu vero colpo di Stato, ma finto autogolpe. Erdogan si è inventato tutto per eliminare i suoi nemici? Se così fosse meriterebbe di correre per l’Oscar, vista la sua espressione mentre si affannava a mobilitare via iPhone masse di adoratori. Meglio stare ai fatti palesi, che svelano la disperata incompetenza di un pugno di militari. Come avrebbe fatto dire Monicelli a un aspirante golpista del venerdì sera: «Anche i colonnelli turchi ogni tanto arronzano ».

 

Il dolore di Elif Shafak “Dopo il golpe meno diritti ora l’Europa è più lontana”

Marco Ansaldo, la Repubblica 19 luglio 2016

«Ogni colpo di Stato ha frantumato la democrazia e creato enormi violazioni dei diritti umani. E questo orribile, sanguinoso golpe, con la reazione successiva del governo, pone la Turchia non in Europa, ma in Medio Oriente ».

Elif Shafak, la scrittrice più venduta nel Paese, appare davvero abbattuta: «Sono tempi molto, molto turbolenti per la mia patria», dice in questa intervista a Repubblica.

«Ma voglio essere chiara — aggiunge — sono totalmente contro a questo golpe, ha solo peggiorato tutto».

C’è però chi ha molti dubbi proprio sulla sua dinamica: in tanti si chiedono se sia stato per caso un golpe autoprodotto. Possibile?

«No, non penso che il governo lo abbia organizzato. E non dobbiamo cercare di vedere gli eventi attraverso teorie cospirative. Il golpe è stato reale e, secondo me, una cosa terribile: in una sola notte sono morte centinaia di persone, il Parlamento bombardato. Ma il Parlamento è il cuore della democrazia di un Paese, come può essere bombardato? Questo è inaccettabile ».

Per le strade ora si vedono i lealisti islamici sventolare la bandiera nazionale con la mezzaluna e la stella. Quella stessa che, per decenni, è sempre stato il simbolo brandito da laici e nazionalisti. La bandiera appartiene a tutti, d’accordo. Ma non è significativo questo passaggio di mano?

«Ora tutti reagiscono in modo emotivo. Il tentativo di golpe è stato uno shock. E la gente è scossa nel profondo. Da una parte è ammirevole che i cittadini si siano riversati nelle strade per fermare i carri armati. Dall’altra, a me preoccupa la cosiddetta ‘psicologia delle masse’».

Che cosa intende?

«Che vedo una crescita di nazionalismo, mascolinità, religiosità, intolleranza… E la “psicologia delle masse” può essere un effetto molto pericoloso ».

Ma allora i laici qui dove devono guardare, a chi devono credere?

«Come cittadini democratici la nostra posizione qui è la più solitaria, la più triste. Tutti quelli che credono nei valori della democrazia hanno criticato il tentato colpo di Stato. Nessuno lo ha sostenuto. Siamo contrari sia ai golpe militari sia all’autoritarismo. E sono molto preoccupata che il governo del partito al potere possa ora diventare ancora più dominante. Tutto sarà peggio. L’unica alternativa è tornare alla democrazia: sostenere il pluralismo, la libertà di parola. E i diritti umani, appunto».

Ma non pensa che l’esperienza della rivolta di Gezi Park, nel 2013, poi repressa nel sangue, possa tornare in qualche modo?

«In queste circostanze non mi aspetto una ribellione simile. I democratici e i liberali sono troppo soli, sono troppo pochi. Siamo la minoranza più triste, in questo Paese».

A lei che è molto attenta agli aspetti della comunicazione, non le è parso interessante vedere come il Presidente che odia e si oppone ai social media, abbia poi usato Facetime per lanciare l’appello alla resistenza popolare, e salvarsi mentre pareva spacciato?

