Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 10 aprile 2020

Nell’inedita routine d’isolamento che stiamo vivendo è aumentata l’attenzione per il cibo, il tempo giornaliero e i pensieri dedicati agli approvvigionamenti, la preparazione e il consumo delle pietanze. Riaffiora la nostra natura terrestre: nel silenzio delle altre attività riscopriamo l’importanza del settore primario, l’agricoltura, l’arte e la fatica quotidiana di trarre dalla terra gli alimenti, la base necessaria, quotidiana della vita biologica. Pure in mezzo al ciclone della pandemia l’agricoltura d’Italia e della Campania non si è fermata, gli agricoltori hanno garantito quel servizio essenziale che è la sicurezza alimentare. Hanno continuato a rifornire gli scaffali dei supermercati, come i negozi di vicinato, un’altra preziosa riscoperta di questi giorni diversi.

Capita che proprio in tempo di distanziamento si finisca per riscoprire l’importanza delle relazioni, delle dipendenze e connessioni, di quel qualcuno che produce il cibo anche per noi. L’Italia ha voltato in fretta le spalle al suo passato. Ancora alla metà del ‘900 nel nostro Paese più di metà degli occupati lavorava in agricoltura: ora basta meno di un milione di agricoltori per produrre cibo per i restanti cinquantanove. Una comunità minoritaria, nemmeno più tanto influente sulla politica e l’opinione pubblica, anzi. Nella crisi della terra dei fuochi (sembra un secolo fa) l’abbiamo screditata e coperta di fango, salvo scoprire che non era vero niente, i prodotti agricoli della Campania continuano a essere assolutamente sani e sicuri.

Dovremmo cogliere questo momento per riscoprire il valore e le difficoltà del servizio che gli agricoltori stanno rendendo al Paese. Se il lavoro è tanto, i redditi sono esigui, e incerti. Come tremila anni fa, l’agricoltura resta sempre quell’attività umana che basta mezz’ora di grandine o una gelata a vanificare la fatica di un’intera annata. La nostra poi è tremendamente spezzettata. L’azienda agricola media in Francia è grande cinquanta ettari, in Campania quattro, ma nella piana campana siamo sotto i due ettari. In queste condizioni è difficile per l’agricoltore farsi valere all’interno della filiera distributiva e di trasformazione, il valore aggiunto se lo prendono gli altri.

Se l’approvvigionamento delle famiglie è stato garantito, le criticità non mancano. Sono di fatto azzerati gli ordinativi – ed è una fetta rilevante del fatturato alimentare – di alberghi ristoranti bar e caffè, il cosiddetto settore HORECA, che è completamente fermo. Per il latte bovino e bufalino, e anche per la mozzarella il momento è drammatico, come per il florovivaismo, la pesca, l’agriturismo, mentre è crollato, in questa Pasqua segregata, anche il consumo di agnello, per i pastori d’Appennino rischia di andar perso il lavoro di un anno. Nei tini delle aziende vitivinicole rimane buona parte dell’aglianico e falanghina della vendemmia precedente, manca così la capienza per la prossima. Inspiegabilmente il decreto governativo ha fermato anche la gestione dei boschi, cosa non buona per gli incendi e le frane, oltre che per l’economia delle aree montane, già fragile di suo.

Sull’intero settore agricolo poi, incombe l’indisponibilità di manodopera, la raccolta di frutta e ortaggi primaverili-estivi è seriamente a rischio. Con le norme d’emergenza è di fatto venuto meno l’apporto dei lavoratori immigrati dall’Europa dell’Est e dall’Africa, il ministro Bellanova ha lanciato nei giorni scorsi un appello, è indispensabile regolarizzare quanti già sono da noi: lasciando da parte le ipocrisie inutili, di quel lavoro l’agricoltura italiana ha assolutamente bisogno, certo in condizioni di legalità, sicurezza, capacità vera di integrazione, rispetto delle regole.

Ci aspetta un periodo difficile, ci voleva la pandemia per riscoprire l’importanza del settore primario, degli uomini e delle donne che lo fanno vivere, che coltivano col loro lavoro i paesaggi d’Italia, pianure colline e montagne. La società riordina le sue priorità, l’agricoltura è una di queste.