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Antonio di Gennaro, 10 giugno 2015
Il presidente De Luca ha dichiarato che la crisi della Terra dei fuochi è la priorità numero uno nell’agenda di lavoro del nuovo governo regionale. Si tratta di un impegno tremendamente arduo, se davvero intendiamo superare l’impasse degli ultimi due anni, nei quali l’annuncio e la comunicazione emozionale hanno prevalso sull’azione concreta, e le conoscenze acquisite non si sono trasformate in un progetto credibile di riscatto. C’è bisogno di riordinare le idee, ed affrontare freddamente il problema per quello che è, nei suoi differenti aspetti, riconoscendo che quella che continuiamo a chiamare “Terra dei fuochi” è un groviglio di questioni irrisolte: un’area metropolitana, con i suoi quattro milioni di abitanti, ancora incapace di chiudere il ciclo dei rifiuti; un paesaggio scombinato, nel quale le funzioni urbane e le attività agricole, che pure conservano un loro pregio ed una rilevanza economica e sociale, confliggono anarchicamente, invece di integrarsi.
Era stata proprio l’agricoltura metropolitana a finire per prima sul banco degli accusati, ma le indagini capillari a tutti i livelli hanno confermato l’elevata qualità e sicurezza dei prodotti della piana campana, attualmente la più controllata d’Italia. Ma questo non basta, perché non sono purtroppo sufficienti le migliaia di certificati di laboratorio che abbiamo prodotto per ristabilire la reputazione di un’area, se il paesaggio e il territorio nel loro insieme non sono credibili, se il disordine, il degrado, lo smarrimento dell’identità dei luoghi continuano a rappresentare la cifra e l’atmosfera dominante.
La cosa da fare è intraprendere una cura sistematica delle ferite inferte all’ecosistema e al paesaggio, tutte criticità che in questi ultimi due anni sono state meticolosamente identificate e cartografate, a partire dalle discariche, le “aree vaste” della piana tra Napoli e Caserta, che per un trentennio hanno recepito l’immane flusso di rifiuti urbani e industriali, nostrani e d’importazione, ecoballe comprese. Si tratta di poche centinaia di ettari sui 140mila complessivi della piana, e per queste aree il modello non può essere quello inconcludente di Bagnoli, di una bonifica spendacciona ed opaca, a tempo indeterminato; ma piuttosto, quello sobrio di messa in sicurezza, che è poi l’approccio pragmatico con il quale, nelle nazioni avanzate, queste cose sono state rapidamente affrontate e risolte, anche con l’aiuto di tecniche biologiche a basso costo, basate sull’impiego di piante e microrganismi per pulire i suoli, con il vantaggio di restituirli poi all’agricoltura, recuperando quanto possiamo del paesaggio e del perduto senso dei luoghi.
Ventiquattro mesi sono un orizzonte temporale verosimile per affrontare e risolvere definitivamente la questione, se solo si recupera il deficit che ci ha paralizzati sino ad oggi, che è un deficit di direzione politica e amministrativa. Al posto dello sterile pseudo-coordinamento governativo, occorre che Regione Campania prenda sulle proprie spalle la responsabilità per intero, assuma il controllo dell’intera filiera operativa, e riammagli finalmente, con risorse ed energie proprie, l’azione scollegata dei diversi settori amministrativi – in campo ambientale, sanitario e agricolo – sino ad oggi in grado di dare risposte parziali, esclusivamente burocratiche ai problemi. In questa prospettiva, è evidente, non esiste più Terra dei fuochi, ma un territorio da rimettere in sesto, la terza area metropolitana del paese, con i suoi abitanti, i suoi agricoltori, un paesaggio straordinario, con tremila anni di storia e civiltà.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 16 giugno 2015, con il titolo: “Ecco come cancellare la Terra dei fuochi”
Antonio di Gennaro, 23 maggio 2015
Servirà la nuova legge sugli “ecoreati” ad affrontare con più energia ed efficacia i problemi della Terra dei fuochi? I dubbi sono molti, e a ragione. La nuova formulazione dell’articolo 452 bis del Codice penale che ridefinisce il reato di inquinamento ambientale sembra fatta apposta per alimentare un contenzioso infinito, perché il reato sarà perseguibile solo nel caso di un deterioramento “significativo e misurabile” dello stato preesistente “delle acque o dell’aria, o di porzioni estese e significative del suolo e del sottosuolo”. Non ci siamo proprio: come si farà a decidere fino a che punto un deterioramento deve essere ritenuto significativo? E quanto deve essere estesa la superficie di suolo vulnerata perché si configuri il reato? Il lavoro per gli avvocati e i periti di parte è assicurato per i decenni a venire.
Insomma, la formulazione del testo di legge non convince per nulla, e viene da pensare a questo punto, con tutte e due le camere ancora nel pieno delle funzioni, che forse il mono o bi-cameralismo devono entrarci poco con la qualità dei provvedimenti legislativi, se si continua a produrli – era già successo con il decreto “Terra dei fuochi” – con l’obiettivo di rassicurare l’opinione pubblica e di veicolare annunci, piuttosto che di risolvere i problemi.
