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Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 2 giugno 2020

Un legame lungo cinquemila anni rischiava di rompersi per sempre. I primi solchi, le tracce archeologiche dei primi esperimenti di agricoltura in Campania felix sono venute alla luce negli scavi per la stazione Toledo della nuova metropolitana, in un antico suolo sepolto della fine del Neolitico, nel ventre buio del centro storico di Napoli. Il suolo vulcanico più fertile che esiste sulla faccia della Terra. Questa fertilità straordinaria è alla base della civiltà campana, a partire dalle origini, ma il legame tra noi e i nostri suoli è stato messo a dura prova negli ultimi anni, con la crisi della cosiddetta Terra dei fuochi. Da generatori di vita e di alimenti, i suoli della pianura si sono all’improvviso trasformati in insidiosi portatori di rischio.

Questa storia per fortuna è alle nostre spalle. Anche grazie al nutrito gruppo di scienziati ed esperti che in pieno allarme pubblico, anziché strillare libri articoli e denunce, si è messo a studiare e analizzare sistematicamente, nel quadro del progetto di ricerca comunitario LIFE-ECOREMED, lo stato di salute degli ecosistemi agricoli della Piana campana: gli orti e i frutteti dispersi nella grande area metropolitana, dove 20.000 aziende agricole continuano a produrre ortaggi di qualità, richiesti dai consumatori di mezzo mondo.

Di tutte queste cose si parla in un seminario nazionale che si svolgerà in rete mercoledì 3 giugno a partire dalle 16.00, sulla piattaforma zoom dell’Ordine dei Dottori Agronomi della Provincia di Salerno (iscrizione libera sul link reperibile da questo link), che lo ha organizzato in collaborazione con il Dipartimento di Agraria della Federico II, la Società Italiana di Agronomia, la Società Italiana di Scienza del Suolo, l’Associazione Italiana Architettura del Paesaggio.

Per la prima volta il convegno web riunisce insieme molti dei ricercatori del progetto ECOREMED, che è stato premiato nel maggio 2019 a Bruxelles dalla Commissione europea per i risultati conseguiti e il contributo reso al Paese. Dalla loro voce sarà possibile ascoltare il racconto di un percorso aspro, durato sei anni,  in un clima pubblico arroventato dal fuoco incrociato di accuse, allarmi, polemiche.

Alla fine, i suoli e i prodotti agricoli sono stati scagionati, ma non è probabilmente questo il risultato più importante del lavoro. Il contributo che resterà è il protocollo messo a punto per determinare lo stato di contaminazione dei suoli agricoli, e se necessario curarli, con tecniche verdi che impiegano piante e microrganismi, assai meno costose delle bonifiche tradizionali.

E’ un tassello che mancava nel quadro legislativo nazionale: avevamo le regole per i suoli industriali, non per quelli agricoli. Ora il protocollo ECOREMED, che è assolutamente free, è diventato parte di un decreto governativo: il metodo che i ricercatori campani hanno messo a punto costituisce riferimento per il Paese intero. Per noi, l’occasione di recuperare un rapporto con i suoli e i paesaggi rurali alla base della nostra vita, anche quelli incastrati nella città, per conoscerli, rispettarli, curarli, come un pezzo importante di una lunga storia comune.

Pio Russo Krauss, Associazione “Marco Mascagna”

Pio Russo Krauss è un medico, si occupa di medicina pubblica e educazione alla salute. L’intervento che segue è apparso sul notiziario dell’Associazione “Marco Mascagna”. E’ uno dei migliori interventi che mi è capitato di leggere sui giornali o in rete sul tema delicato delle regolarizzazioni in agricoltura, Come per altre cose la pandemia ci sollecita ad affrontare problemi lasciati a marcire da tempo. La regolarizzazione è evidentemente il primo passo, c’è poi da dare a chi è in regola abitazione, servizi, assistenza sanitaria, fosse solo per i mesi che trascorrono da noi, riprendere le buone cose che erano state avviate, a partire dagli SPRAR.

La campagna ha i suoi tempi a cui l’uomo deve adeguarsi. Se le ciliege sono mature sugli alberi non si può attendere nemmeno una settimana perché si rischia di trovarle tutte marce. Lo stesso vale per la potatura delle viti o la piantumazione delle piantine di pomodoro. Se si posticipa appena un poco si rischia di vanificare tutto il lavoro fatto (zappare, concimare, seminare ecc.). Ovviamente quando ciliege, fragole, albicocche sono mature c’è bisogno di mani per raccoglierle che invece non servono quando gli alberi sono nel riposo invernale; lo stesso vale per la vite che ha bisogno di molte mani durante il periodo di potatura e di vendemmia e di pochissime durante il riposo invernale. Per questo motivo in agricoltura hanno un’enorme importanza i lavoratori “temporanei”.

In Italia 220.000 aziende agricole si sono servite di lavoratori con contratti a termine e 600.000 stranieri con regolare permesso hanno lavorato con contratti a termine [1, 2]. I lavoratori rumeni, polacchi, bulgari, essendo cittadini UE, possono entrare liberamente in Italia, lavorare e poi, se vogliono, ritornare nel loro Paese. Gli extracomunitari in grandissima maggioranza sono già presenti sul nostro territorio oppure entrano con un permesso temporaneo per lavoro, finito il quale devono ritornare nel loro Paese.

Ogni anno nel periodo fine primavera-estate entrano in Italia 370.000 stranieri regolari (in maggioranza di Paesi UE) per lavorare nel settore agricolo [3].

Oltre a questi stranieri “regolari”, in Italia si stima vi siano almeno altri 200.000 stranieri senza permesso di soggiorno che lavorano in agricoltura, la stragrande maggioranza in lavori temporanei [4].

Un lavoratore temporaneo non significa che lavora un mese e altri 11 mesi non fa niente, ma che un mese lavora a raccogliere pesche, il mese dopo pomodori, il successivo uva, poi noci e dopo ancora mele. Per fare questo si sposta da una regione a un’altra (mele in Trentino, pomodori in Campania, pesche in Emilia).

Con l’epidemia di covid è stato bloccato l’ingresso degli stranieri e, quindi, c’è una gravissima carenza di lavoratori stagionali. Inoltre le misure anti epidemia non permettono i trasferimenti da una regione a un’altra, l’ammassare i braccianti su un pulmann, l’alloggiarli stipati in uno stanzone ecc. Quindi anche una parte delle aziende che utilizzavano a nero stranieri senza permesso di soggiorno ora sono restie a farlo perché temono maggiori controlli e d’incorrere in ulteriori reati.

Una parte delle aziende agricole, per potere avere la manodopera indispensabile per raccogliere, potare, piantumare, sarchiare, chiede quindi che sia dato un regolare permesso di soggiorno a chi già è sul suolo italiano e ha lavorato nei campi e ha le competenze e le condizioni fisiche per farlo. Senza lavoratori stagionali decine di migliaia di aziende agricole fallirebbero e ci troveremmo con una grave carenza di frutta, verdura, legumi, olio, vino, con un danno economico ingente per la nostra economia. Inoltre la carenza di prodotti porterebbe a un forte aumento dei prezzi mettendo in difficoltà poveri, meno abbienti e ceto medio.

Alcuni dicono “Perché prendere gli stranieri? Facciamo lavorare gli italiani che hanno il reddito di cittadinanza o il personale del settore turistico (ristoranti, cinema, hotel ecc.) in cassa integrazione.” Questa è la classica uscita di chi non conosce la realtà e lancia proposte che sembrano intelligenti ma che sono inattuabili e demagogiche.

Le aziende agricole vogliono lavoratori con competenza nel campo, esperienza e una prestanza fisica adeguata a svolgere compiti faticosi. Se si leggono gli annunci presenti sulle piattaforme per incrociare offerta e domanda di lavoro si trovano richieste quali: cercasi potatori vigne con esperienza certificata, cercasi sarchiatori specializzati in barbabietola da zucchero, trattorista, addetto al diserbo barbabietole ecc [5]. Le aziende agricole non sono disposte ad assumere camerieri, cuochi, impiegati, commercianti, bigliettai, o persone disabili, con problemi psicologici, tossicodipendenti, sociopatici ecc. Vogliono persone che sanno quello che devono fare e lo facciano bene, velocemente e per 8 ore al giorno e per tutti i giorni necessari.

Certo anche tra i poveri che percepiscono il reddito di cittadinanza o tra chi è in cassa integrazione possono esserci persone adatte ai lavori agricoli richiesti, ma pensare di trovarne 370.000 è da idioti o da demagoghi.

