You are currently browsing the category archive for the ‘Storie e paesaggi’ category.

Per comprendere “Campagna flegrea”, l’opera di Barbara Yulak Roos, bisogna far ricorso a un termine anglosassone – land, magica parolina – che non ha un suo preciso corrispondente nella lingua italiana, e che serve a designare una certa porzione della superficie terrestre con tutti i suoi attributi fisici ed ecologici: morfologia, suolo, idrologia, clima, vegetazione.

Barbara esprime il legame con il land della sua vita, le terre struggenti e martoriate dell’area napoletana, rappresentandole con il suo sguardo, che è profondamente artistico e profondamente scientifico allo stesso tempo, cogliendone l’identità e l’essenza ecologica, al di là del doloroso caos che le trasformazioni dell’ultimo cinquantennio hanno creato.

Se il nostro agire scomposto ha comportato frammentazione, disgregazione del paesaggio, perdita di identità e di senso, il recupero di un giudizio di valore sui luoghi della nostra vita richiede secondo Barbara l’adozione di un punto di osservazione lontano nel tempo e nello spazio, che si ricongiunga alla lunga durata, al flusso della storia naturale, e che ci aiuti a cogliere la continuità, l’unitarietà, l’integrazione dei paesaggi e degli ecosistemi, il pulsare dell’acqua, della terra e della vita, anche sotto la sottile crosta, negli interstizi dei disordinati habitat urbani che costituiscono l’ambiente della nostra povera quotidianità.

campagnaflegrea

Barbara Yulak Roos espone le sue opere, tra le quali “Campagna flegrea”, presso la Fonoteca in via Morghen, al Vomero.

LOCBarbaraYRoos

Diresti che è inverno, e invece sono fioriti i mandorli sul colle della Madonna delle Grazie, tutt’intorno la chiesa medievale ferita, a Coppito, dove i fiumi de l’Aquila si incontrano, il Raio e l’Aterno.

Che mistero il mandorlo. E’ la pianta che offre di più, chiedendo meno. Cresce senz’acqua, quasi senza terra, sui calcari denudati per l’uso secolare. Albero di sobrietà assoluta, figlia di necessità. Eppure c’è un momento, pochi giorni, al termine della stagione morta, che tocca a lui, lui solo, di esprimere quanta bellezza ed eleganza c’è ancora in giro, gratuitamente, nel cosmo.

madonnadellegrazie1

madonnadellegrazie2

 

Terra e acqua

E’ uno degli hot spot di biodiversità più importanti della Campania: un’area umida estesa più di cento ettari, nelle terre basse di Villa Literno, miracolosamente incastrata tra la città abusiva del litorale domizio e il retroterra disordinato dell’agro aversano e giuglianese. Un paesaggio misterioso, con un reticolo capillare di canali e specchi d’acqua che lambiscono campi erbosi di argilla e torba nera, a ridosso della duna massacrata dall’abusivismo. Terra e acqua, e silenzio. Bidognetti ne aveva fatto un’area protetta: l’aveva requisita ai proprietari, interdetta, attrezzata con bunker in cemento, al riparo dei quali i suoi scagnozzi si dilettavano a sparare ai migratori di passo, rari Cavalieri d’Italia, Pernici di mare e Gallinelle d’acqua, che a questi stagni si posavano affranti dal lungo viaggio d’Africa.

Su queste paludi, la cui bonifica millenaria è stata completata nella prima metà del ‘900, era in antico la tremenda Silva gallinaria, che da Cuma si prolungava lungo costa sino al Circeo, bosco mortifero di febbri e predoni. A Liternum, ai bordi della selva, era la masseria di Publio Cornelio Scipione, vincitore di Annibale, che scelse queste terre difficili per il suo ritiro sdegnoso, giurando che la Repubblica non avrebbe avuto nemmeno le sue ossa.

Dopo le indagini della magistratura e il sequestro Soglitelle è stata espropriata, diventerà una riserva naturale regionale, c’è già un finanziamento ministeriale e un progetto. Speriamo.

 

“Chiamò la sera tardi Daniela, per chiedermi se l’indomani passavo al cantiere di via Diaz. Nello scavo della metropolitana gli archeologi avevano trovato qualcosa. Il fatto è che faccio un lavoro strano: studio i suoli, le terre. Osservando in sezione i diversi strati, analizzandone le caratteristiche minute, cerco di immaginare il paesaggio nel quale il suolo si è formato, il tipo di vegetazione che vi cresceva, come è stato coltivato, la sua storia insomma.

La mattina andai presto al cantiere. Era nella parte alta di via Diaz, all’incrocio con via Toledo: una fossa misteriosa, protetta da una recinzione in lamiera e rete metallica, in mezzo ai palazzi d’affari e alle strade trafficate della city.

Trovai Daniela all’ingresso ad aspettarmi.

La mattina era luminosa. Percorremmo il cantiere sino al fondo dello scavo, ma un’occhiata dall’alto bastò a capire. Alla base del cratere i trowel, le spatole precise e delicate delle archeologhe, avevano ripulito una superficie bruna, piana, segnata da una scacchiera regolare di piccole assolcature.

Nel cuore del centro storico della città, tra i palazzi dello sventramento laurino, i lavori del Metrò avevano riportato in luce il suolo sul quale gli antenati di 4.000 anni fa sperimentarono per la prima volta l’agricoltura. Davanti a noi si presentava in originale l’atto costitutivo di Campania felix.

