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Antonio di Gennaro, 28 giugno 2014
Lo scorso giovedì 26 giugno, a Città della Scienza, ho avuto la fortuna di partecipare alla giornata di studio organizzata da Pandora. E’ un gruppo indipendente di esperti di molteplici discipline, coordinato da Paola Dama, ricercatrice presso l’Università dell’Ohio. L’obiettivo è quello di contribuire ad una migliore conoscenza della crisi ambientale della Piana campana, alla definizione di strategie efficaci di intervento, ad una corretta comunicazione e divulgazione delle informazioni.
Ho ascoltato interventi di altissimo livello, ne ricordo solo alcuni.
Sandra Fabbri Monfardini ha spiegato assai bene i meccanismi con i quali i media possono veicolare messaggi distorti, squilibrati, infondati su un tema caldo come quello della Terra dei fuochi, lavorando tutto sull’emotività, disinnescando sostanzialmente i cervelli.
Salvatore Panico ha illustrato con magistrale chiarezza i risultati di programmi di ricerca internazionali e nazionali, cui ha preso parte, che giungono ad una stessa conclusione: il rischio di ammalarsi di tumore dipende da tante cose, ma contano molto gli stili di vita, che risentono molto a loro volta del livello di istruzione e delle condizioni sociali ed economiche. A parità di condizioni, i poveri rischiano di ammalarsi di più, ed hanno aspettative di vita inferiori. Certo anche l’ambiente ha un ruolo importante, ma viene dopo. La conclusione è che dobbiamo con urgenza, a prescindere da ogni altra considerazione, riqualificare e mettere in sicurezza il territorio. Ma se vogliamo risolvere il problema alla radice, occorrono politiche serie per abbattere le diseguaglianze, il disagio, la povertà, il bisogno.
Mario Fusco ha illustrato i dati del Registro tumori dell’ l’ASL 3 Napoli Sud, che dirige, e che comprende 1,2 milioni di abitanti della Piana campana. Una volta di più ha chiarito come l’incidenza delle malattie tumorali nell’area, da che erano più basse, si stiano allineando alle medie nazionali. La mortalità per tumore invece, seppur in discesa, è più alta della media nazionale, che sta diminuendo ad una velocità più elevata. Questo scarto tra incidenza e mortalità chiama in causa la mancata prevenzione, le prestazioni carenti del sistema sanitario rispetto ad altre parti del paese. Ad ogni modo, per capire qualcosa, è necessaria un’analisi “microgeografica” dei dati, che si sta compiendo alla scala delle singole particelle censuarie, perché le medie comunali e territoriali non raccontano niente, anzi, forniscono informazioni fuorvianti.
Massimo Fagnano ha aggiornato i presenti sui controlli previsti dal decreto “Terra dei fuochi”, e di quelli condotti da Università e Istituto zooprofilattico. I risultati conseguiti sino ad oggi evidenziano come il ruolo della filiera agricola sia stato del tutto travisato. Su più di 1.500 controlli di prodotti agricoli, neppure uno è risultato fuori legge. Quello che emerge, è che l’agricoltura della piana campana, nella crisi che stiamo affrontando, rappresenta un fattore di sicurezza e di presidio, piuttosto che un centro di rischio.
Oltre a questi, tanti altri interventi di rilievo. Penso che saranno presto disponibili in rete. E’ stata una giornata di lavoro impegnativa. Sono tornato a casa molto affaticato. Grato per aver appreso da persone serie e rigorose alcune cose, assolutamente fondamentali per capire. Grazie a tutte queste persone, grazie a Pandora.
p.s. Sono intervenuto anch’io. Le cose che ho detto sono quelle raccontate su Horatiopost, sulla dimensione territoriale della crisi. Penso si integrino bene con quelle che ho ascoltato nella giornata di studio del 26 giugno, a Città della Scienza.
Il disegno di Pandora di Hugo Pratt è tratto da http://www.cortomaltese.com
Antonio di Gennaro, 23 giugno 2014
Calma, non è successo niente. Cacciate via quel senso di smarrimento che può avervi preso a leggere di un nuovo sensazionale piano per la Terra dei fuochi (secondo “Il Mattino” del 23 giugno, “la più grande operazione di controllo e recupero di aree agricole nella storia repubblicana”, perbacco!).