Per trovare la manodopera disponibile e sottrarla all’ignobile pratica del caporalato la Coldiretti a livello nazionale e varie Regioni a livello locale hanno attivato piattaforme online nelle quali le aziende possono iscriversi e indicare quanti lavoratori cercano e per quali mansioni. Il Lazio, per esempio, ha organizzato una tale piattaforma per la provincia di Latina, inoltre dà anche un bonus alle aziende che si iscrivono e paga le spese del trasporto dei lavoratori nei campi [6]. Purtroppo molte aziende non si iscrivono perché, malgrado tutto, preferiscono avere stranieri irregolari che pagano meno della metà della paga prevista dai contratti nazionali, facendoli lavorare anche 12 ore al giorno. Questi imprenditori non solo sfruttano in maniera ignobile i lavoratori, ma fanno anche concorrenza sleale alle aziende rispettose della legge, evadono tasse e contributi (si stima che tale evasione ammonti tra 1,2-1,8 miliardi l’anno) e mettono a rischio la salute di tutti noi non rispettando le norme anti contagio.

Gli stranieri “irregolari” nella stragrande maggioranza dei casi sono entrati in Italia in maniera del tutto legale e sono diventati “irregolari” per via di leggi assurde e demagogiche (i soli decreti sicurezza di Salvini hanno creato 70.000 irregolari in più e si stima che ne determineranno altri 70.000 nel corso del 2020 [8]).

Dire no alla loro regolarizzazione significa non solo non avere nessun rispetto per i diritti umani di queste persone, perché chi è irregolare non ha diritto a un tetto (è vietato affittare agli irregolari), a un lavoro (è proibito assumere irregolari), a circolare liberamente, ecc., ma significa anche essere disposti a far fallire decine di migliaia di aziende agricole rispettose della legge per favorire altre che operano nell’illegalità, a danneggiare l’economia italiana, a favorire l’evasione fiscale, il caporalato e la criminalità organizzata e, ora, anche a far rinfocolare e diffondere l’epidemia di covid.

Significa anche danneggiare i lavoratori italiani perché i datori di lavoro, tra un italiano e uno straniero irregolare, spesso preferiscono il secondo perché, non avendo diritti, possono non far risultare che lavora alle proprie dipendenze, pagarlo meno, farlo lavorare di più e non pagare tasse e contributi.

Come per l’agricoltura discorsi abbastanza simili possono essere fatti per l’edilizia, il terziario e l’assistenza a persone anziane o invalide. Anche in questi settori la mancata regolarizzazione degli stranieri determina evasione fiscale, lavoro nero, interessi della malavita e, ora, anche il rischio di favorire l’epidemia,

Insomma, regolarizzare gli stranieri avvantaggia tutti tranne chi ci specula.

 

Note: 1) Fonte Coldiretti si veda www.ilpost.it/2020/04/21/agricoltura-braccianti-coronavirus; 2) fonte Ministero del Lavoro si veda https://agronotizie.imagelinenetwork.com/agricoltura-economia-politica/2020/04/14/manodopera-straniera-diamo-i-numeri/66515; 3) fonte Coldiretti si veda https://www.agrifoodtoday.it/attualita/braccianti-stranieri-lega-salvini.html; 4)  ISTAT 2019; 5) si veda per esempio la piattaforma della Coldiretti Job in country https://lavoro.coldiretti.it/Pagine/cerco-lavoro.aspx; 6) Fair labor www.regione.lazio.it/rl/stopalcaporalato; 7) la Cia-Agricoltori Italiani stima 1,2 miliardi, l’Osservatorio Placido Rizzotto 1,8 miliardi si vedano https://www.ilsole24ore.com/art/regolarizzazione-braccianti-e-colf-governo-lavoro-sindacati-associazioni-proposte-campo-ADRD0NO e Quarto rapporto agromafie e caporalato, Osservatorio Placido Rizzotto, luglio 2018; 8) www.ispionline.it/it/pubblicazione/i-nuovi-irregolari-italia-21812.

Antonio di Gennaro, 18 aprile 2020

E’ il mio contributo al libro sui trent’anni di Repubblica a Napoli. La pubblicazione è andata a ruba. Chi è rimasto senza può leggerlo ora su horatiopost.

E’ vero, l’agricoltura, o meglio le agricolture sono un pezzo importante del futuro della Campania, ma diffidate di chi dice che è il solo destino che c’è rimasto, che l’economia regionale debba puntare tutto su agricoltura e turismo. Sono sciocchezze, se va bene queste due voci, con i loro indotti, fanno un terzo del prodotto interno lordo, il resto sono manifattura, industria, servizi: è lì che si produce il lavoro e il reddito per buona parte della popolazione attiva. Pure, una regione europea moderna ha un disperato bisogno di buona agricoltura, per tanti motivi.

Uno di questi è la sicurezza. L’ottantacinque per cento del territorio della Campania non è fatto di città ma di campagna: campi coltivati, pascoli, boschi, aree naturali. E’ la straordinaria matrice rurale che tiene insieme i grandi paesaggi regionali, dal Matese al Cilento, lungo tutta la green belt d’Appennino, passando per le pianure, i vulcani, le isole. Dietro questo mosaico di agricolture, con tremila anni di storia, c’è una comunità reticolare di agricoltori che lavora ogni giorno per tenere in ordine i suoli,  le acque, la sintassi unica dei paesaggi.

Di tutta questa macchina ecologica l’area metropolitana regionale – la caotica città continua da Capua a Battipaglia, che vale il quindici per cento del territorio, ma ospita il settantacinque per cento della popolazione – è debitrice netta. E’ il territorio rurale con i suoi fantastici suoli che produce l’acqua da bere, pulisce l’aria, condiziona il clima, assorbe la CO2, mantiene la biodiversità e la sicurezza idrogeologica. Ora li chiamano “servizi ecosistemici”, sono quei processi invisibili che rendono possibile la nostra vita quotidiana, tutta roba che si fabbrica in campagna, e la parola chiave in questo caso è “multifunzionalità”: la capacità dello spazio rurale di produrre simultaneamente cibo e servizi ecosistemici, a vantaggio dell’intera società.

Il problema è che mentre il cibo si vende e si compra al mercato, un mercato per i servizi ecosistemici non c’è, o almeno non c’è ancora. Uno degli obiettivi della politica agricola comunitaria è proprio questo: ricompensare gli agricoltori di almeno una parte dell’opera ambientale che svolgono, altro che assistenzialismo.

In più, l’agricoltura, e quella campana in particolar modo, per motivi che vedremo, è stretta nella morsa ferrea di costi di produzione crescenti e prezzi bassi dei prodotti, che il mercato globale mantiene al di sotto di una soglia decente di remuneratività. Un’umiliazione insostenibile, ed allora chiudono le stalle in Appennino, è una frana economica, demografica e sociale. Le montagne della Campania hanno avuto la loro popolazione dimezzata nell’arco di un cinquantennio, i giovani vanno via, la rete dei trecento piccoli comuni di presidio si spegne.

Una delle conseguenze, in questi tempi difficili di cambiamento climatico, è che senza più gli agricoltori a curare il pascolo e l’animale, senza manutenzione, l’Appennino diventa una macchina pericolosa: la boscaglia si riprende il paesaggio, il suolo frana e l’acqua inonda il fondovalle assieme alle città, le infrastrutture, le fabbriche. La catena del rischio in questo modo si chiude, e il costo per l’intera collettività è drammatico.

In pianura i problemi sono diversi, anche se è qui che ci sono i suoli più fertili dell’universo conosciuto. E’ il motore vulcanico di Campania felix, una produttività che è il quadruplo della media nazionale: è grazie a questo capitale prodigioso di fertilità che la Campania, con metà della superficie agricola, si colloca nel gruppo di testa delle regioni agricole italiane.

Se in Appennino è il bosco che avanza a spese dei coltivi, in un desolato paesaggio medioevale di ritorno, in pianura è la città a mangiare i suoli e cancellare aree agricole. Nel 1960 c’erano ventimila ettari di città, ora sono centoquattordicimila, la città si è moltiplicata per sei, anche se la popolazione è aumentata solo del venti per cento. Ora Campania felix è fatta di pezzi di campagna inframmezzati alla città, in un mosaico rur-urbano disordinato, privo di coordinate.