«È molto ironico. Il governo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo e il Capo dello Stato hanno colpito, controllato e soppresso i social media così tante volte in passato. Hanno portato in tribunale la gente per commenti fatti su Facebook o Twitter. Hanno monitorato i social media, lasciando davvero poco spazio alla libertà di parola. Però, nella notte del tentato golpe, lo stesso governo ha dovuto usare i social media. Ripeto, lo trovo davvero molto ironico».

Perché?

«Perché è stata una lezione di democrazia liberale. Persino i politici autoritari in Turchia, e nel mondo, possono un giorno avere bisogno delle libertà fondamentali che sistematicamente soffocano. Dopo tutto, ognuno ha bisogno delle libertà democratiche. Ma temo che la Turchia non abbia imparato questa lezione ».

Non sono d’accordo con la Urbinati, ma l’articolo pone domande fondamentali. AdG

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Nadia Urbinati, La Repubblica 3 luglio 2016

BREXIT ci ha catapultato indietro di svariati decenni, quando scrittori e uomini di cultura teorizzavano il dispregio per la “democrazia”, a tutti gli effetti ancora il nome di un pessimo governo perché governo degli ignoranti, di chi non sapeva capire il “vero” interesse del paese perché non aveva beni da difendere o carriere da coltivare. Così pensava per esempio François Guizot, un ministro liberale francese di metà Ottocento, che ebbe il nostro Mazzini come oppositore e con lui tutti i fautori del suffragio universale. Dopo il referendum britannico per l’uscita dall’Unione europea, sembra di assistere a un refrain di simili posizioni.

Nei blog e negli articoli su riviste online inglesi e americani che circolano numerosi in questi giorni si verifica uno straordinario fenomeno di reazione degli acculturati contro gli “ignoranti”. La questione interessante non è, ovviamente, quella della veridicità o meno di questa affermazione — quanta ignoranza serve a fare un ignorante e quanta informazione a fare un competente in preferenze elettorali è una di quelle domande alle quali nessun politologo può dare risposta certa. Quel che è interessante è che ritorni a farsi strada nell’opinione del mondo l’idea che il suffragio universale equivalga a governo degli ignoranti, che i molti (generalmente poveri e non acculturati) blocchino le possibilità a chi potrebbe espandere le proprie capacità. La società della meritocrazia si rivolta contro la società dell’eguaglianza e prova a far circolare l’idea che la competenza, non l’appartenenza alla stessa nazione, debba consentire l’accesso alla decisione politica.

Le avvisaglie della rivolta delle élite nel nome della competenza e dell’interesse si manifestano del resto anche nel campo della ricerca: tra le teorie della democrazia che oggi attraggono molto l’attenzione degli studiosi vi è quella che prende il nome di “teoria epistemica”, l’idea cioè che la democrazia sia buona non perché ci rende liberi di partecipare alle decisioni e di cambiarle, ma perché le sue procedure — se opportunamente usate — producono decisione buone o giuste. Per esempio, restare in Europa sarebbe stata la decisione giusta se a usare la procedura del voto ci fossero stati cittadini informati. Il fatto che abbia vinto Brexit significa non che le procedure siano sbagliate ma che per ben funzionare dovrebbero essere usate da chi meglio può usarle.

Certo, ammettono i teorici della “democrazia competente”, tutti sono potenzialmente capaci di ragionare e in questo senso l’inclusione universale nella cittadinanza non è messa in discussione. Il problema è che non tutti hanno, per le più svariate ragioni, potuto coltivare le loro qualità intellettuali, non solo perché hanno deciso di interrompere la loro educazione ma perché hanno scelto di non informarsi bene. Per il momento, il ragionamento sulla democrazia competente si interrompe qui. Senonché, come si evince dai commenti di questi giorni, qualcuno potrebbe completarlo così: ci sono alcune decisioni, quelle che richiedono una dose di conoscenza e riflessione maggiore, che non possono essere prese da tutti, e soprattutto da coloro che per loro scelta si sono resi incompetenti. Questo argomento antidemocratico trova oggi uno spazio preoccupante.