Un modo differente, più diretto ed efficace per affrontare le cose c’era, e consisteva nel separare il comportamento illecito dalle conseguenze provocate sull’ecosistema. Mi spiego. Smaltire rifiuti in un suolo agricolo dovrebbe essere considerato un reato in sé, una cosa eticamente, socialmente, economicamente e giuridicamente inaccettabile, a prescindere dall’eventuale contaminazione, che dovrebbe costituire eventualmente un’ aggravante. Il suolo è una cosa seria, la natura impiega migliaia di anni per fabbricarlo, è una risorsa non rinnovabile da trasmettere ai nostri eredi, che deve essere rispettata ed impiegata per gli usi agricoli e forestali sostenibili. Punto. Se interro rifiuti devo essere sanzionato a prescindere dalle conseguenze ambientali, più o meno misurabili, significative, estese. E anche a prescindere dalla capacità dei sistemi ecologici ed agrari di difendersi dagli oltraggi, attraverso meccanismi attivi di immobilizzazione, degradazione, assorbimento selettivo dei potenziali contaminanti, che per fortuna esistono, e costituiscono entro certi limiti il “salvavita” dell’ecosistema. La capacità della natura di difendersi non può essere considerata un alibi per i criminali.
Nei precedenti interventi su questo giornale ho più volte stigmatizzato la paranoia mediatica che si è scatenata sui prodotti agricoli della nostra povera pianura, rivelatasi del tutto infondata, se alla fine il 100% dei controlli è risultato sano. Ma prendere le difese del settore agricolo della piana campana non significa minimizzare la portata dei comportamenti illeciti. Al contrario. L’agricoltura della piana campana non può sopportare l’oltraggio dei rifiuti, né piccolo né grande, non ci sono soglie pseudo-scientifiche di significatività che tengano, quanto piuttosto soglie robuste di civilità, responsabilità, controllo sociale, ragionevolezza.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 29 maggio 2015.
Antonio di Gennaro, 12 aprile 2015
I vantaggi della città metropolitana li capisce anche un bambino. Non è possibile che un territorio, quello della provincia di Napoli, che è più piccolo del comune di Roma, sia governato da un puzzle di 92 differenti piani urbanistici, sindaci, consigli comunali, aziende partecipate. Il risultato è la follia attuale, un’area con tre milioni di abitanti, nella quale vivere è un’esercizio quotidiano di resistenza, dove tutti i servizi essenziali e i diritti di cittadinanza sono sotto la soglia minima della decenza, in quell’anticamera di terzo mondo che ha tanto colpito papa Francesco.
Il meccanismo poi è fortemente dissipativo, perchè la somma di appetiti di questo formicaio istituzionale si traduce in una instancabile attività edilizia, che continua illegalmente a consumare il patrimonio, e a congestionare i paesaggi più celebri del pianeta – Campi Flegrei, Vesuvio, Penisola, Isole del Golfo, Piana Campana – che sono anche purtroppo i più fragili, esposti come sono all’azione di vulcani attivi, frane, colate rapide. Tutto questo, quando le finanze pubbliche non sono nemmeno in grado di manutenere e mettere in sicurezza la città che già c’è, che si sgretola giorno dopo giorno sotto i nostri occhi.
I vantaggi di un governo unitario di questo sistema fuori controllo li vede anche un bambino, ed è per questo che la nascita della città metropolitana al posto della vecchia provincia, mandata in soffitta ingloriosamente, senza essere mai riuscita ad approvare uno straccio di piano di coordinamento territoriale, deve esser vista dalle persone di buona volontà come un’occasione unica, probabilmente l’ultima per restituire visione e speranza all’area napoletana, soprattutto per recuperare il drammatico deficit di cittadinanza che ci divide dal resto d’Italia e d’Europa.
E’ con questo stato d’animo che mi sono accinto alla lettura della bozza di statuto della città metropolitana, licenziato nei giorni scorsi, che dovrà ora essere approvata entro il 30 giugno dal Consiglio metropolitano, pena il precoce commissariamento, ma la speranza è durata poco, perchè in quel documento le risposte ai problemi strutturali cui si è fatto riferimento, semplicemente non ci sono.
Ci sarà tempo per discutere, ma il dato saliente è che manca nella bozza di statuto un progetto realistico di ristrutturazione di poteri e competenze in grado di costruire un vero governo metropolitano, che prevalga sulle spinte disordinate e gli appetiti anarchici che dominano il sistema attuale. Certo, la Città metropolitana redigerà il suo Piano strategico e il suo Piano territoriale, ma nulla viene detto sui meccanismi amministrativi reali che imporranno ai riottosi comuni di sottostare a queste scelte, e la sensazione è che, ancora una volta, all’insegna della semplificazione, sia passata una riforma barocca, che moltiplica e annacqua ulteriormente i centri decisionali, anzichè addensarli e razionalizzarli.
Tutto questo, all’insegna di una diarchia decisionale che vedrà contrapposte le due assemblee, quella deliberativa del Consiglio metropolitano, eletta a suffragio universale, e quella consultiva della Conferenza metropolitana, composta da tutti i sindaci della Provincia: una coabitazione che prefigura agli occhi di quanti hanno solo un minimo di esperienza di cose nostrane, la prospettiva di un contenzioso eterno tra poteri, che finirà probabilmente per sterilizzare del tutto l’operatività dell’ente metropolitano.
Ad ogni modo, perchè il meccanismo si attui, sarà necessario smembrare il capoluogo in un numero imprecisato di “aree omogenee”, e così il risultato sarà quello di indebolire ulteriormente Napoli, senza nemmeno il vantaggio di dare vita ad un vero potere metropolitano, in un gioco nel quale non è assolutamente chiaro dove sia il vantaggio prodotto da una simile cessione di sovranità.