Eppure, questa agricoltura metropolitana, fatta di trentamila aziende, è in grado ancora di produrre, sul dieci per cento circa della superficie agricola regionale, quasi un terzo del valore della produzione agricola della Campania. Si tratta di ortaggi, fragole e mozzarelle di qualità assoluta, che le filiere lunghe della grande distribuzione organizzata portano sulle mense di mezza Europa. Molteplici livelli di controlli hanno confermato come questi cibi, diversamente dalle grida manzoniane di pochi sconsiderati, siano assolutamente sani, più sicuri addirittura delle produzioni provenienti da altri territori italiani.

Una sola regione per tanti territori e tante agricolture diverse, anche se per progettare il futuro il problema alla fine è sempre lo stesso, la gracilità del tessuto aziendale, la dimensione media delle unità produttive, intorno ai quattro ettari, la metà della media nazionale (per inciso, in Francia l’azienda media è di cinquanta ettari). Un fenomeno che giunge proprio nei paesaggi rurali più fertili  – la piana flegrea, il Vesuvio, la Penisola sorrentina-amalfitana, l’Agro nocerino-sarnese – alla polverizzazione estrema, con dimensioni aziendali medie di uno-due ettari.

Lasciando decisamente da parte le cose che non sappiamo fare, come la ricomposizione fondiaria, la soluzione praticabile è antica e nuova insieme, ed è quella della cooperazione: mettere insieme le forze, ricucire in progetti solidali, finalmente competitivi, le persone, le produzioni, le terre. I buoni esempi non mancano, anche in Campania: i produttori di fragole di Parete, i viticoltori del Sannio, gli allevatori di marchigiana del Fortore, gli olivicoltori del Cilento hanno saputo costruire negli anni organizzazioni cooperative in grado di stare credibilmente sui mercati globali, pur conservando una maglia produttiva fatta di piccoli produttori.

E’ questa l’unica chance per la Campania, quella della costruzione di paesaggi cooperativi, pensati e gestiti come un’unica azienda. Tornando a considerare l’economia regionale nel suo insieme, questi paesaggi rurali di qualità, adeguatamente connessi e infrastrutturati, possono diventare il brand distintivo, il vantaggio competitivo non riproducibile altrove, del quale finiscono per tener conto anche le attività extragricole nelle loro scelte localizzative. In conclusione, la strada è una sola: mettere insieme progetti e destini, pensando di vivere questa terra come fossimo foresta, piuttosto che alberi isolati.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 17 aprile 2020

Il bollettino delle 18 della Protezione civile è una specie di rito quotidiano, ci aggrappiamo ai quei numeri cercando una tendenza, una direzione d’uscita, anche se gli esperti dicono che i dati sui contagi, decessi e mortalità vanno presi con cautela, la reale diffusione del virus ci sfugge ancora, ci vuole tempo per un effettivo tracciamento, i conti potremo farli alla fine. Stando agli esperti, tra tutti i numeri ce n’è uno davvero importante, ed è il grado di occupazione dei letti in terapia intensiva, che misura la nostra capacità di prestare le cure decisive, il margine di sicurezza sanitaria e sociale.

Nel frattempo è un bisogno umano quello di farcene una ragione, trovare una spiegazione, social e media rimandano le notizie più diverse: misteriose tracce di voli aerei sulla pianura padana (scie chimiche?), campi elettromagnetici del G5, studi sull’inquinamento dell’aria, aerosol zootecnici e pesticidi, clima, e la tendenza è sempre quella di scovare “la causa”, il fenomeno che da solo dia ragione di tutto. Sullo sfondo, il racconto di un Nord Italia che pagherebbe le colpe del suo maggior sviluppo e benessere (ma è un discorso che riguarda anche Napoli, con l’incidenza più alta della malattia nei quartieri borghesi).

Quello che invece stiamo imparando è la complessità di funzionamento degli ecosistemi umani, il peso che in questi fenomeni ha una sterminata rete di fattori: la geometria minuta dei contatti sociali, le relazioni e gli scambi con altri territori, quelli prossimi come quelli dall’altra parte del mondo; la risposta dei servizi sanitari e dei poteri pubblici, il fattore sorpresa, i comportamenti più o meno adeguati dei singoli, la diversa virulenza dei ceppi e poi, comunque, la sorte.

Insomma, i fattori fisici, clima e inquinamento contano di certo, ma non spiegano tutto. La diversa capacità nel fronteggiare il virus di due ecosistemi umani confinanti – Lombardia e Veneto –  è già un caso studio al quale lavorano gruppi di ricerca sparsi nel mondo, con virologi medici e biologi ma anche geografi e scienziati sociali.

Lungo questa strada capiremo anche le ragioni del muro che, grazie di Dio, l’espansione del virus sembra aver incontrato a sud di Firenze, con le regioni meridionali che appaiono al momento meno toccate dall’epidemia.

Il bisogno di comprendere riguarda in primis le istituzioni, con il ricorso sacrosanto ai saperi esperti, e la creazione di organi speciali, ultimo in ordine di tempo l’equipe coordinata dal manager Vittorio Colao che dovrà architettare la cosiddetta “fase 2”, la riapertura graduale del sistema produttivo del Paese.

Questo sistema emergenziale comprende nel suo insieme centinaia di specialisti, e rende bene l’eccezionalità del momento storico che stiamo vivendo. Certi del fatto che ognuno lavorerà al meglio per il bene comune, qualche domanda pratica pure si pone. La più scontata riguarda il soggetto che alla fine farà sintesi di tutte queste cose, dando loro la veste di decisioni cogenti.  E ancora, in che modo sarà assicurata l’interazione tra i diversi organi e gruppi di lavoro, per mettere insieme i pezzi della soluzione, quel trade-off difficile tra salute, sicurezza pubblica, economia indispensabile per ripartire.

Perché una sintesi è necessaria, la pandemia è un’occasione formidabile per pensare una strategia per l’Italia tutta intera. Secondo l’ultimo rapporto SVIMEZ dedicato alla pandemia le imprese del Mezzogiorno hanno una probabilità di morire a causa della crisi che è quattro volte più alta rispetto al resto del Paese. Se il Nord sta vivendo le ore più drammatiche, è al Sud che si addensano le nubi più nere per il dopo. Di un pensiero nuovo, all’incrocio tra discipline e territori, abbiamo disperatamente bisogno.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 10 aprile 2020

Nell’inedita routine d’isolamento che stiamo vivendo è aumentata l’attenzione per il cibo, il tempo giornaliero e i pensieri dedicati agli approvvigionamenti, la preparazione e il consumo delle pietanze. Riaffiora la nostra natura terrestre: nel silenzio delle altre attività riscopriamo l’importanza del settore primario, l’agricoltura, l’arte e la fatica quotidiana di trarre dalla terra gli alimenti, la base necessaria, quotidiana della vita biologica. Pure in mezzo al ciclone della pandemia l’agricoltura d’Italia e della Campania non si è fermata, gli agricoltori hanno garantito quel servizio essenziale che è la sicurezza alimentare. Hanno continuato a rifornire gli scaffali dei supermercati, come i negozi di vicinato, un’altra preziosa riscoperta di questi giorni diversi.

Capita che proprio in tempo di distanziamento si finisca per riscoprire l’importanza delle relazioni, delle dipendenze e connessioni, di quel qualcuno che produce il cibo anche per noi. L’Italia ha voltato in fretta le spalle al suo passato. Ancora alla metà del ‘900 nel nostro Paese più di metà degli occupati lavorava in agricoltura: ora basta meno di un milione di agricoltori per produrre cibo per i restanti cinquantanove. Una comunità minoritaria, nemmeno più tanto influente sulla politica e l’opinione pubblica, anzi. Nella crisi della terra dei fuochi (sembra un secolo fa) l’abbiamo screditata e coperta di fango, salvo scoprire che non era vero niente, i prodotti agricoli della Campania continuano a essere assolutamente sani e sicuri.

Dovremmo cogliere questo momento per riscoprire il valore e le difficoltà del servizio che gli agricoltori stanno rendendo al Paese. Se il lavoro è tanto, i redditi sono esigui, e incerti. Come tremila anni fa, l’agricoltura resta sempre quell’attività umana che basta mezz’ora di grandine o una gelata a vanificare la fatica di un’intera annata. La nostra poi è tremendamente spezzettata. L’azienda agricola media in Francia è grande cinquanta ettari, in Campania quattro, ma nella piana campana siamo sotto i due ettari. In queste condizioni è difficile per l’agricoltore farsi valere all’interno della filiera distributiva e di trasformazione, il valore aggiunto se lo prendono gli altri.