La rivolta delle élite contro la democrazia è una realtà che conferma la brillante e solitaria diagnosi fatta da Christopher Lasch in The Revolt of the Elite del 1995. Attento studioso dei mutamenti politici e di costume nell’America di Carter e Reagan, Lasch documentò la crescita di quella che egli stesso definì “la società del narcisismo” e della conseguente disaffezione nei confronti della richiesta popolare di eguaglianza. Le classi privilegiate, scriveva, sono fortemente attaccate alla nozione della mobilità sociale e dell’apertura delle frontiere; quelle svantaggiate sono al contrario timorose di entrambe. I nuovi benestanti alimentano un’idea che è in forte tensione con la democrazia medesima: quella della “democrazia della competenza” contro la “democrazia dell’eguaglianza”, quella di una cittadinanza basata sull’eguale accesso alla competizione economica invece che sull’eguale potere nella partecipazione alla vita collettiva e politica. Divelta la centralità del lavoro, sembra che lo scopo della democrazia sia diventato quello di emancipazione dalla condizione di lavoro manuale, invece che dell’eguale distribuzione del potere di decidere sulle regole del lavoro e di chi lavora.

Emanciparsi dal lavoro e lasciare il lavoro agli ignoranti: «È elitario dire questo ad alta voce?”, si chiede un blogger inglese. Ci si deve «vergognare» ad ammettere che non tutti abbiamo gli stessi interessi da difendere? «Ci si deve reprimere dal pensare che è per il bene di tutti che le ragioni della conoscenza e della competenza dovrebbero avere più attenzione?». Sono gli ignoranti che hanno paura degli altri, che si innamorano del nazionalismo, che sono angosciati dalla globalizzazione. Allora, perché lasciare che essi partecipino a decisioni che mettono in discussione il nazionalismo e che vogliono tenere aperte le frontiere con l’Europa? È Michael Pascoe sulla rivista “Business Day” che propone queste osservazioni radicali appellandosi, appunto, ad una «democrazia della competenza» e chiedendosi se è davvero «reazionario» denunciare «l’idiozia delle masse». Ancora una volta, dopo Brexit, in nome della democrazia si dice in sostanza che la democrazia è un pessimo governo.

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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 11 giugno 2016

L’altro giorno in piena ora di punta, nel ganglio nevralgico di piazza Mazzini, il semaforo era fuori uso, il giallo lampeggiava, non si vedeva un vigile, eppure niente code, il traffico scorreva una bellezza, e il fatto mi pareva in fondo l’immagine di come funziona in questo momento la città. Perché ha ragione Luciano Brancaccio, De Magistris si afferma con politiche simboliche, in grado di mobilitare un segmento minoritario ma determinante dell’elettorato, visto che la metà preferisce rimanere a casa, ma c’è un altro aspetto, del quale pure bisogna ragionare, ed è quello del “grado zero” del governo urbano, dal sindaco assunto a modello, che a Napoli stiamo in questo momento sperimentando.

Pensiamo al lungomare liberato, dove alla chiusura al traffico veicolare non è seguito alcun dispositivo o codice d’uso, come accade negli spazi pubblici delle normali città europee: semplicemente è uno spazio libero, assolutamente non attrezzato, nel quale ciascuno fa quello che vuole, stendere una sdraio o mettere una bancarella, e tutto è lasciato alla spontanea interazione tra i singoli. Oppure, provate a visitare il parco dei Camaldoli, cento strepitosi ettari di verde nel cuore della città: ci troverete una selva millenaria che in assenza di manutenzione sta morendo, le ceppaie smottano giù l’una dopo l’altra, come nella giungla, ma lo spettacolo del disfacimento vegetazionale resta comunque grandioso, e il mio cane Argo si diverte molto.

Coi beni comuni poi, il grado zero di governo ha addirittura trovato una sua formalizzazione amministrativa, con la controversa delibera per l’Asilo Filangieri, che autorizza l’occupazione abusiva di uno spazio urbano, introducendo così un doppio regime di legalità, quello normale dove se infrango vengo sanzionato, e l’altro, dove questo non necessariamente avviene, perché è in gioco la libera espressione delle forze popolari, resta il problema di chi debba stabilire questo confine, questo curioso “stato di eccezione”.