Per di più, la bozza è redatta con il gergo velleitario con il quale abbiamo stilato i programmi comunitari finiti nel nulla, con l’elenco enciclopedico delle finalità, tutte condivisibili e “politically correct” – dallo sviluppo economico alla biodiversità, fino naturalmente ai beni comuni e all’obiettivo “rifiuti zero”, tutti i mantra insomma della politica parolaia – senza l’identificazione di quelle due, tre priorità, a partire dal consumo di suolo, dalle quali dipende la nostra sopravvivenza.
Alla fine, è probabile che la Commissione che ha redatto la bozza non abbia più di tante responsabilità per un esito tanto nebuloso, perchè le debolezze sono già insite nella legge Delrio, che pretende di ristrutturare importanti pezzi dello Stato sotto la spinta della “spending review”, invece che di una meditata e cosciente istanza riformatrice. D’altro canto, lo status quo è semplicemente indifendibile, ed allora è necessario rimboccarsi le maniche, migliorare e dare sostanza a questa bozza di statuto, che suona al momento come un leggiadro svolazzo di piano sulla tolda del Titanic.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 15 aprile 2015 con il titolo “La nebulosa metropolitana”
Antonio di Gennaro, 11 marzo 2015-03-11
Come non essere d’accordo con l’analisi di Giuseppe Guida (“Bagnoli, serve una nuova variante per l’area occidentale”, Repubblica Napoli del 10 marzo 2015): con l’insediamento del commissario inizia una fase nuova, nella quale tutto, ma proprio tutto deve essere messo in discussione, beneficiando della lezione appresa, e a questo riguardo sono quattro le considerazioni che vorrei aggiungere a quelle svolte nell’editoriale di ieri.
La prima riguarda l’informazione pubblica. Per troppi e lunghi anni la cittadinanza è stata tenuta all’oscuro sull’avanzamento dei lavori: Bagnoli è diventata una faccenda per iniziati, all’opposto di quanto avviene in Europa, dove la comunicazione periodica dei risultati e le attività di ascolto sono ritenute aspetti qualificanti del processo. Per questo motivo, fossi il commissario, per prima cosa produrrei in tempi stretti un libro bianco, un rapporto pubblico per la cittadinanza, illustrando in una trentina di cartelle, con linguaggio piano, ed evitando gerghi confondenti, qual’è lo stato dell’arte: le cose fatte e quelle da fare, i problemi risolti e quelli ancora aperti. Scopriremmo allora aspetti interessanti: che i due terzi delle aree oramai sono a posto, molte di queste sono di proprietà pubblica, e si potrebbe passare immediatamente ad una fase attuativa, se solo si sapesse cosa fare.
In secondo luogo, c’è da smitizzare una volta per tutte questa benedetta bonifica, che da strumento si è trasformato in fine: occorre orientare le attività di recupero ambientale, come in Europa e nel mondo si fa, su corrette analisi del rischio, piuttosto che su tabelle astratte e avvocatesche, buone per diluire indefinitamente tempi e obiettivi, dilatando a piacere la spesa. L’ottica corretta, dopo un secolo di attività industriale, è quella sobria della messa in sicurezza, conseguibile in tempi rapidi e a costi contenuti.
Terzo punto, di fondamentale importanza, è quello della mobilità. Come si arriverà nella nuova Bagnoli? In auto, come proponeva Pomicino? O più sostenibilmente in metropolitana, come è scritto nel piano regolatore, che prevedeva di servire il quartiere con due linee, la 2 e la 8? Questa previsione è stata inspiegabilmente rimossa, ripiegando sull’allungamento della linea 6, l’infausta e costosissima LTR, totalmente inadeguata allo scopo.
In ultimo, va bene rifare il piano, come propone Guida, ma ricordando che a questo punto il pallino delle operazioni – come previsto dal decreto “Sblocca Italia” – non è più a Palazzo S.Giacomo, ma nelle mani del commissario governativo. Potrebbe non essere una cosa cattiva, considerato il fatto che gli uffici di piano nostrani – quello comunale e quello regionale – non godono di buona salute. A questo punto, la ricostruzione di una capacità progettale pubblica, in grado di dialogare credibilmente con gli investitori privati, diventa uno dei compiti prioritari del commissario in arrivo, l’eredità buona da lasciare ai governi locali, affinchè proseguano il lavoro.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 12 marzo 2015 con il titolo “A Bagnoli si possono già fare molte cose se soltanto si sapesse quali”
Ho partecipato lo scorso 27 febbraio ad un incontro sulle Problematiche urbanistiche della Città Metropolitana di Napoli e sul ruolo della Rigenerazione urbana organizzato dall’Ordine degli Architetti di Napoli.