Se l’approvvigionamento delle famiglie è stato garantito, le criticità non mancano. Sono di fatto azzerati gli ordinativi – ed è una fetta rilevante del fatturato alimentare – di alberghi ristoranti bar e caffè, il cosiddetto settore HORECA, che è completamente fermo. Per il latte bovino e bufalino, e anche per la mozzarella il momento è drammatico, come per il florovivaismo, la pesca, l’agriturismo, mentre è crollato, in questa Pasqua segregata, anche il consumo di agnello, per i pastori d’Appennino rischia di andar perso il lavoro di un anno. Nei tini delle aziende vitivinicole rimane buona parte dell’aglianico e falanghina della vendemmia precedente, manca così la capienza per la prossima. Inspiegabilmente il decreto governativo ha fermato anche la gestione dei boschi, cosa non buona per gli incendi e le frane, oltre che per l’economia delle aree montane, già fragile di suo.

Sull’intero settore agricolo poi, incombe l’indisponibilità di manodopera, la raccolta di frutta e ortaggi primaverili-estivi è seriamente a rischio. Con le norme d’emergenza è di fatto venuto meno l’apporto dei lavoratori immigrati dall’Europa dell’Est e dall’Africa, il ministro Bellanova ha lanciato nei giorni scorsi un appello, è indispensabile regolarizzare quanti già sono da noi: lasciando da parte le ipocrisie inutili, di quel lavoro l’agricoltura italiana ha assolutamente bisogno, certo in condizioni di legalità, sicurezza, capacità vera di integrazione, rispetto delle regole.

Ci aspetta un periodo difficile, ci voleva la pandemia per riscoprire l’importanza del settore primario, degli uomini e delle donne che lo fanno vivere, che coltivano col loro lavoro i paesaggi d’Italia, pianure colline e montagne. La società riordina le sue priorità, l’agricoltura è una di queste.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 1 aprile 2020

Ci sono un paio di frasi che in questo momento m’impensieriscono: il tormentone del “niente sarà più come prima”, e poi l’altra, bella e nobile di Mazzini, “L’Italia sarà quello che il Mezzogiorno sarà”. Per i cittadini del sud l’aria si è fatta pesante, è come se la Storia avesse fatto irruzione, sbattendo sul tavolo, tutti insieme, i conti aperti del passato. Difronte alla tempesta siamo quelli messi peggio. L’economia del nord è una macchina quasi ferma, un po’ ammaccata, che però sta lì, la manutenzione necessaria e in qualche modo ripartirà. Quaggiù è diverso, passata la bufera non sappiamo cosa resterà, se ci sarà una macchina con la quale riprendere il viaggio.

Se ogni pensiero sul futuro in questo momento risulta difficile, è perché la sopravvivenza del Sud (non in senso metaforico, parliamo proprio della vita delle persone), dipende dalla concatenazione di due problemi irrisolti: il posto che il Sud occupa in Italia, il posto che l’Italia occupa in Europa. Riguardo al secondo termine della questione, come ha scritto Romano Prodi sul Mattino “si tratta dell’ormai consueto scontro fra Nord e Sud, fra i cosiddetti Paesi virtuosi e noi meridionali, che siamo evidentemente i viziosi.”

E’ uno stallo che, secondo il Professore, è in grado di far definitivamente crollare ciò che resta della costruzione europea. Per affrontare la crisi gli Stati dovranno immettere nell’economia almeno il 10% del PIL. Mario Draghi nell’intervento sul Financial Times è stato chiaro: come per tutte le grandi sciagure epocali, a partire dalle guerre, per le quali i cittadini non hanno colpe o responsabilità, i costi della pandemia devono essere ripianati dai bilanci pubblici. Ma questo l’Italia non potrà mai farlo, se non sarà l’Europa a garantire per i nuovi debiti che dovremo accollarci.

Sul fronte interno invece, il Mezzogiorno siamo noi, e la contrapposizione di cui sopra, tra virtuosi e viziosi, si ripropone, ad altra scala. Eppure, se il coronavirus ci ha insegnato qualcosa è l’assoluta irrilevanza, difronte alle sciagure, dei confini artificiali: la malattia non si eradica in una sola regione, o in un solo stato membro. I meccanismi di sicurezza e protezione, sanitari ed economici, vanno ripensati con coraggio e cervello alla scala dell’intera comunità, quella nazionale come quella comunitaria.

“Per affrontare questa crisi” ammonisce l’ex presidente della BCE “occorre un cambio di mentalità, come accade in tempo di guerra.” C’è bisogno di serrare le file, di solidarietà. Assieme al coraggio delle classi dirigenti, che in Italia come in Europa, da almeno un quarto di secolo, danno priorità agli umori risentiti dei rispettivi elettorati, considerando come cosa sconveniente ogni presunta concessione ai meridionali di ogni ordine e grado. In un recente intervento televisivo Prodi l’ha chiamata la “politica barometrica”, la schermaglia degli egoismi incrociati, che ha preso il posto delle politiche, dei progetti di buona lena e lunga durata. E’ il cambio di mentalità evocato da Draghi la sola speranza per il Mezzogiorno, la responsabilità di fare in fretta “whatever it takes”, tutto ma proprio tutto, per evitare il peggio.

Un un altro piccolo pezzo del diario, scritto la scorsa settimana.

Antonio di Gennaro, 27 marzo 2020

L’emergenza è cattiva coi più deboli, rivalutiamo in questo momento il ruolo cruciale dell’assistenza, le chiacchiere sull’assistenzialismo le faremo dopo, se ci sarà ancora tempo e voglia. La frase ricorrente è che niente sarà più come prima, il problema è arrivarci, a Napoli e nelle città del Mezzogiorno c’è una fascia di famiglie che con la serrata dei servizi e del commercio è rimasta da un giorno all’altro senza alcun reddito, ed è un problema che è pure difficile misurare perché in questi settori il peso dell’economia informale, a nero, è grande.
Molti dei cuochi, camerieri, baristi, commessi, artigiani, muratori, manovali che hanno perso il lavoro non esistono, non risultano sui registri dell’economia ufficiale, e ha ragione il ministro Provenzano quando dice che è urgente immaginare qualcosa di nuovo per aiutare anche loro, i lavoratori dell’economia informale. Lasciando da parte l’ipocrisia, che ci spinge a tollerare il sommerso quando le cose vanno bene, anzi guai a toccarlo, perché è l’ammortizzatore che tiene in piedi l’economia meridionale, in assenza di politiche vere di riequilibrio economico e sociale.
La verità è che, a un mese dall’inizio della crisi, cresce di giorno in giorno il numero di persone e famiglie prive dei mezzi per far fronte ai bisogni elementari, accanto all’emergenza sanitaria è necessario affrontare quella sociale, e un’esperienza cui guardare è quella di Pomigliano d’Arco. Al profilarsi della tempesta il sindaco Raffaele Russo, che di mestiere è medico, ha convocato tutti i suoi dirigenti, chiedendo loro di sospendere l’attività ordinaria, e di mettere l’intera macchina comunale al lavoro sull’emergenza.
I servizi sociali, la polizia municipale, la protezione civile, le associazioni del terzo settore hanno dato vita a una struttura unica di coordinamento. A tempo record è stata creata un’anagrafe dei disabili, delle persone sole, disagiate. C’è un numero verde, e un centralino che ogni giorno contatta tutti, per raccogliere le esigenze, risolvere problemi, anche solo portare una parola, un conforto. I ragazzi che controllavano le strisce blu consegnano a casa la spesa agli anziani. Alle famiglie in difficoltà la spesa arriva gratis, i commercianti di Pomigliano hanno fatto a gara, mettendo a disposizione generi di prima necessità, mentre la Caritas organizza la “spesa sospesa” nei supermercati.
C’entra forse in questa capacità di creare rapidamente reti di solidarietà l’antica matrice contadina, e la robusta mentalità civica, che è un portato della grande industria. C’è anche una qualità amministrativa, la preveggenza di mettere nel bilancio della città risorse in proporzione rilevanti, un milione di euro, per i servizi sociali. Assieme alla capacità di rimanere uniti nei momenti difficili, il programma d’emergenza ha il supporto di tutte le forze politiche in consiglio comunale. “La cosa che più mi preoccupa” dice il sindaco Russo “è l’isolamento psicologico, la solitudine, la perdita di speranza dei più deboli.” Si, in qualche modo ce la faremo, ma il futuro per molti è diventato un rebus indecifrabile, tenere insieme le comunità è l’impresa più complicata.