Non è proprio il caso, perché il nuovo piano è identico al precedente: la minestra riscaldata è stata servita in stoviglie scintillanti, ma il sapore è lo stesso.
Quello che è accaduto in realtà è un regolamento di conti tra amministrazioni dello Stato: d’ora in poi sarà il Corpo forestale, come anelava da tempo, e non più l’Agea, l’ente nazionale che eroga i fondi agricoli europei, a coordinare i controlli previsti dal decreto Terra dei fuochi, con il centro operativo che sarà insediato a Castel Volturno, dove la forestale ha una sua struttura nazionale di formazione.
Anche l’annunciata introduzione di un meccanismo volontario di certificazione della sanità dei prodotti non è una novità, perché è già stato messo in piedi dall’Assessorato all’Agricoltura e dall’Istituto zooprofilattico, con l’utilizzo del “Qr Code”, quel geroglifico in etichetta che attraverso lo smart phone fornisce al consumatore tutte le informazioni analitiche sul prodotto.
Certo, la vicenda potrebbe avere risvolti positivi, se il Corpo forestale sarà finalmente chiamato ad attenersi al protocollo definito dal Gruppo di lavoro nazionale, ponendo così fine ai sequestri immotivati di aree agricole, come quelli di Caivano, dove attività fiorenti sono state stroncate, salvo poi scoprire che i prodotti erano sani, e che i contenuti anomali di elementi nei suoli erano quelli del valore di fondo naturale della pianura vulcanica campana.
Quel che ancora manca, nel pieno stile delle politiche placebo, così di moda in questi tempi di vacche magre, sono le risorse, gli stanziamenti necessari al finanziamento del sistema di certificazione e controllo. I risultati delle analisi sono stati annunciati per il prossimo autunno, a un anno di distanza quindi dall’emanazione del decreto Terra dei fuochi. Vedremo. La sensazione è che la crisi della piana campana, come tutte le sciagure collettive, sia stata oramai pienamente metabolizzata dall’apparato burocratico. Una sorta di “Belice ambientale”, buono a mantenere in vita gli apparati preposti, del quale difficilmente a questo punto conosceremo la fine.
L’articolo, in una versione ridotta, è stato pubblicato su Repubblica Napoli del 24 giugno 2014, con il titolo “Il piano è sempre lo stesso”.
Antonio di Gennaro 21 giugno 2014
Non poteva essere altrimenti, considerato il suo larghissimo utilizzo nel discorso pubblico: l’espressione “Terra dei fuochi” è entrata di diritto nel vocabolario Treccani, tra i neologismi. La voce è consultabile al link:
http://www.treccani.it/vocabolario/terra-dei-fuochi_(Neologismi)/
Si tratta di un classico esempio, in senso tecnico, di luogo comune, di espressione che sintetizza un insieme di credenze oramai socialmente condivise, di immediata comprensione, che non è più necessario sottoporre a verifica. Ma anche di stereotipo, di conoscenza “solida” stando all’etimo: un giudizio sintetico su un fenomeno complesso, estremamente utile per dare un senso alla realtà complicata nella quale viviamo, addirittura indispensabile nella comunicazione di massa, tutte le volte che è necessario rassicurare o all’opposto inquietare, persuadere, creare autorevolezza, dipendenza, consenso. Dallo stereotipo al pregiudizio il passo è breve, il passaggio dal livello cognitivo all’attribuzione di valore, alla formazione di un atteggiamento, di un giudizio su tutto un contesto e sull’insieme dei gruppi sociali e delle comunità ad esso collegati.
Un perfetto esempio dell’impiego odierno del luogo comune lo ha fornito il commissario dell’Arpac Vasaturo nella sua intervista al Mattino del 18 giugno scorso. Basta il titolo: «C’è un’altra Terra dei fuochi, analisi su Costiera e Cilento». Il meccanismo è questo: ci sono problemi locali che una burocrazia ambientale sbilenca e tendenzialmente screditata è chiamata ad affrontare: le emissioni di un certo impianto industriale, l’identificazione di un sito di probabile sversamento. Ma per creare sensazione, interesse, visibilità del proprio ruolo non è sufficiente chiamare le cose con il proprio nome. Meglio agganciarsi alla potenza del luogo comune. Che fingendo di spiegare, al contrario, amplia a dismisura il problema, creando nel contempo le premesse per la sua perpetua non-soluzione, e il mantenimento in vita del carrozzone burocratico preposto. E’ una brutta situazione, non ne usciamo più.