L’incontro è stato trasmesso da Radio Radicale. Chi vuole, può ascoltare i miei interventi e quelli degli altri partecipanti al link: “Città metropolitana”
Il programma dell’incontro
Intervento introduttivo: Salvatore Visone, presidente dell’ordine degli architetti PPC ( Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori) di Napoli e provincia. Intervengono: Aldo Loris Rossi (Urbanista), Antonio Di Gennaro (Agronomo), Almerico Realfonzo (Urbanista), Guglielmo Trupiano (Direttore del Centro Interpartimentale LUPT dell’Università Federico II), Mario Rosario Losasso (Direttore del Dipartimento di Architettura della Università Federico II), Gaetano Manfredi (Rettore dell’Università Federico II). Coordina e presiede il Presidente della Consulta urbanistica Vincenzo Meo
Cosa dire della delibera della giunta regionale della Campania dello scorso 8 febbraio, con la quale si avvia sul Litorale flegreo la cessione ai privati di 1.000 ettari di proprietà pubblica? Si tratta di poderi dell’ex Opera Nazionale Combattenti, che l’Ente diede in affido ai coloni dopo la bonifica del litorale flegreo degli anni ’30, e il cui possesso si è trasmesso con varie forme e modalità sino ad oggi. Alcuni di questi poderi sono ancora utilizzati per l’agricoltura ed il pascolo, altri sono stati oggetto di edificazione abusiva. Rifacendosi al decreto Letta sull’IMU del 2013, la delibera di giunta regionale consente ai possessori che acquisteranno i fondi, che restano tuttora proprietà demaniale, di presentare domanda di sanatoria per gli abusi commessi. Più che una sanatoria, una promessa di sanatoria, che forse è ancora peggio.
Vale per questa nuova vicenda, paro paro, quanto già detto nel post dello scorso 31 luglio (“Un territorio in ostaggio”), sullo pseudo-condono lanciato dall’amministrazione regionale nelle aree tutelate e in quelle a rischio, provvedimento poi impugnato dal governo. Nell’imminenza della scadenza elettorale il territorio viene usato come merce di scambio.
La pianificazione pubblica e il governo del territorio sono stati rottamati. E’ quindi inutile chiedersi in che modo l’annunciata vendita dei suoli pubblici influenzi/pregiudichi la possibile riqualificazione, recupero, restauro di quello strepitoso ecosistema che è, nonostante gli scempi, il litorale flegreo. L’epicentro guarda caso dell’emergenza ambientale e sociale che stiamo attraversando.
Antonio di Gennaro, 23 febbraio 2015
L’articolo di Roberto Saviano sulla morte di Carmine Schiavone, pubblicato oggi da Repubblica. Nella parte finale c’è un paragrafo dedicato alle rivelazioni di Schiavone sulle attività di smaltimento dei rifiuti speciali, che ho apprezzato, e che mi sembra rifletta considerazioni in qualche modo nuove per l’autore di Gomorra:
“… Sulla terra dei fuochi Carmine Schiavone ha capito che poteva risultare eroico. L’uomo criminale che dichiara di aver fatto del male ma che accusa lo Stato di essere molto più sporco di lui. Gioco facile e identico per moltissimi collaboratori di giustizia che dovrebbero essere ascoltati solo per ciò che rivelano e non per le loro analisi: e soprattutto solo dopo attente verifiche. Ha parlato di scorie nucleari dalla Germania indicando genericamente posti ma nulla è stato trovato. Il suo merito su questo? Ha comunque fatto concentrare l’attenzione sul territorio.”
Anche Raffaele Cantone, nel suo articolo d oggi sul Mattino ricorda di aver interrogato più volte il pentito, e come le sue dichiarazioni andassero prese con cautela, necessitassero di verifiche puntuali.
Mi sembrano riflessioni utili per ragionare a mente fredda, per iniziare a progettare azioni concrete di riscatto per la piana campana.
Antonio di Gennaro, 18 febbraio 2015
E’ stato definitivamente annullato ieri dal Tribunale del Riesame, dopo una battaglia legale durata 15 mesi, il decreto con il quale la magistratura aveva sequestrato il pozzo e il fondo agricolo di Vincenzo Capasso, l’agricoltore di Caivano. Il Riesame ha integralmente recepito la sentenza della Cassazione, che esaminando il ricorso dell’agricoltore, aveva stabilito che quei prodotti agricoli erano sani, che la composizione dell’acqua è pienamente compatibile con l’uso irriguo, senza rischi per la salute pubblica; che la concentrazione più elevata in alcuni elementi minerali (manganese, fluoruri, arsenico), tipica dei suoli vulcanici di Campania felix, deve essere collegata al valore di fondo naturale, ed è un aspetto peculiare della fertilità di queste aree. Vincenzo Capasso, che prima della sentenza, come ogni giorno, si era recato alle cinque del mattino in campagna per avviare il lavoro, è stato assistito in questa complicata vicenda dall’avvocato Marco De Scisciolo, con la consulenza ambientale di Aurora Brancia, e quella agronomica di Silvestro Gallipoli. Sempre ieri, come raccontato da “Repubblica”, il ministro dell’Ambiente Galletti, al termine della campagna di monitoraggio capillare condotta in questi mesi, ha confermato la completa salubrità, sicurezza ed eccellenza delle produzioni agricole della piana campana, osservando che sarebbe ora di smetterla di riferirsi sbrigativamente, a questa parte del paese, come alla “Terra dei fuochi”.