Nella vita di tutti i giorni, l’arretramento deliberato dell’amministrazione dalla vita della città ha un suo prezzo, provate a prendere un autobus, o ad aver bisogno di un qualunque servizio comunale, mentre i parcheggiatori abusivi non sono mai stati così presenti e sicuri di sé. Anche la macchina amministrativa è al grado zero, l’urbanistica semplicemente non esiste più, con un manipolo smarrito di funzionari superstiti, asserragliato in stanze vuote, come nel Deserto dei Tartari, che dovrebbe gestire cose epocali come il piano regolatore, le trasformazioni urbane a est e a ovest, il centro storico, le periferie, il parco delle colline.

Sull’acqua pubblica, uno dei fiori all’occhiello dell’amministrazione uscente, le cronache raccontano in realtà lo smantellamento di un’azienda che era un piccolo gioiello, con l’allontanamento dei dirigenti troppo autonomi, che si ostinano a pensare alla qualità del servizio, anziché al mantra fumoso dei beni comuni, con il solo risultato per ora di rinunciare ad ogni necessario ammodernamento della rete, e alla chiusura del ciclo idrico (acqua potabile e fognature) con i necessari investimenti e manutenzioni.

Al contrario, continua a prosperare, anzi si allarga, l’esercito delle partecipate, una sorta di amministrazione parallela, frutto di un trentennio di clientele, con ottomila dipendenti che non si sa cosa facciano e cosa producono, ma assorbono metà del disastrato bilancio comunale, in quello che è diventato probabilmente il vero fulcro del sistema di potere demagistrisiano.

Sui rifiuti poi il grado zero di governo vuol dire rimandare ogni impegnativa scelta strutturale, con la raccolta differenziata ferma al palo, affidando a caro prezzo la monnezza agli impianti degli altri, che ci fanno soldi ed energia, lasciando noi vulnerabili, a pattinare ancora sul ghiaccio di un sistema estremaente oneroso, ma che non offre sicurezza né autonomia.

Per il momento tutte queste cose si tengono ancora, in precario equilibrio, nella città che offre il grado zero di servizi, al costo più alto per famiglie e aziende, in termini di tasse imposte e tributi. Ma è anche vero, in fondo, che il sindaco non ha inventato niente, perfezionando semplicemente il “grado zero” già sperimentato dalle giunte Iervolino, poi premiato da quella straripante vittoria con l’ottanta per cento dei voti, una decina di anni fa.

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Antonio di Gennaro

Il suolo è la base della vita, è quella cosa che regge tutto l’ecosistema e anche, in definitiva, l’intera comunità umana. Dal suolo traiamo il cibo, le fibre, il legno; ma è anche il grande filtro naturale che depura l’acqua buona che beviamo. Insomma, i suoli lavorano per noi, in tanti modi diversi. I suoli della piana Campania, in particolare, per la loro natura vulcanica e il clima favorevole, sono tra i più fertili dell’universo conosciuto. Per fabbricare tutta questa fertilità, la natura ci impiega del tempo, e i differenti strati del suolo sono come le pagine di un libro, nel quale possiamo leggere quindicimila anni di storia naturale: un racconto spettacolare di eruzioni, inondazioni, cambiamenti climatici, colonizzazioni agricole.

Insomma, il suolo è la risorsa dal quale dipende il nostro futuro, è fragile, non si rinnova facilmente, ed è maledettamente importante proteggerlo. Per tutti questi motivi, appare davvero sconcertante e paradossale il recente provvedimento con il quale il comune di Caivano ha ordinato ad una ventina di agricoltori, nientemeno che di smaltire in discarica lo strato superficiale dei suoli, proprio quello più fertile. Con un simile provvedimento, quello che è il nostro tesoro durevole di fertilità, viene trasformato in un rifiuto come un altro.