Antonio di Gennaro, 4 giugno 2014.
Strana cosa la burocrazia: nelle democrazie normali è lo strumento ordinario, magari un po’ pedante ma affidabile, per risolvere i problemi collettivi, nel rispetto della legge. Da noi no, è un labirinto, un incubo kafkiano, uno specchio oscuro dove le cose si confondono, le soluzioni si allontanano, la fiducia dei cittadini si perde. All’emanazione del decreto “Terra dei fuochi” avevamo scritto su questo giornale che si trattava di un provvedimento strampalato, con un’architettura barocca, sarebbe a dire inutilmente complicata e priva di sostanza. Con un aspetto decisivo di debolezza: la mancanza di copertura finanziaria, perché le risorse necessarie allo svolgimento delle attività previste, semplicemente non c’erano.
Una pletora di enti ed istituti al lavoro, e zero soldi. Il clamoroso stop alle indagini annunciato ieri è dovuto semplicemente a questo. Anche riguardo alla possibile presenza di rifiuti radioattivi, non ci sono informazioni nuove, o nascoste. Il protocollo del gruppo di esperti già prevedeva, tra le indagini preliminari sui 64 ettari agricoli a maggior livello di rischio, quelle radiometriche, ma il problema è che non si capisce chi dovrebbe farle e con quali soldi. Mentre, per inciso, i risultati delle analisi effettuate sino ad oggi sulle produzioni agricole coltivate in queste aree, hanno confermato una volta di più la loro completa sanità.
Il fatto è che lo Stato è sceso in campo senza una strategia unitaria, con i diversi settori dell’amministrazione – quello sanitario, ambientale ed agricolo – all’opera ciascuno per proprio conto, perseguendo obiettivi differenti, utilizzando approcci differenti, addirittura riferendosi a pezzi di legislazione differenti. Con un atteggiamento che è oscillato tra la competizione e lo scaricabarile furbesco, come se il problema, le soluzioni e le risposte da dare non dovessero avere aspetti fortemente unitari.
Quanto alla Regione Campania, ha perso una grande occasione. Invece di ripararsi sotto il cappello governativo, avrebbe potuto assumere la regia delle operazioni, accollandosi certo grandi responsabilità (e i relativi costi), con la possibilità però di ritrovare sul campo la credibilità perduta. La prudenza (e un certo cinismo) ha prevalso. Il risultato è che ora la burocrazia mostra il volto decisamente peggiore: quello dell’elusione, dell’indecisione, dell’approssimazione.
Il momento è difficile. Giunge a questo punto propizio l’appuntamento di sabato 7 giugno della Repubblica delle Idee: al Teatrino di corte, Carlo Petrini e Marino Niola, moderati da Ottavio Ragone, si confronteranno in un dibattito dal titolo “Campania Felix: oltre la terra dei fuochi”. Sarà una buona occasione per fare il punto sulla situazione, partendo dagli eccezionali valori, dalle grandi tradizioni in gioco, da una visione di futuro ancora possibile per questa terra, tutte cose che meriterebbero ben altra concretezza, spirito di servizio, coraggio.
Pubblicato su Repubblica Napoli dell’11 giugno 2014 con il titolo “Terra dei fuochi: lo Stato è scoordinato, ogni amministrazione segue la sua strada”.
Antonio di Gennaro, 26 aprile 2014
“Ogni tanto anche il buon Omero dorme”, ricordava Orazio, e allora può pure capitare che la prestigiosa rivista “Nature” incappi in qualche infortunio. L’ultimo è del gennaio scorso, con la pubblicazione di un articolo della ricercatrice giapponese Haruko Obokata, che sarebbe riuscita a produrre cellule staminali da cellule adulte, grazie ad un semplice shock acido. Grande clamore, solo che poi nessun laboratorio al mondo è riuscito a replicare l’esperimento, e l’istituto Riken presso la quale lavora la signora ha dovuto prendere le distanze e aprire un’inchiesta. Sono cose che possono succedere: d’altro canto la scienza è maestra quando coltiva il rigore del dubbio sistematico, piuttosto che l’affermazione di certezze che saranno superate dalle conoscenze di domani.