Con il dissequestro dei suoli agricoli di Caivano si conclude una lunga e dolorosa vicenda pubblica, che ha causato danni gravissimi, economici e di immagine, all’agricoltura della Campania. E’ stata una lezione per tutti. Si era persa la cognizione che ci fosse ancora un’agricoltura al bordo della città, addirittura all’interno di essa, come accade nel Parco delle Colline di Napoli. Che ci fossero ancora agricoltori, trattati alla stregua di individui invisibili, a cittadinanza limitata, oscuri produttori di rischio. Ora sappiamo che quest’agricoltura clandestina continua a produrre quasi la metà del valore aggiunto agricolo regionale; che i suoi operatori lavorano per mantenere un ordine, una decenza e una qualità nell’informe caos metropolitano. Che i loro prodotti possono e devono tornare sulle nostre mense, con serenità e orgoglio, e che da oggi acquisteremo solo in quei negozi che espongono il cartello “Qui si vendono prodotti agricoli della piana campana”.
Repubblica Napoli di oggi pubblica la lettera di Giacomo D’Alisa, economista ecologico dell’Università di Roma “La Sapienza”, di commento al mio articolo del 13 febbraio (pubblicato in Horatio post con il titolo “Il decreto va”). A seguire, la mia risposta.
Il giorno 13 Febbraio su Repubblica di Napoli è stato pubblicato un articolo sulla Terra dei Fuochi, a firma di Antonio di Gennaro. L’articolo ci informa che sono meno di sedici gli ettari altamente contaminati nei 57 comuni dove i roghi e gli interramenti abusivi dei rifiuti sono particolarmente frequenti. La coltivazione sarà vietata, in forma meramente precauzionale, solo in quei campi. Non possiamo che rallegrarci della buona notizia. L’estensione del territorio su cui s’interdice la coltivazione è irrisoria. Eppure, il tono della notizia mi lascia sconcertato. Si liquidano in un breve passaggio come polemiche tutte le voci che tendono a contestare i numeri offerti dal Ministero. Le polemiche mosse contro quel 2% del terreno a rischio segnalato dal governo mesi a dietro, sono oggi ancora più speciose, si lascia intendere. Poco più di un terzo di quel già misero 2% è contaminato. Un implicito invito a starsene tranquilli. La strategia della minimizzazione l’aveva definita Saviano. Sarebbe forse meglio definirla la strategia della mistificazione. Si, perché si mistifica se si vuol far credere che i roghi provochino prevalentemente inquinamento al suolo, quando invece gli inquinanti dei fuochi si disperdono soprattutto nell’aria. Si mistifica quando si continua trattare la questione dei roghi come una questione territoriale e non in quanto fenomeno socio-economico. Appiccare i roghi è una delle strategie usate per liberarsi dei rifiuti industriali. Il fenomeno dello smaltimento illegale dei rifiuti non può essere sminuito solo perché i danni accertati al suolo sono minimi, quanto ad estensione della contaminazione. Il fenomeno del traffico e dello smaltimento illegale dei rifiuti non riguarda solo quei 57 comuni indicati nel decreto. Non riguarda neanche solo l’Italia. Nel 2003 gli agenti dell’Europol hanno ribadito le loro preoccupazioni rispetto alla crescita della domanda di servizio illegale di smaltimento di rifiuti pericolosi in Europa. In una relazione presentata nel 2014, i funzionari dell’Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’UE, hanno evidenziato che i crimini ambientali sono in continua crescita e che quelli legati al traffico illecito dei rifiuti sono ancora troppo sottovalutati in Europa. L’Agenzia Ambientale Britannica ha dichiarato che almeno in 120 siti in Inghilterra e Galles si bruciano illegalmente i rifiuti per ridurne il volume. Secondo una società di consulenza britannica quasi il 70% di tossicità equivalente, che esprime la tossicità generale di diossine e assimilati alle diossine, immessa nell’area nel 2006 in Inghilterra dipendeva dai rifiuti bruciati e in particolar modo dai roghi tossici. Questo fenomeno conosciuto solo dagli addetti ai lavori fuori dall’Italia è, invece, largamente conosciuto, grazie alle denunce fatte dai movimenti campani, per merito delle urla lanciate dalle vittime dei roghi e dei sotterramenti illegali. Se alcune loro dichiarazioni assumono toni polemici non dovrebbe stranire. Minimizzare le richieste degli attivisti e delle vittime campane e mistificare il fenomeno dello smaltimento illegale dei rifiuti, invece, sono le vere azioni inaccettabili. In Campania possiamo ancora coltivare, possiamo ancora mangiare i frutti della nostra terra, ma dobbiamo ancora cominciare a combattere effettivamente il fenomeno del traffico illecito dei rifiuti. Giacomo D’Alisa