 

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 23 marzo 2020

Primavera non bussa, lei entra sicura, canta la Spoon River di De André, e schiudono le minuscole mani verdi dei germogli del tiglio sotto casa, ma è questa forse l’ora più buia, il pensiero che le cose che stiamo facendo possano non bastare ancora.

Chiusi in casa siamo in sei, una piccola comunità. I ragazzi seguono on line i corsi dell’università, ostentano calma, ma è difficile, a pranzo e a cena tutt’insieme, tenere la conversazione leggera, positiva, che non sia solo il rimestare discorsi spezzati intorno al flusso ininterrotto di immagini di guerra.

Mi sforzo di continuare il mio lavoro inessenziale, una riunione skype dopo l’altra, mando relazioni in giro, lunghe telefonate, mentre fuori la storia la stanno facendo medici e infermieri, i lavoratori dei servizi e delle produzioni strategiche, quelli che tengono comunque a posto la città, e lo Stato in piedi.

Viviamo tronfi con l’idea di cambiare almeno un po’ il mondo, ma è il mondo che cambia noi e ristabilisce in un attimo le priorità. Ci voleva una tragedia come questa per sospendere il patto di stabilità, per capire che è la vita, quella biologica e fragile, breve e preziosa, che va protetta, e non i flussi belli e morti di cartamoneta. L’ha scritto Eschilo duemilacinquecento anni fa, “… non è nulla una torre o una nave, se non abbia gente dentro, che sia deserta d’uomini”.

Ora sappiamo che l’obiettivo è proteggere le persone, in questo mondo tremendamente interconnesso, con le informazioni e i virus che si spostano in un batter d’occhio. Quei criteri stupidi d’efficienza, che ci hanno costretto a tagliare la sanità proprio dove ce n’era più bisogno, è evidente che dopo non comanderanno più, e non ci sarà nessuna mano invisibile a mettere a posto le cose, dovremo pensarci noi.

Lo dice bene l’editoriale di sabato del New York Times che  “… la soluzione necessaria è un grande accordo: il governo fornisce i soldi che le aziende non sono in grado di guadagnare e le aziende usano i soldi per mantenere i lavoratori sul libro paga… Inviare assegni a ogni cittadino. Prestare denaro a tutte le imprese. Rafforzare la rete di sicurezza sociale. Il rischio di fare troppo è notevolmente superato in questo momento dalle conseguenze del non riuscire a fare abbastanza.” Il punto di arrivo alla fine è Keynes. La Germania si sta muovendo così, senza indugio, un decimo del PIL viene messo a disposizione per uscire dalla crisi. “La risposta corretta in questo momento è questa “ chiude il NYT, “Tutte queste cose insieme”.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 16 marzo 2020

Addolora profondamente la deriva dell’Isola verde, l’Inghilterra e il suo popolo restano una parte importante di noi, anche quando non li capiamo, la democrazia moderna è nata lì, con qualche secolo d’anticipo sugli altri, la resistenza al nazifascismo, e comunque senza Shakespeare Dickens e Stevenson la vita non sarebbe la stessa. Con quella terra poi Napoli ha sempre avuto un rapporto particolare. Per questo fanno male le parole di Boris Johnson che suonano come l’annuncio sinistro di una democrazia in difficoltà, che rinuncia a difendere la vita della sua gente.

Lasciamo perdere la forza di carattere e Churchill, quel grande non era un ostinato, ma un leader che anche con le spalle al muro riusciva a inventare soluzioni, come evocare dal nulla una flotta privata per andare a salvare il suo esercito a Dunkirk. Il premier dai capelli gialli non ha nulla di tutto questo, la sua idea di giungere all’immunità di gregge attraverso il sacrificio di mezzo milione di persone non è una genialità, ma il ritorno al medioevo, le democrazie moderne usano vaccini, precauzioni, il potenziamento del servizio sanitario.

Fosse solo follia sarebbe meglio, e invece s’intravede il cinismo, il timore dell’attuale gruppo dirigente che l’isola non possa sopportare, oltre la recessione da Brexit (che si sta rivelando per quello che è, un drammatico azzardo), quella imprevista da coronavirus, ed allora avanti così, “business as usual”, sperando in questo modo di salvarsi. Per la resipiscenza non c’è tanto tempo, speriamo entri in azione a questo punto la massima di Lincoln (“Potete ingannare tutti per qualche tempo e qualcuno per sempre, ma non potete ingannare tutti per sempre”).

Per trovare una democrazia in funzione dobbiamo guardare all’Italia, il paese in prima fila in questa sfida globale, con un governo che pur tra errori e incertezze ha imbroccato la strada giusta, e una cittadinanza che sta vivendo con compostezza le limitazioni d’azione e libertà, regole severe di convivenza, sacrifici economici da tempo di guerra, nello sforzo di fare tutto il possibile per mitigare il rischio, il dolore, la perdita di vite umane.

E’ impossibile dire se ce la faremo, ma il mondo guarda a noi, alle cose che stiamo facendo. Per tutti questi motivi, la comunicazione pubblica dovrebbe ora dedicarsi agli aspetti cruciali, decisivi. E’ importante sapere in che modo i nostri amministratori stanno operando per rafforzare, in Campania e nel Mezzogiorno, la capacità del sistema sanitario di affrontare il picco di infezioni, se e quando verrà. Quanti posti letto in terapia intensiva, quanti medici, quanti laboratori, quali soluzioni organizzative. Sono queste le conoscenze da condividere, per affrontare al meglio queste giornate difficili, la guerra d’Italia si decide qui.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 2 marzo 2020

E’ vero, non tutto ha funzionato come doveva, eppure in questi giorni è netta la sensazione che se il Paese regge è merito dello sforzo titanico che gli uomini della sanità pubblica, con i mezzi che hanno a disposizione, stanno compiendo.

Intervistato per questo giornale da Giuseppe Del Bello, il direttore del laboratorio di Virologia dell’Azienda dei Colli, Luigi Atripaldi, ha descritto il lavoro al limite che la sua struttura – 10 unità in tutto – svolge per realizzare le centinaia di tamponi che giungono. A chi gli parla di inefficienze Atripaldi risponde a muso duro che sono critiche ingiuste “Noi in ospedale facciamo la nostra parte con notevoli sforzi, mettendoci a disposizione dei pazienti, ma è necessario che tutti i cittadini in ansia per il coronavirus siano informati a dovere”. Prima di reclamare test non utili, o di prendere d’assalto i pronto soccorso, come è successo al Cotugno.

E’ lo stesso racconto da nord a sud, le notti in ospedale di Maria Rita Gismondo, la direttrice del laboratorio di Microbiologia del Sacco di Milano, criticata sui social dal collega Burioni solo per aver suggerito un po’ più di misura nel parlare della malattia; o il lavoro non stop dell’equipe di quaranta medici del San Matteo di Pavia, quelli che curano il “paziente uno”, l’unico organismo giovane per ora realmente in pericolo di vita, la cui guarigione avrebbe una portata simbolica che è difficile sminuire.

A chi gli chiede chi glielo ha fatto fare, Walter Ricciardi, già nostro rappresentante presso l’Organizzazione Mondiale della sanità, e da pochi giorni super consulente del ministro alla salute Speranza, risponde che ha accettato “… perché ritengo che ora ci si debba mettere al servizio del Paese, che è in un momento difficilissimo. Io sono un medico di sanità pubblica e questo è il mio mestiere.”

Appunto, la sanità pubblica, sarebbe a dire una delle conquiste della contemporaneità, l’idea di garantire la salute universale, e che ciò sia compito dello Stato. Su questo l’opinione di Ricciardi è chiara: “L’Italia ha una debolezza: il sistema è frammentato, è in mano alle Regioni e lo Stato ha solo ruoli limitati. In tempi normali questo è anche accettabile ma in tempi di epidemia come questo può avere effetti letali.”

Senza voler tirare in ballo la ramazza di Manzoni, non è proprio il caso, è vero che la difficile esperienza collettiva che stiamo vivendo è un momento di verità, nei confronti ad esempio del liberismo ideologico dello Stato visto come principale nemico, dell’individualismo gretto che salva, del disprezzo delle competenze. E una differenza c’è anche tra noi e l’immenso romanzo di Don Lisander, dove lo Stato come progetto collettivo proprio non c’è, e la storia è tutta una tragedia di prevaricazioni ottuse e santità individuali.