A proposito di dubbio sistematico, qualche perplessità viene dalla lettura di un commento redazionale apparso sul numero di aprile di “Nature” dal titolo “L’eredità tossica”, che riprende con sorprendente leggerezza tutto l’assortimento di luoghi comuni sulla Terra dei fuochi, sponsorizzando l’idea di fare di quest’area un grande laboratorio all’aperto per studiare l’effetto dei rifiuti sulla salute umana, con un finanziamento di alcuni milioni presi dai fondi strutturali 2014-2020.
La cosa singolare è che una proposta tanto impegnativa si basa su ipotesi sperimentali assai controverse, che riguardano la maggiore incidenza in quest’area delle malattie tumorali, e il nesso di causalità tra queste malattie e l’interramento dei rifiuti. Ora, i dati del registro tumori dicono con chiarezza che nella piana campana l’incidenza dei tumori (il numero di nuovi casi di malattia ogni 100.000 abitanti) è in diminuzione per i maschi e in lieve aumento per le femmine. E’ difficile pensare quindi che sia in gioco l’inquinamento da rifiuti perché non spiegherebbe un diverso andamento tra maschi e femmine. Sempre i dati dei registro tumori indicano invece che in Campania la sopravvivenza per gli ammalati di tumore è ridotta rispetto al Centro e al Nord Italia. Ciò significa che il problema è in una drammatica carenza di assistenza, cosa di per sé inaccettabile, ma che con i rifiuti non c’entra niente.
E’ importante a questo punto definire correttamente i termini della questione. La piana campana, dal giardino agricolo ordinato dei primi anni ’60, si è caoticamente trasformata in una oscena conurbazione di 3 milioni e mezzo di persone: una città illegale, che per tre quarti è cresciuta in barba ad ogni pianificazione. In un simile contesto, tutti i cicli produttivi e ambientali, dall’acqua ai rifiuti, non sono in regola, e questo significa che c’è una carenza strutturale di qualità urbana; che si vive male, in una condizione di eterna precarietà. I rifiuti e i roghi sono un segmento del problema, ma non spiegano tutto. Quello che occorre è un colossale intervento di rigenerazione urbana, di adeguamento dei servizi e degli standard di civiltà minima, drammaticamente carenti, e qui si che servirebbero i fondi strutturali. Insieme naturalmente ad un sistema decente di governo e presidio quotidiano di un’area metropolitana che continua ad essere gestita come una desolata terra di nessuno.
Ciò di cui non abbiamo proprio bisogno, con tutto il rispetto per “Nature”, è che studi e monitoraggi senza fine sostituiscano gli interventi, eludendo la necessità vera, che è quella di un serio investimento per il rilancio di un’area cruciale del paese. Evitando che tutto si trasformi, alla fine, in una infinita campagna di denuncia, drammaticamente monca di risposte, della quale si fatica davvero a questo punto a comprendere finalità e obiettivi.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 30 aprile 2014 con il titolo “Se i luoghi comuni contagiano “Nature””.
Antonio di Gennaro, 20 aprile 2014
“Ma allora lei è negazionista?”. La domanda mi è giunta secca, alla fine di un seminario interdisciplinare organizzato dal Dipartimento di Prevenzione dell’ASL Napoli 1 sull’emergenza nella Terra dei fuochi. Il confronto con medici e veterinari era andato molto bene, con una sostanziale convergenza, sino a quell’ultima domanda, da parte di un partecipante evidentemente poco convinto. Resto un attimo perplesso: il termine non è proprio simpatico, né neutro: nasce per qualificare l’atteggiamento degli storici che negano le colpe e i crimini del nazi-fascismo, e per questo ha una connotazione spregevole, negativa. Nel mio intervento mi ero limitato a illustrare le conoscenze agronomiche e scientifiche sull’agricoltura della Terra dei fuochi, mostrando come i dati in nostro possesso, i risultati dei controlli capillari che si stanno facendo, evidenziano come i problemi sanitari, se ci sono, non sono legati alla catena della produzione vegetale. L’agricoltura non c’entra, è un obiettivo sbagliato, anzi rappresenta un elemento d’ordine in un territorio disastrato. Il guaio è che proprio su questa errata valutazione è stato concepito il farraginoso decreto governativo, la cui attuazione, dopo la prima fase di identificazione delle aree, annaspa in modo imbarazzante.