Non c’è nessun intento di minimizzazione, nel racconto degli ultimi sviluppi del decreto “Terra dei fuochi” fatto nell’articolo del 13 febbraio. La crisi della piana campana è un fenomeno a molte dimensioni, che è necessario affrontare distintamente, e con chiarezza, altrimenti si continua a fare solo confusione. I dati sinteticamente presentati nell’articolo si riferiscono ai controlli ministeriali sui suoli e le coltivazioni. Il teorema che legava rifiuti, agricoltura e salute pubblica – ricordiamo l’esposizione sull’altare dei pomodori di Caivano – è stato una volta per tutte confutato. Si conferma che le aree agricole della piana campana – 140.000 ettari, con 38.000 aziende che producono metà del valore aggiunto agricolo regionale – non costituiscono un centro di rischio ma un presidio produttivo e civile. Tutta quest’economia è stata messa in ginocchio da una propaganda infondata, creando le premesse per la desertificazione economica e sociale della grande pianura, da trasformare in terra di conquista per le forze speculative e criminali, e per il bluff delle bonifiche. Certo, rimane il fenomeno dei roghi, e qui il presidio militare può veramente poco se la galassia di manifatture dell’hinterland non è aiutata con politiche ad hoc ad emergere da una condizione di clandestinità. In verità, neanche per i rifiuti urbani possiamo stare tranquilli, il ciclo regionale è lungi dall’esser chiuso, come ho ricordato nell’ennesimo articolo pubblicato da Repubblica lo scorso 7 febbraio. Così come segna il passo la messa in sicurezza delle grandi discariche, le 6 “aree vaste” identificate da più di un decennio dal Piano regionale di bonifica, a partire dalla Resit di Giugliano. Queste discariche hanno costituito per un trentennio il principale recapito dei flussi combinati di rifiuti urbani e industriali. Nonostante tutti questi problemi, il profilo ambientale della piana campana continua sostanzialmente ad essere quello di un territorio agricolo (60%) ed urbano (40%), nel quale vivono stipati come possono quattro milioni di cittadini campani, i due terzi della popolazione regionale, con un gap economico che appare ormai irrecuperabile rispetto al resto del paese, e un drammatico “deficit di cittadinanza”, per usare lo slogan coniato da Fabrizio Barca per identificare il minor livello di servizi e assistenza che lo Stato è in grado di affire ai cittadini di queste aree per proteggere la salute del corpo e della mente. In questo contesto anche i dati epidemiologici dovrebbero essere interpretati correttamente. I dati dei Registri tumori, a partire da quello dell’ASL Napoli 3, nel quale ricade la Piana campana, dicono che non ci sono differenze con il resto del paese per quanto riguarda l’incidenza delle malattie tumorali, mentre la mortalità è di alcuni punti superiore. Ci ammaliamo allo stesso modo (all’interno di un trend comunque decrescente), ma moriamo di più. Di povertà e deprivazione si muore, ed è questo il vero scandalo al quale è necessario porre rimedio, altro che minimizzazione (la mistificazione, per cortesia, è meglio lasciarla da parte) (antonio di gennaro)
Dopo la presentazione dei risultati delle indagini sui siti potenzialmente contaminati nei 57 comuni presi in considerazione dal decreto “Terra dei fuochi”, oggi due interviste importanti a commento.
Il Mattino ha intervistato il ministro dell’Ambiente Galletti, che dice parole molto precise sull’assoluta sicurezza dei prodotti agricoli della piana campana (leggi qui).
Poi c’è la bella intervista che Massimo Fagnano, docente di agronomia della Federico II e coordinatore del progetto LIFE ECOREMED, nonché membro del gruppo di lavoro governativo che ha curato la mappatura dei suoli agricoli a rischio potenziale, ha rilasciato a Gianluca Abate del Corriere del Mezzogiorno. Di questo colloquio, assai ben riportato dall’intervistatore, ho apprezzato la chiarezza, così come i toni misurati, non polemici (qui il link).
Con Massimo poi discuterò di un aspetto, che è questo. La qualità dell’aria e della prima falda della piana campana è quella che ci si può aspettare in un’area nella quale si concentra la vita di quattro milioni di persone, con condizioni di vita estremamente carenti (l’urbanista Agostino Di Lorenzo parla di “condizione disurbana”). Io penso che i rifiuti c’entrino poco in tutto questo, o che comunque giochino un ruolo limitato. I parametri ambientali della piana campana non sono diversi da quelli della pianura padana o di quella veneta. In questo contesto, gli ecosistemi agricoli periurbani continuano a lavorare, in virtù dei meccanismi ecologici protettivi loro propri, producendo alimenti assolutamente sicuri. Ciò detto, la mia idea è che, prima di identificare la qualità della prima falda o dell’aria come possibili fattori di rischio, è necessario capire una volta per tutte se l’incidenza delle patologie tumorali nella piana campana mostra aspetti anomali rispetto a situazioni territoriali comparabili. I dati del registro tumori dell’ASL Napoli 3 (qui il link), diretto da Mario Fusco, non confermano questa tesi. E’ poco utile cercare a tutti i costi il killer, se l’omicidio è solo immaginato. Che poi occorrano urgenti politiche pubbliche per offrire agli abitanti della piana campana lavoro, servizi, assistenza sanitaria decente, Horatio post lo sostiene da tempo. (adg)
Antonio di Gennaro, 13 febbraio 2015
L’attuazione del decreto “Terra dei fuochi” segna un’altra tappa. Ieri il ministro delle politiche agricole Martina, il ministro dell’ambiente Galletti, e il ministro della salute Lorenzin, hanno firmato il decreto interministeriale per l’interdizione di alcuni terreni dall’uso agricolo, nei primi 57 comuni indagati, a seguito delle indagini dirette sui suoli e sulle produzioni agricole.
Le analisi di laboratorio hanno riguardato circa 43 ettari potenzialmente contaminati, identificati nella precedente fase di mappatura, ricadenti nelle classi di rischio presunto più elevate, la 4 e la 5. Nel complesso, l’attività di mappatura preliminare aveva identificato un migliaio di ettari, quel 2% che tante polemiche aveva scatenato, classificati in 5 classi di rischio presunto.