Quali siano gli inghippi burocratici che hanno condotto a una simile, assurda decisione, è presto detto. L’analisi di quei suoli ha evidenziato un contenuto in alcuni microelementi, in particolare il berillio e lo stagno, superiori ai limiti della legge nazionale, la 152. Peccato che nei suoli di Caivano quei contenuti particolari di microelementi siano legati  ai “valori di fondo”, cioè ai valori che contraddistinguono naturalmente quel determinato tipo di suolo. Insomma, quei microelementi non provengono da contaminazione, ma ce li ha messi il Padreterno. Per dirla tutta, la peculiare composizione dei nostri suoli è un aspetto peculiare della loro fertilità, è il vero segreto di Campania felix.

Nel caso dell’ordinanza di Caivano, l’ignoranza di tutte queste cose, assieme ad un goffo e incomprensibile eccesso di zelo, ha generato un mostro burocratico, trasformando inopinatamente la nostra risorsa più importante in un pericoloso rifiuto. E imponendo in prospettiva, una rimozione totale dei suoli, tenuto conto che quei microelementi sono presenti anche negli strati profondi. Insomma, dopo aver rimosso lo strato superficiale, dovremmo procedere sbaraccando per intero le nostre pianure, o cessare del tutto le attività agricole, che rimangono pur sempre uno dei pilastri economici e sociali di questa nostra scombinata regione.

E evidente che questo clamoroso errore deve essere rapidamente sanato, evitando a quelle venti aziende, agli imprenditori agricoli e alle loro famiglie, un danno ingiusto, una mortificazione imperdonabile, e all’intera agricoltura regionale una condizione di funesta precarietà. Un passaggio cruciale, è l’ufficializzazione da parte della Regione dei valori di fondo che contraddistinguono i nostri suoli, seguendo la strada di altre regioni, che hanno dovuto affrontare problemi simili, prevenendo alla base la possibilità che simili provvedimenti possano verificarsi ancora. Bisogna agire subito, ci stiamo coprendo di ridicolo.

Per una storia di suoli fertili maltrattati, per fortuna ce n’è una buona di suoli recuperati. In questi giorni il Commissario per le discariche di Giugliano, Mario De Biase, e i ricercatori della Federico II coordinati dal docente di agronomia Massimo Fagnano, hanno completato l’allestimento del campo pilota di S. Giuseppiello: si tratta di un rigoglioso frutteto di sei ettari, di proprietà della famiglia Vassallo, nel quale Gaetano, pentito di giustizia, ha confessato lo sversamento di fanghi industriali ricchi di cromo. Su quei suoli, ora sequestrati, è stato ora impiantato un bosco di ventimila pioppi, che lavoreranno, assieme a compost e batteri, per ripulire l’ecosistema. Si tratta di una metodologia efficace e a basso costo (venti volte meno delle tecniche tradizionali) per recuperare i suoli, con il vantaggio di mantenerli alla destinazione agricola; un approccio che potrà essere applicato agli altri suoli della piana con problemi analoghi. Il lavoro di questa grande macchina verde sarà accuratamente monitorato nel tempo, seguendo attentamente l’andamento di tutti i parametri fisico-chimici e biologici.

Ricordiamoci di questo nuovo bosco, andiamo a visitarlo. A S. Giuseppiello non è solo la fertilità che stiamo ricostruendo, ma la credibilità della Repubblica: il paesaggio verde che rinasce al posto del degrado e dello squallore, è un presidio di legalità e civiltà, il segnale visibile che le cose possono cambiare.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 13 aprile 2016

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Antonio di Gennaro, pubblicato su Repubblica Napoli del 29 marzo 2016 con il titolo: “Ma anche il governo ha le sue colpe”