Ma tant’è. La narrazione dominante della crisi della piana campana, il racconto di un inquinamento generalizzato, di un agricoltura avvelenata che minaccerebbe la salute delle persone, non possono essere sottoposti a verifica critica, analizzando distintamente i diversi segmenti del problema, evitando di fare confusione, e di affibbiare un marchio d’infamia infondato alle attività agricole di un’intera regione. Dissentire, dati alla mano, dal terribile racconto, significa essere negazionisti, e questo ha ripetuto nei giorni scorsi il direttore generale dell’Istituto Pascale, Tonino Pedicini, nel corso di una presentazione pubblica del libro di don Maurizio Patriciello, secondo il quale «C’è chi ha sposato un atteggiamento negazionista che non ha alcuna base scientifica. La negazione di quello che deve essere l’atteggiamento di un medico e di un uomo di scienza”. L’accusa, per quel che mi riguarda, ha aspetti sorprendenti, perché sono proprio le affermazioni fatte su un’agricoltura maledetta, prive di ogni base scientifica, ad aver messo in ginocchio fatturato e occupazione di un intero settore, con un impatto sociale, territoriale e di immagine devastante.
Se veramente vogliamo capirci qualcosa in quello che sta succedendo, sarebbe meglio lasciar perdere le parole a effetto. Il confronto critico non è negazionismo. Il vero discrimine dovrebbe essere tra chi propone percorsi e orizzonti praticabili verso la soluzione dei problemi, e chi fa solo confusione. C’è un territorio da rimettere in ordine, con un pauroso deficit di cittadinanza, al quale bisogna restituire standard di vita decenti, con politiche pubbliche di ampio respiro, senza cadere nella trappola delle bonifiche. Riflettendo possibilmente su quanto sia ragionevole protestare giustamente da un lato per l’inquinamento da rifiuti, contrastando aprioristicamente dall’altro ogni seria soluzione impiantistica, strutturale, in grado di condurre una volta per tutte la Campania fuori dalla crisi.
Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 20 aprile 2014 con il titolo “Sei negazionista, l’anatema lanciato contro chi si affida alla scienza”.
Antonio di Gennaro, 22 marzo 2014
La pubblicazione del rapporto governativo sulla Terra dei fuochi ha innescato, come era prevedibile, un acceso dibattito. Roberto Saviano, in un lungo articolo comparso lo scorso 20 marzo sull’edizione nazionale di Repubblica, ha illustrato i motivi per i quali il rapporto non costituirebbe a suo avviso una risposta adeguata all’emergenza. Il documento, secondo l’autore di “Gomorra”, tenderebbe alla fine a minimizzare la portata dei danni all’ambiente e alla salute; a ridimensionare in qualche modo l’importanza delle denunce e delle indagini sui traffici criminali di rifiuti speciali; a limitare conseguentemente l’entità degli interventi di bonifica che sarà necessario predisporre. A Saviano ha risposto, sempre su Repubblica, il ministro all’agricoltura Martina, difendendo la correttezza del rapporto, ed annunciando tra le altre cose l’estensione delle indagini ai siti ancora coperti da segreto istruttorio.
Uno degli aspetti maggiormente contestati del rapporto è la superficie delle aree sospette: nel complesso si tratta di 2.100 ettari, dei quali 920 ad uso agricolo, che rappresentano, come da più parti enfatizzato, il 2% circa del territorio investigato (108.000 ettari). Al di là delle semplificazioni, della contrapposizione priva di senso tra “apocalittici” e “integrati”, resta da stabilire in base a quale scala di valutazione sia possibile stabilire se 2.100 ettari siano da considerare pochi oppure molti. La verità è che si tratta di una superficie pari a 10 volte quella della bonifica di Bagnoli, che pure non riusciamo ancora ad affrontare: un dato drammatico, da far tremare le vene e i polsi, che è veramente difficile minimizzare; una stima che non si presta a sostenere alcuna consolatoria rilettura del trentennio di illegalità e di sfascio territoriale che abbiamo alle spalle.