Dei 43 ettari sottoposti ad analisi, 15,5 ettari sono risultati assolutamente idonei alle produzioni agroalimentari. Per altri 11,6 ettari la produzione agroalimentare potrà proseguire adottando determinate precauzioni colturali ed agronomiche. I restanti 15,8 ettari hanno evidenziato livelli di contaminazione dei suoli tali da motivare l’esclusione cautelare dall’uso agroalimentare, e sono quelli interessati dal provvedimento di interdizione. Alcuni di questi terreni già non sono al presente utilizzati per scopi agroalimentari. Per inciso, la superficie agricola nei 57 comuni indagati è di poco inferiore ai 50.000 ettari.
E’ da sottolineare il fatto che le analisi sulle produzioni agricole in tutti i 43 ettari sottoposti ad indagine diretta hanno evidenziato l’assenza di qualunque tipo di contaminazione. Questo significa che il provvedimento ha un carattere precauzionale, perché tutti i prodotti, anche quelli dei terreni interdetti, sono risultati in regola con le normative nazionali e comunitarie.
Come avvenuto per la precedente fase di mappatura, i dati catastali delle particelle agricole sottoposte ad interdizione saranno pubblicati sulla Gazzetta ufficiale, e i risultati analitici saranno resi disponibili in rete.
Sempre ieri, il decreto del Consiglio dei ministri ha raddoppiato da 100 a 200 i militari impiegati per le esigenze legate alla Terra dei Fuochi, così come è stato incrementato di circa 170 unita il numero di quelli che saranno inviati a Caserta e a Napoli. I 200 militari saranno in campo per tutto l’arco dell’anno e dunque fino al 31 dicembre 2015. Nel frattempo, il Viminale ha puntualizzato come “nessuna risorsa finanziaria sia stata distolta dalle province della Campania per destinarla ad altri scopi”.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 13 febbraio 2015 con il titolo “La Terra dei fuochi è meno di 16 ettari”
“Nella ragnatela della terra dei fuochi”: una riflessione, una sorta di amaro bilancio. L’intervento è a firma collettiva: “Geproter”, una società cooperativa che da un quarto di secolo fornisce assistenza tecnica specializzata agli agricoltori campani. E’ stata una delle prime società finanziate alla fine egli anni ’80 dalla legge sull’imprenditoria giovanile. Una legge che ha funzionato bene, e che poi è stata copiata in mezzo mondo. Un gruppo di tecnici di valore, impegnati sul campo per aiutare l’agricoltura, gli agricoltori. (adg)
Antonio di Gennaro, 7 febbraio 2015
Con l’Expo delle Idee, il grande incontro che si tiene oggi alla Bicocca di Milano, con 40 tavoli, 500 esperti e una folta rappresentanza ministeriale, inizia il lavoro di redazione della “Carta di Milano”, la convenzione internazionale sulla giustizia alimentare e lo sviluppo sostenibile, che costituirà probabilmente il più importante lascito dell’esposizione universale. Una sorta di “Kyoto dell’alimentazione”: la dichiarazione universale dei diritti di ciascun abitante del pianeta ad un cibo “buono, pulito ed equo”, per usare le parole di Carlin Petrini, il fondatore di Slow Food, che con Ermanno Olmi e don Ciotti presiede i lavori.
Certo, l’Expo è molte cose insieme, sicuramente l’occasione per promuovere l’agroalimentare italiano, la nostra tradizione eno-gastronomica, che sono tutt’uno con lo straordinario mosaico di storia, paesaggi e culture che il Bel Paese è ancora in grado di offrire.
Scrivo queste cose, e un senso di malinconia mi prende, per il fatto che la Campania giunga a un così importante appuntamento con la reputazione e il morale a pezzi. La Campania è nel gruppo di testa delle regioni agricole italiane, con una singolare particolarità: quella di mantenere il passo con le grandi (Emilia, Lombardia, Veneto, Sicilia, Puglia), per produzione e valore aggiunto, disponendo di una superficie agricola che è la metà. Questo significa che i nostri ecosistemi e paesaggi agricoli hanno una produttività doppia rispetto agli altri, in termini qualitativi e quantitativi. Campania felix non è un’espressione letteraria ma una potenzialità reale della storia e della natura.
Questi risultati sono conseguiti nonostante il disordine territoriale, le debolezze strutturali, l’incapacità di fare squadra del nostro comparto primario, che continua a proporsi come sommatoria di eccellenze piuttosto che come sistema coordinato. Se questo gap organizzativo e istituzionale fosse superato, la Campania metterebbe il turbo, e non ce ne sarebbe per nessuno.
In questo panorama, le nostre disgrazie, la diffidenza che circonda le nostre produzioni, appaiono forse come opportunità per le altre agricolture regionali, che potrebbero intravvedere la possibilità di acquisire nostre quote di mercato. E’ un gioco miope, perché proprio alla scala universale dell’Expo, il brand “Italia” è uno solo, e ha tutto da perdere da un crollo di immagine della Campania.
In conclusione, siamo terra di eccellenze, la culla della dieta mediterranea – che pure all’Expo verrà celebrata come stile di vita da proporre a modello per l’intera popolazione del globo – ma partner minore, di seconda fila della kermesse globale. Conviene prenderne realisticamente atto per rimediare, e ripartire prontamente. Nessuno ci soccorrerà, dipende esclusivamente da noi.