Gli uomini della sanità pubblica in questi giorni difficili invece parlano come membri di un sistema, giocatori della stessa squadra. Secondo Fausto Baldanti del san Matteo di Pavia “qui è in corso il più gigantesco sforzo messo in campo dall’Occidente contro questa infezione nuova. Ancora non la conosciamo e lei non conosce noi. Da qui nascono potenzialità della diffusione e potenza della paura.”

C’è in queste parole tutta l’accettazione adulta della complessità, del rischio, della sfida dura della vita, senza colpevoli da additare, semplificazioni da sbandierare. Come vaccinazione, almeno contro il populismo becero, dovrebbe bastare.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 3 febbraio 2020

L’avevamo detto, per capire le sardine devi stare attento alle cose che scrivono, più che alle dichiarazioni volanti. Ora c’è la lettera che i quattro ragazzi di Bologna hanno scritto al presidente del consiglio Conte, l’ha pubblicata per intero “Repubblica” sabato scorso, è un documento importante, che chiarisce bene quello che i giovani hanno in mente.

C’è innanzitutto l’individuazione del punto fermo, il baricentro di tutto il movimento, le cui “diverse anime… si muovono tutte, con sicurezza, nel solco dei principi e dei valori sanciti dalla nostra Costituzione”. In una società in frantumi, dove tutti i fili si sono spezzati, il solo riferimento certo resta quello, il programma di democrazia scritto nei primi articoli della Carta fondamentale.

Se questa è la premessa, non c’è poi niente di incartapecorito nel ragionamento dei ragazzi, ma piuttosto l’indicazione asciutta al presidente del consiglio dei tre fili da riannodare per curare la democrazia in affanno, lavorando sulle cause piuttosto che sugli effetti. I tre fili sono il Mezzogiorno, la sicurezza delle persone (intesa non come paura dell’uomo nero ma come offerta concreta di lavoro, sanità istruzione); il rilancio di una democrazia delle regole, all’interno della quale ciascuno, cittadini e amministratori, faccia con generosità la sua parte.

Non sono cose scontate. I tre fili annodati insieme sono l’unico programma serio di una forza progressista che si proponga di ricostruire il Paese, il fatto è che ce n’eravamo dimenticati, storditi e disorientati anche noi dalle chiacchiere a perdere dei populisti. Al punto in cui siamo, rimettere insieme le idee, costruire a partire dalle proposte delle sardine una piattaforma d’azione, non sarà comunque facile.

Nella lettera delle sardine c’è un’idea di Paese fortemente unitaria, nessuna concessione a percorsi separati di salvezza, all’autonomia differenziata alla quale i gruppi dirigenti del Partito democratico delle regioni del nord sembrano credere almeno quanto i loro colleghi del centrodestra. Nel documento dei ragazzi di Bologna si parla un’altra lingua. Se il sostegno delle sardine è stato decisivo per la vittoria in Emilia Romagna di Stefano Bonaccini, su queste cose la distanza è abissale, e molto c’è da fare per costruire una sintesi.

Ad ogni modo un lavoro impegnativo attende anche le sardine, a partire dal prossimo incontro a Scampia, per superare una divaricazione che appare netta tra i contenuti della lettera a Conte, e il sentimento che muove l’arcipelago delle variegate realtà locali che compongono il movimento. Una frase soprattutto nella lettera suona assolutamente decisiva: “Quando una certa politica si ciba della contrapposizione tra salute e industria, si mina ogni possibilità di sviluppo e di lavoro e si logora la reputazione dello Stato.”

Qui da noi il discorso non riguarda solo l’industria, è un nervo scoperto che tocca cose cruciali, come l’impiantistica sui rifiuti. Anche su questi aspetti la lettera delle sardine parla una lingua diversa, assai distante dal rivendicazionismo anti-tecnologico dei comitati locali che pure alle sardine guardano come alveo di riferimento. Insomma, non c’è niente di scontato nella lettera a Giuseppe Conte, è un percorso impegnativo, c’è lavoro per tutti, per le sardine come per i loro probabili compagni di strada.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 18 dicembre 2019

Questi ragazzi devi giudicarli da quello che fanno, più che da quello che dicono nelle ospitate televisive: riempire piazza San Giovanni dopo piazza Duomo e piazza Maggiore e piazza Dante a Napoli, partendo da un’improvvisata tra amici una trentina di giorni fa, non è impresa da poco. E soprattutto da quello che scrivono: se metti uno dietro l’altro i post della pagina facebook, vengono fuori tre-quattro cartelle niente male, dietro il linguaggio rapido e scanzonato, in filigrana c’è Piero Calamandrei, la cultura politica è quella giusta, il costituzionalismo democratico che ha restituito un senso all’Italia dopo l’abisso nazifascista.
Anche l’idea di riunirsi nel condominio occupato di via Santa Croce, dove è venuto l’elemosiniere del Papa a togliere i sigilli e riattaccare la luce, è un messaggio niente male. Resta da capire questo attivismo, sino ad ora baciato dalla fortuna, dove vuole andare a parare, e qui i pareri e gli ammonimenti fioccano. C’è il geografo Pancho Pardi, già leader dei girotondi, che mette in guardia dal movimentismo perenne che non si trasforma in proposta politica, un partito o qualcosa del genere: in mancanza di approdi, dice il professore, l’energia tende fisiologicamente a scemare e tutto, com’è successo ai girotondi prima o poi s’ammoscia. Luca Ricolfi va giù più duro, accusa i ragazzi di timidezza, se non vigliaccheria, per la scelta di non scendere (o salire, fate voi) nell’agone politico.
In realtà, quello che hanno in mente i ragazzi è qualcosa di più spericolato e ambizioso. Loro non pensano alla contro-democrazia di Pierre Rosanvallon, le forme di opposizione e controllo ai poteri democratici nei quali la gente non ripone più fiducia, anzi diffida: la strada che in Italia ha portato dritto al “Vaffa day”. Al contrario, le sardine vogliono preservarla questa fiducia nella politica e nei politici, l’unica cosa da fare secondo loro è prosciugare le paludi nelle quali il populismo sovranista prospera, bonificare lo spazio del dibattito pubblico dalle tossine e le paure gonfiate ad arte, attraverso l’uso cinico dei social network.
Insomma, quello che interessa loro non è probabilmente costituire o meno un nuovo partito, ma dotare permanentemente la democrazia ammaccata di una sorta di “sistema immunitario”, in grado di neutralizzare ed espellere violenza verbale, fake news e tossine . “Vaste programme” avrebbe detto il generale De Gaulle, e comunque è un’idea arrischiata, ai confini dell’utopia.
Le armi e gli strumenti dovrebbero forse essere quelli ai quali Tullio De Mauro ha dedicato la vita, la cultura degli italiani: il nostro Paese è in coda alla classifica nei rapporti Ocse sulla competenza linguistica degli adulti, la capacità di cogliere il senso di un testo di una decina di righe, e questo qualcosa pure conta, nelle scelte individuali, e nelle consultazioni pubbliche.
Ma i ragazzi vedono giusto, nel loro incontro di coordinamento nazionale hanno individuato il brodo di cultura del populismo nostrano, e quindi il principale spazio d’azione dei prossimi mesi, nei territori da troppo tempo orfani di politiche: le aree periferiche in dismissione, urbane e d’Appennino, nelle quali il lavoro e il welfare stanno morendo, i percorsi di vita non offrono nulla di buono, e la costruzione di un nemico, quale che sia, alla fine è l’unica illusione spendibile di riscatto. Territori di scarto che la sinistra rintanata nelle Ztl e nei quartieri-bene ha da troppo tempo depennato da agende e programmi di governo. Come andrà a finire questa storia nessuno lo sa, ma le idee che le sardine hanno rimesso in circolo tornano decisamente buone, soprattutto per il Mezzogiorno.

Da Huffpost di oggi, l’articolo di Gabriella Cerami sulla riunione nazionale delle sardine, a Roma il 15 dicembre.

Opzione a sinistra: “Sardine nelle periferie”

Il documento finale dei 150 arrivati a Roma da tutta Italia. Nessun partito, ma impegno sì. A cominciare dall’Emilia

Il loro manifesto politico si basa sul recupero della dimensione sociale, che è quella su cui il Partito democratico ha mostrato in questi ultimi anni molte carenze. Il “motto torniamo nelle periferie, torniamo nei territori”, che la sinistra in questi anni ha ripetuto sempre, non è mai diventato realtà. E in questo spazio disertato hanno deciso di nuotare le Sardine. Dopo il trionfo di piazza San Giovanni, quest’oggi a Roma si sono riuniti i rappresentanti di tutta Italia per stilare un documento. Non c’è una scelta partitica, ma senza dubbio vi è una scelta di campo. Lì dove adesso il sovranismo, da queste parti definito “la bestia”, sta vincendo la sua sfida, questo nuovo movimento decide di andarlo a sfidare a sua volta, riportando la sinistra, in cui le Sardine credono fermamente, nei suoi luoghi natii, ovvero le periferie.