Io quel suolo l’avevo visto altre volte. A nord, nell’Agro aversano, verso i Regi Lagni, affiora ancora in superficie, non sepolto da eruzioni successive, sedimentazioni, riporti. Su di esso, nei ritagli superstiti dell’urbanizzazione, crescono maestosi i filari di vite maritata al pioppo. Questa terra nera si è formata dalle ceneri dei vulcani flegrei, all’ombra di una foresta che copriva a perdita d’occhio l’intera piana campana.

I nostri antenati neolitici l’abitavano, un po’ come oggi gli Indios la giungla amazzonica: diboscavano piccole superfici, dove costruivano villaggi di capanne e, oltre a raccogliere e cacciare, imparavano a coltivare. è proprio l’humus di quel bosco preistorico a dare al suolo la sua tinta scura, insieme alla fertilità che ancora oggi alimenta i filari rigogliosi di asprinio.

Quella mattina, se chiudevo gli occhi nel cantiere di via Diaz, immaginavo l’antico suolo, testimone silenzioso delle origini, elemento fondativo di una civiltà, stendersi in continuità sotto i palazzi la città le strade le automobili le persone affaccendate, per riemergere a respirare molti chilometri a nord, all’ombra di festoni di tralci che tremano nel vento.”

(da “La terra lasciata”, di Antonio di Gennaro, Clean edizioni)

Testimone silenzioso

I solchi venuti alla luce sull’antico suolo neolitico, nel cantiere della metropolitana di via Diaz, primordi agricoli di 4.000 anni fa.

All’inizio del quattordicesimo secolo la Napoli angioina consuma febbrilmente gli scampoli di pianura tra i rilievi e il mare: gli agricoltori devono trovare nuovo spazio in collina, dove tagliano i boschi e costruiscono  estesi sistemi di ciglionamenti (terrazze strette senza il muretto in pietra, tenute su da una scarpata inerbita), come quelli che miracolosamente si conservano sul versante dello Scudillo, a ridosso del centro storico, e che si possono ammirare entrando in città con la tangenziale, dopo la galleria di Capodimonte, guardando sulla destra.  Su queste fitte sistemazioni collinari gli agricoltori diffondono i sistemi tradizionali di agricoltura promiscua, gli orti arborati e vitati, una variante del giardino mediterraneo di Emilio Sereni, il paesaggio agrario che  ha le sue radici nella colonizzazione greca di duemila anni prima.

Sempre nella prima metà del ‘300, sul decumano è in costruzione la basilica gotica di S. Chiara, e c’è un legame strettissimo tra i monumenti di tufo, la città di pietra, ed i monumenti viventi di clorofilla, il centro storico verde della città.

Il merito principale del nuovo piano regolatore è la tutela a tempo indeterminato di questo straordinario ecosistema rurale incastonato nella città. Un reticolo di aree verdi, una green belt che sorprendentemente interessa più di un quarto del territorio urbano, e che oggi con legge regionale è diventata area protetta: il Parco delle colline di Napoli.

Il problema è che i monumenti viventi, come quello dello Scudillo, necessitano, ancor di più di quelli di pietra, di manutenzione, cura, investimenti, per preservare e sostenere il delicato miracolo quotidiano che è l’agricoltura urbana, il tessuto di aziende agroforestali ancora presenti in città: una fabbrica  silenziosa di biodiversità, prodotti tipici, manutenzione idrogeologica, depurazione, condizionamento climatico, memoria, bellezza, tempo libero.

Sul Parco delle colline è ora calata una cortina di oblio: la grande infrastruttura verde non rientra tra le priorità della nuova amministrazione, che preferisce seguire una irresistibile vocazione marinara, con i pochi fondi ed energie destinati alle regate ultratecnologiche in mondovisione, mentre le masserie ad una ad una si spengono.

vigne_cattedrali

Le colline del Fortore, uno dei paesaggi più belli e importanti, tra i meno conosciuti della Campania. Qui erano i querceti a perdita d’occhio e le praterie dei Sanniti. Iniziarono i Romani a tagliare i boschi, il diboscamento proseguì in epoca comunale, ma il cambiamento epocale avviene nel XVIII secolo, con l’avanzare della granicoltura. Giuseppe Maria Galanti, a fine ‘700, racconta questo processo come una grande crisi ambientale, con l’erosione rapida e il dissesto dei suoli, privati della protezione arborea. Al posto del manto boschivo si forma un nuovo ecosistema, che Giacomini nel suo volume sulla flora d’Italia per il Touring Club definisce “steppa mediterranea”: un mosaico a perdita d’occhio di cereali e praterie, pure caratterizzato da una inaspettata biodiversità, e frammentato in un patchwork di minuscole proprietà e appezzamenti, a volte appena sufficienti per seppellire un uomo, per usare le parole di Manlio Rossi Doria, che proprio per questi paesaggi conia l’ossimoro del “latifondo contadino”.

E’ uno dei paesaggi più belli della Campania e d’Italia: il mosaico rarefatto di campi muta colore con le stagioni: sono le terre della openess, dell’apertura, della vastità, dell’essenzialità, della sobrietà. Un pezzo appartato di mondo troppo delicato, inerme contro l’ horror vacui, la nostra incapacità di comprenderne il respiro, percependolo alla fine come spazio vuoto, da riempire e snaturare con una teoria di generatori eolici.

Stagioni in città

Commenti recenti

Avatar di BelindaBelinda su Bagnoli, appello alla res…
Avatar di Agriturismo Le ToreAgriturismo Le Tore su Come un diario
Avatar di Libertas ProjectLibertas Project su Terra
Avatar di Erminia RomanoErminia Romano su L’outlook della città
Avatar di antonioluigi capobiancoantonioluigi capobia… su L’outlook della città