Il sindaco De Magistris continua a utilizzare la vicenda di Bagnoli come spot di campagna elettorale, all’insegna del suo zapatismo in salsa partenopea, ma sbaglia il governo a fornire semplificazioni di segno opposto. Se qualcosa abbiamo appreso dalla lezione di Bagnoli, è che l’intera filiera istituzionale non ha funzionato, e le responsabilità non stanno tutte da una sola parte. Le inconcludenti attività di bonifica, ad esempio, hanno sempre mantenuto una ferrea regia ministeriale. L’erogazione dei fondi, è proceduta a singhiozzo, in funzione dei cambi di governo, a Roma come a Santa Lucia. La società di trasformazione urbana, poi, è partita con il piombo nelle ali, senza l’indispensabile partecipazione dell’imprenditoria privata, ma c’era una legge regionale, la 16, che di fatto non la favoriva. A palazzo S. Giacomo poi, dopo lo sforzo per redigere il piano, qualcuno ha pensato che l’attuazione procedesse in automatico, senza un quotidiano controllo e sostegno del sindaco, della giunta, del consiglio. Il dialogo pubblico che era stato il motore del piano, si è interrotto subito dopo l’approvazione, sequestrando l’area di Bagnoli  per un decennio.

Se vogliamo essere onesti, non possiamo raccontare Bagnoli solo come un fallimento locale. Il recupero dell’area industriale è la più grande operazione di questo tipo che sia stata tentata in Italia, la valenza è di scala nazionale, come anche le responsabilità e le competenze, ed è l’intera filiera repubblicana, dallo stato centrale al governo cittadino, che si è mostrata inadeguata. Anche le leggi nazionali sulla bonifica, con la loro impostazione ideologica, nella loro concreta applicazione non hanno funzionato, puntando a una velleitaria palingenesi ecologica, anziché una sobria messa in sicurezza, come si fa in tutti gli altri paesi avanzati. La lezione, quindi, riguarda tutti, l’attrezzatura istituzionale e amministrativa del paese nel suo complesso, a nessuno conviene proporsi come attore salvifico.

Tutto sta a capire ora quando finirà la rappresentazione inconcludente che si tiene davanti ai nostri occhi. Probabilmente con l’insediamento del nuovo governo cittadino, bisognerà vedere quale. Per ora, tutti lavorano alacremente per rafforzare l’amministrazione in carica. La sensazione, è che la credibilità del Partito democratico sia stata erosa più dall’evanescente ruolo svolto in città e in consiglio in questi cinque anni, piuttosto, che dall’esito politico delle primarie. La proposta politica dei 5Stelle appare imbarazzante, mentre il centrodestra sembra anch’esso in piena fase di auto-sabotaggio.

La verità, è che dopo cinque anni di inconcludente stand-by, il Comune ha in sostanza dismesso il suo ufficio di piano. C’è dunque una capacità amministrativa locale che, al di là degli slogan, è inesistente e va completamente ricostruita. Si tratta di una cosa che non riguarda Napoli, ma il governo e il paese ne suo insieme. Le cose decise nel chiuso delle stanze romane non hanno mai funzionato, il governo ha bisogno di un interlocutore locale affidabile, operativo. Per questo, sarebbe bene, nell’interesse di tutti, che la cabina di regia si insediasse stabilmente qui, a Bagnoli, sarebbe il primo intervento concreto di recupero dell’area.

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Tempo fa Edoardo Salzano mi ha chiamato da Johannesburg, tra le altre cose mi ha chiesto una riflessione sulle vicende campane per Eddyburg.

Per chi non lo conoscesse, Eddyburg è il più importante e visitato sito italiano sulle cose urbanistiche, e non solo. Su queste materie, è anche probabilmente l’archivio più ricco disponibile in rete.

Il motto del sito è bell0, ed è tutto un programma:  “Urbs, civitas, polis”. L’urbanistica considerata nell’aspetto fisico della città (urbs), nella vita della comunità che la abita (civitas), nell’organizzazione politica che serve a governarla (polis).

Visitate Eddyburg, se vi va. Il link all’articolo è qui.

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