Ma non c’è solo questo. La scelta di riunirsi nello SpinTeam, il palazzo occupato di via Santa Croce in Gerusalemme dove il 12 maggio scorso di notte entrò l’elemosiniere del Papa per togliere i sigilli ai contatori e riattivare la luce, racconta un elemento importante di questo movimento. Uno stato d’animo che lo ricollega a una sinistra che in questi anni è stata riconducibile al magistero di papa Bergoglio, il quale ai suoi interlocutori non fa che ripetere che le cose succedono nelle periferie perché la storia è lì che si muove.

Da questi presupposti partono le sardine e la scelta dello SpinTeam non è affatto casuale. Un mega striscione campeggia all’ingresso: “W le Sardine, abbasso gli sgombri”. Con una E disegnata tra le b e la r, perché si può leggere anche “sgomberi”. Il legame tra queste due realtà è forte. I centocinquanta rappresentati delle Sardine arrivano alla spicciolata dalle nove del mattino. Nel frattempo in questo palazzo occupato, dove alloggiano centocinquanta famiglie, è un via vai di persone con le buste della spesa, con il cibo che viene portato ai bisognosi per il pranzo della domenica. Al piano inferiore, in una grande sala, sono riuniti i responsabili locali delle Sardine che per la prima volta si guardano in faccia per decidere cosa fare del loro futuro e come essere più utili.

Mattia Santori, il leader di questo movimento, l’ideatore del primo falshmob insieme ad altri tre amici di Bologna, ascolta le istanze che arrivano dai vari territori. Le Sardine si riuniscono anche in piccoli gruppi regionali per parlare delle prossime piazze, dei luoghi dove è necessario andare “per portare umanità”, dicono, “per portare una narrazione che sia diversa da quella dell’odio”. Ma ogni territorio è diverso, ognuno ha le sue esigenze, ogni città vede una realtà politica e amministrativa differente. Ed è anche per questo che davanti a situazioni così eterogenee, Santori frena sull’idea di un partito, nonostante qualche rappresentante durante la giornata abbia tirato fuori l’argomento.

A mezzogiorno arriva il pranzo. È il momento del brindisi con un bicchiere di vino e della foto di gruppo con uno striscione gigantesco con disegnate le Sardine in mare aperto. Santori tira le somme con il suo gruppo ristretto di collaboratori. Il primo obiettivo è non fermarsi e tornare nelle piazze. Ovunque, soprattutto in quelle dimenticato. L’altro traguardo – come dice durante la trasmissione ‘In mezz’ora in più’ su Rai3 – è superare il 25% dei consensi fra gli italiani: “Puntiamo a trovare un dialogo con la politica, non siamo ancora pronti a trovare i punti del dialogo né interlocutore”.

C’è molta cautela ma nessuna strada è esclusa. Prima che si apra la terza fase, nel mese prossimo particolare attenzione sarà dedicata alla Calabria e all’Emilia Romagna. Non ci sarà una lista civica e nessuno è autorizzato a utilizzare il nome Sardine. Sarà però un banco di prova, soprattutto nella regione dove apertamente questo movimento ha detto di sostenere il candidato di centrosinistra Stefano Bonaccini. È qui, nelle piccole città, che le Sardine andranno a convincere le persone soprattutto chi non vuole andare a votare.

Una sardina pugliese, Grazia Desario, parla chiaro: “Non faremo un partito, non ci saranno candidature e non ci saranno liste civiche in Emilia Romagna. Appoggeremo le liste di sinistra”. Intanto le Sardine di Pisa vanno via perché la piazza le aspetta. Piena anche qui. “Negli ultimi 30 giorni – si legge nel documento – le sardine hanno scatenato una straordinaria energia, occorrerà molta pazienza per dare anche un’identità politica a questo fenomeno”. Insomma, il partito può attendere, ma il campo d’azione a sinistra è ben tracciato.

 

Roma, 15 dicembre 2019

Il nostro prossimo passo è tornare sui territori. Con iniziative che saranno realizzate in tutte le regioni d’Italia, liberando la creatività, valorizzando l’arte, favorendo l’interazione fisica fra i corpi.

Decine di iniziative a partire dal mese di gennaio, dopo che si saranno concluse le attività nelle piazze già in calendario. Sarà dedicata una particolare attenzione alle prossime elezioni in Calabria e, soprattutto, in Emilia Romagna, dove è nato il fenomeno sociale delle Sardine. Nel corso della mattinata di oggi, i referenti delle sardine italiane si sono ritrovati e confrontati per definire i prossimi passi. Due ore di discussione divisi in gruppi a seconda delle regioni di provenienza, con l’obiettivo di definire le prossime iniziative che saranno sviluppate sui territori.

Fra queste:

“Sardina amplifica sardina”, che sarà organizzato nel Lazio, per raccogliere i bisogni dei territori attraverso sardine che saranno raccolte in un’unica rete simbolica;

“Tutti sullo stresso treno”, un treno di sardine che attraverserà la Liguria fino alla Francia;

“Staffetta delle sardine”, che sarà realizzata in Sicilia per raggiungere anche le zone con situazioni critiche e complesse.

Oggi per queste nuove iniziative si sono gettate le basi, che saranno poi sviluppate nelle prossime settimane e presentate nel dettaglio.

Un denominatore comune emerso da tutte le proposte è l’attenzione alle zone periferiche, alle piccole città e alle località di provincia. Uno degli obiettivi delle Sardine fino a fine gennaio sarà raggiungere il più possibile territori che, spesso perché in difficoltà, si sono rivelati più vulnerabili ai toni populisti. Lo stesso accadrà in Emilia Romagna, con iniziative ad hoc che saranno organizzate sia nella “bassa”, sia nelle zone collinari e montane.

Nessuna discussione, invece, su temi politici specifici, che per definizione sono complessi e non possono essere affrontati in una mattinata in modo adeguato. Negli ultimi 30 giorni le sardine hanno scatenato una straordinaria energia, occorrerà molta pazienza per dare anche un’identità politica a questo fenomeno. E’ la stessa pazienza che chiediamo al mondo dei media. Capiamo l’urgenza di avere risposte ma ribadiamo che queste, invece, possono maturare solo con il tempo, e con la costruzione di un percorso condiviso che continuerà a rafforzarsi nelle prossime settimane.

Ciò che è certo è che le sardine si sono riunite per combattere tutte le forme di comunicazione politica aggressive, che strizzano l’occhio alla violenza, verbale o fisica, online o offline.

Ribadiamo i punti emersi dalla piazza di Roma e condivisi durante la giornata di oggi:

Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a fare politica invece che fare campagna elettorale permanente.
Pretendiamo che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente su canali istituzionali.
Pretendiamo trasparenza nell’uso che la politica fa dei social network.
Pretendiamo che il mondo dell’informazione protegga, difenda e si avvicini il più possibile alla verità.
Pretendiamo che la violenza, in ogni sua forma, venga esclusa dai toni e dai contenuti della politica.
Chiediamo alla politica di rivedere il concetto di sicurezza, e per questo di abrogare i decreti sicurezza attualmente vigenti. C’è bisogno di leggi che non mettano al centro la paura, ma il desiderio di costruire una società inclusiva, che vedano la diversità come ricchezza e non come minaccia.

Le sardine nelle istituzioni ci credono, e si augurano che con il loro contributo di cittadini la politica possa migliorarsi. Politica è partecipazione. La giornata di oggi è stata partecipazione. La giornata di oggi è stata politica.

 

L’articolo di Gabriella Cerami sulla manifestazione di piazza S. Giovanni – Huffpost 14 dicembre 2019

Finalmente!”