Pubblicato su Repubblica Napoli dell’8 febbraio 2015 con il titolo “La Campania ha una produttività doppia rispetto alle altre regioni”
Antonio di Gennaro, 3 febbraio 2015
La lunga guerra dei rifiuti in Campania – non poteva essere altrimenti – ha lasciato ferite profonde nel tessuto sociale e istituzionale: c’è un nervo scoperto, un conflitto latente, sempre aperto: le immediate e virulente reazioni negative alla proposta del Comune di realizzare a Scampia un impianto di compostaggio sono lì a dimostrarlo. L’indisponibilità dei territori alla localizzazione di qualunque tipo di impianto – poco importa si tratti di inceneritori o di impianti di compostaggio – è un muro contro il quale si scontra ogni tentativo di soluzione strutturale del problema.
In questo clima di totale ostilità e sfiducia, ogni ragionamento è impossibile, ed è un peccato, perché così si annullano i margini di manovra che pure si é riusciti faticosamente a guadagnare. Rispetto al piano rifiuti a suo tempo presentato alla Commissione europea, i progressi a scala regionale nella raccolta differenziata (con il capoluogo, in verità, fermo al palo), consentirebbero un ripensamento delle scelte, con meno inceneritori e più impianti di compostaggio. Anche gli ziggurat di ecoballe, a detta di esperti autorevoli, potrebbero essere trattati in tempi ragionevoli addirittura negli impianti STIR esistenti, apportando a questi ultimi limitate modifiche tecniche.
Insomma, una discussione seria intorno a un mix pragmatico e calibrato di soluzioni tecnologiche, in grado di chiudere finalmente il ciclo, potrebbe finalmente aprirsi, ma poi ogni azione si arresta, di fronte all’opposizione invalicabile dei territori, ed allora si ritorna alla tregua armata, allo status quo deprimente, fatto di non-decisioni, di attese e rimandi, che oltre a dilapidare soldi pubblici per la mortificante esportazione fuori regione dei rifiuti, equivale alla sconfitta di tutti.
Ma il tempo è scaduto, e una riflessione si impone: nelle istituzioni innanzitutto, affinché ogni proposta non appaia come espediente estemporaneo, ma sia seriamente inquadrata in una strategia credibile di riqualificazione e risarcimento dei territori; ma anche in quelle forze culturali, morali e religiose che sostengono incondizionatamente la protesta, al di là di ogni ragionevole evidenza tecnica e scientifica, non riuscendo sempre ad operare una distinzione tra le sacrosante ragioni delle comunità locali, e l’anti-istituzionalismo preconcetto, utile solo a perpetuare indefinitamente subalternità, rancori, divisioni.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 7 febbraio 2015 con il titolo “Rifiuti, un problema ancora irrisolto”
Antonio di Gennaro, 23 gennaio 2015
Quale può essere il senso dell’esposizione pubblica del dolore irreparabile; cosa c’è dietro la scelta del parroco di Caivano di pubblicare in rete le foto dei bimbi malati di tumore? E’ difficile dare una risposta. Ci prova Aldo Masullo, nella sua intervista a Repubblica del 22 gennaio. L’ipotesi più plausibile è quella di una forma estrema di denuncia, insieme a una richiesta ultimativa e ineludibile di attenzione. Quei bambini sono presentati come vittime innocenti di un’ingiustizia non tollerabile, di un oltraggio insanabile all’ambiente, del crimine più efferato, l’ecocidio; il fatto che questo possa succedere in un paese che si dice civile, è materia di scandalo. Questo appare il messaggio di quelle foto shockanti, che sono un pugno in faccia, un sasso nella coscienza.
Il fatto è che è pure difficile parlarne, perché ogni ragionamento rischia di apparire irriguardoso dinnanzi al dolore totale, concreto, personificato. Ma il rischio deve essere corso, se l’obiettivo di chi compie la scelta ultima di pubblicizzare il dolore è anche quella di sollecitare una risposta operativa, una soluzione. Ed è qui che le cose si fanno difficili. Perché, prima dei bimbi, c’era stata l’esposizione dei pomodori sull’altare, lo scandalo dei frutti avvelenati di una terra avvelenata, portatori di morte per chi la abita, anziché di ristoro e di energia buona. Ma quest’equazione data per certa, che lega la terra, i prodotti, la salute delle persone, non ha retto i controlli scientifici. I dati epidemiologici, ambientali, agronomici, se vogliamo stare ai fatti, dicono altro.
Ed allora la domanda ritorna: perché affidare al rumore scomposto dei social network il dolore estremo? Se ogni tentativo di distinguere l’inferno da quello che inferno non è, viene respinto come negazionismo. Se l’unico racconto ammissibile è quello della compromissione irrimediabile dell’ambiente di vita. Cosa rimane alla fine? E’ vero, la testimonianza profetica non è tenuta ad indicare soluzioni, ma neanche a negarle, altrimenti è profezia di sventura, che non serve a niente. Ecco allora quello che proprio non convince: il fondare sull’esposizione del dolore un’autorità superiore, che si propone come unica interprete dei territori che soffrono. Irridendo quanti, senza certezze precostituite, in onestà, riconoscendosi come tutti fallibili, si ostina a voler capire, a lavorare a un progetto per quell’hinterland abbandonato dallo Stato, senza servizi, senza assistenza, senza lavoro; periferia d’Italia deprivata delle cose essenziali che occorrono a ciascuno di noi per proteggere, giorno dopo giorno, la propria salute e il proprio futuro.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 24 gennaio 2015 con il titolo “L’esposizione del dolore e le profezie di sventura”

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