La prova generale è stata superata. Sul palcoscenico più difficile d’Italia, che è Roma, e in piazza San Giovanni dove storicamente si misurano le forze dei partiti, le Sardine hanno mostrato il loro piglio e la loro voglia di futuro declinata con un linguaggio semplice, diretto e soprattutto privo di politicismi e di formule vuote. “Obiettivo raggiunto, siamo centomila”, esulta il leader Mattia Santori. Il trentunenne bolognese, con i ricci e il maglione con appiccicata una sardina di cartone, guarda soddisfatto la piazza e pensa al futuro. Se ci sarà “un vuoto di rappresentanza” e se dai territori “dovesse arrivare la richiesta di formare un partito, l’idea sarà presa in considerazione”. Ma nello stesso tempo avverte: “L’esca più pericolosa è la fretta”.

Gli oratori parlano da un palco ad altezza uomo che palco in realtà non è. È un tir parcheggiato dal quale le voci raggiungono con difficoltà il fondo di questa piazza strapiena. “Non sentiamo nulla, ma l’importante è esserci”, dicono in tanti, giovani e meno giovani: “Finalmente una ventata di aria diversa”. Il “finalmente” è la parola chiave di questa giornata e di questa piazza. Piazza che a ottobre aveva visto la manifestazione sovranista guidata da Matteo Salvini ed è per questo che Santori non ha dubbi quando dice: “Abbiamo dato vita a una narrazione diversa”. Al di là di ciò che succederà in futuro.

Il senso di marcia che questo movimento vuole darsi va ancora definito, intanto però si è reso consapevole di essere un soggetto spendibile per la nuova stagione. In cui specialmente il campo della sinistra si sta ridefinendo e le difficoltà della battaglia, come dimostra il voto in Inghilterra, aumentano. Santori parla di “una nuova luce. Abbiamo portato tanti sorrisi ed energia e questa energia la portiamo nel prossimo decennio”.

La scommessa è sul 2020, prima di tutto sulle elezioni regionali in Emilia Romagna, dove le Sardine tifano e sostengono il candidato di centrosinistra Stefano Bonaccini. Poi, il giorno dopo il voto, il 27 gennaio, inizierà la terza fase: “Ci guarderemo in faccia e penseremo che cosa fare”. Potrebbe esserci anche un incontro con il premier Giuseppe Conte, al quale la piazza rivolge già la richiesta di abrogare il decreto Sicurezza. E non solo quello. Con un linguaggio educato e garbato che caratterizza le Sardine, viene lanciato l’appello ai politici affinché facciano altrettanto: “Pretendiamo che la violenza verbale e fisica venga esclusa dai toni della politica”.

È questa la ventata di novità che arriva dalle 113 piazze in un mese e da quasi mezzo milione di persone coinvolte. Piazze diverse anche da quelle del Movimento 5 Stelle, ci tiene a precisare Santori: “Loro sono nati come l’antipolitica. Noi crediamo nella politica e vogliamo fare da corpo intermedio tra la cittadinanza e la politica”.

Che cosa faranno? Diventeranno un partito? È la domanda che molti nella piazza si pongono. “Tutti ci chiedono: ‘E quindi? Vi candidate? Farete un partito?’. Stiamo creando una nuova narrazione contro l’odio”. Sulla pedana c’è tutta la rete delle Sardine che oggi, in piazza San Giovanni, si è manifestata. Ci sono le Ong: “Sarete con noi sulla Sea Watch”. C’è “il re di Lampedusa”, così viene definito Pietro Bartolo, il medico che ha salvato vite in mare e tante altre ne ha viste morire. C’è una ragazza 22enne rappresentate dell’Arcigay per raccontare la sua storia: “Io sono Luce e sono una transessuale”. Ci sono i partigiani e una ragazza musulmana: “Io sono figlia di palestinesi”. Giocano tutti con il rap diventato virale di Giorgia Meloni, che in questa stessa piazza ha coniato il tormentone identitario e sovranista che definisce la nuova destra.

Le Sardine sono nate per contrapporsi al linguaggio di Salvini e Meloni. La portata di questo evento è enorme. È nato sottovalutando la partecipazione che ci sarebbe stata a Bologna e ora che si chiude la prima fase la vita degli organizzatori è stravolta: “Non dormo da tre settimane, ma il percorso non è ancora finito e speriamo non finisca a breve. Si chiude una fase molto complicata di coordinamento e ne inizia un’altra”, spiega il leader delle Sardine che prepara già l’incontro di domenica con i 160 rappresentanti dei territori. Incontro che serve a darsi delle linee guida per tornare sui territori e ascoltare le istanze che arrivano da lì. Le Sardine si conteranno quando ci sarà il voto in Emilia Romagna, dopo il quale sarà il momento di stilare un programma e parlare di temi da “partigiani del 2020”, come si autodefiniscono.

 

I sei punti programmatici del movimento

  1. Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare.
  2. Che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali.
  3. Pretendiamo trasparenza dell’uso che la politica fa dei social network.
  4. Pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti.
  5. Che la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma. La violenza verbale venga equiparata a quella fisica.
  6. 6. Abrogare il decreto sicurezza.

Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 14 dicembre 2019

Che il piano di rigenerazione urbana di Bagnoli prodotto da Invitalia fosse un involucro vuoto, mestamente privo di contenuti, l’avevano già detto i sindacati (CGIL, CISL e UIL), assieme al WWF e al FAI in un circostanziato documento, ma si sa, quella è gente inconcludente, eternamente scontenta. Sulle pagine di Repubblica poi, l’urbanista Giuseppe Guida aveva osservato che un suo studente del secondo anno avrebbe fatto meglio, ma anche qui, la spocchia accademica non conosce fine.

Nel frattempo però la cosa era stata ribadita, nero su bianco, nel parere congiunto rilasciato dai ministeri dell’Ambiente e dei Beni culturali, secondo il quale il piano di Invitalia non era valutabile, perché puramente virtuale (sic!), ma questa volta evidentemente è il muro di gomma della burocrazia a remare contro, i lacci e lacciuoli che lo Sblocca-Italia si era prefisso di recidere e dissolvere.

Come la mettiamo ora, che a obiettare non sono più i piantagrane di varia provenienza ma, come raccontato ieri da Repubblica, la Consulta delle costruzioni, sarebbe a dire l’imprenditoria, le professioni, le centrali cooperative, l’associazione costruttori, un pezzo di classe dirigente della città, che difronte all’incapacità di Invitalia di motivare il percorso intrapreso, si vede costretta a prender carta e penna e comunicare direttamente al Ministro Provenzano le proprie perplessità?

L’occasione per il gesto clamoroso è lo sbilenco concorso di idee indetto da Invitalia per ridisegnare ancora una volta l’area dell’ex acciaieria. Un’iniziativa rispetto alla quale, come ha dichiarato ieri a Repubblica il presidente della Consulta delle Costruzioni, il professor Alessandro Castagnaro “… siamo fortemente critici. Manca un quadro di sostenibilità finanziaria, non c’è chiarezza, non è un concorso di progettazione ma di idee. E poi vengono escluse alcune categorie professionali molto importanti, come gli agronomi: quando si parla di paesaggio non si può tenere fuori questa categoria. Ci sono una serie di criticità molto forti che ci portano a essere dubbiosi».

A questa cortina fumogena la Consulta propositivamente oppone il lavoro fatto, le decisioni pubbliche già prese, fino ai progetti approvati e cantierabili, sono trentatré quelli censiti, pienamente coerenti con il quadro delle previsioni urbanistiche vigenti, che potrebbero essere avviati immediatamente, senza attendere la palingenesi di una bonifica senza fine, l’unica grande, costosa opera pubblica che sembra stare a cuore a Invitalia.

Alcuni sorprendenti dettagli della quale, sono stati illustrati dai tecnici di quella società nel convegno a Castel dell’Ovo dello scorso 11 dicembre, e qui siamo davvero dalle parti del dottor Stranamore, perché l’idea sarebbe quella di ricollocare in situ, nella stessa area, i materiali provenienti dalla rimozione della colmata (che sarebbe bene a questo punto mettere in sicurezza e lasciare lì dov’è), seppellendo così nuovamente i suoli esistenti; e di procedere alla bonifica dei fondali su uno specchio d’acqua sconfinato, di 14 chilometri quadrati. Insomma, lo sconvolgimento di un ecosistema – mare e terra – che con altri approcci, improntati alla sobrietà più che all’onnipotenza, andrebbe invece guidato, in tempi ragionevoli, verso condizioni di equilibrio e sicurezza.

La lettera della Consulta al ministro Provenzano è un appello serio alla responsabilità: davanti a percorsi così spregiudicati e incerti, è necessario che sia il territorio, con le sue istituzioni e le forze economiche e sociali, a ritrovare rapidamente un ruolo e una voce.