Quello che si può dire, a prescindere dalle perplessità sul decreto “Terra dei fuochi” evidenziate nei precedenti interventi su questo giornale, è che alla fine i dati e gli approcci utilizzati per la stesura del rapporto governativo, devono essere considerati adeguati, alla luce degli obiettivi posti dalla legge (la caratterizzazione delle sole aree agricole), e del tempo limitato (60 giorni) che gli esperti hanno avuto a disposizione. La maglia di dati geochimici sulla qualità dei suoli che è stata impiegata è infatti estremamente dettagliata, con circa 2.500 punti di campionamento, ed anche l’identificazione dei movimenti di terra, gli scavi e le ricoperture sospetti, è stata condotta con rigore, attraverso l’analisi sistematica delle immagini aree relative all’ultimo ventennio.
Insomma, il rapporto governativo propone una misura fondata, per nulla edulcorata o “orientata” dei problemi, che certo potrà ancora essere migliorata nelle fasi successive del lavoro. Già così, rimettere le cose a posto sarà dura, e fa bene Saviano ad affermare che siamo solo all’inizio. La procedura indicata dal decreto prevede che, entro il termine di 90 giorni, sia condotta una valutazione sito-specifica del rischio sui 920 ettari agricoli, compresi i 64 ettari già sottoposti a blocco precauzionale della vendita dei prodotti, effettuando i necessari sondaggi, analizzando le produzioni agricole e il contenuto biodisponibile nel suolo dei potenziali contaminanti. In questa stessa fase, raccogliendo la sollecitazione di Saviano, meglio sarebbe estendere le indagini a tutte le aree agricole – altri 400 ettari circa – ricadenti nelle “aree vaste” del Piano regionale di bonifica, cioè nell’intorno delle grandi discariche, anticipando ciò che il rapporto governativo in verità pure prevede.
Dopo di che bisognerà definire il programma di interventi, e qui è condivisibile la posizione di esperti come Benedetto De Vivo, che proprio in considerazione dell’ampia superficie interessata, invitano pragmaticamente a privilegiare, sull’esempio delle migliori esperienze internazionali, obiettivi realistici di “messa in sicurezza” dei siti, piuttosto che di bonifica tout curt, disponendo caso per caso gli usi del suolo compatibili con il livello di contaminazione, risanando i suoli agricoli con tecniche di fitodepurazione e l’impianto di specie forestali. Si tratta di approcci a costo relativamente basso, cui il rapporto governativo fa espresso riferimento, che hanno anche il vantaggio di ridurre i livelli di rischio, evitando che una bonifica senza fine si trasformi in un lucroso affare per le stesse forze malate responsabili del disastro.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 25 marzo 2014 con il titolo “Le dieci Bagnoli della Terra dei fuochi”.
Sono gli inviti del conte zio al padre provinciale, ed è un po’ quello che dice Roberto Saviano, nel suo lungo articolo di oggi su Repubblica, del rapporto governativo sulla “Terra dei fuochi”, che avrebbe il solo obiettivo di minimizzare i problemi. In realtà gli appunti mossi sono più forti: sin dal titolo, e fino alla citazione finale che chiude l’articolo, la parola chiave è “menzogna”. L’altro concetto utilizzato è quello di “falsificazione”, con la citazione del polacco Mrozek sul “presente falsificato”, che condanna ad un futuro malato.
Il problema è capire qual è il corpo di fatti, la verità accertata che sarebbe stata minimizzata, negata, falsificata dalla menzogna.
Non ho condiviso sin dall’inizio l’impostazione del decreto “Terra dei fuochi”. Queste non sono cose che si affrontano con provvedimenti emergenziali e commissariamenti più o meno camuffati. Però so che il rapporto governativo è stato redatto con onestà e con proprietà di approcci, mezzi e strumenti. Il suo torto è quello di fornire una prima misura del problema, che è preoccupante. Due chilometri quadri di territorio da porre sotto osservazione sono una superficie ragguardevole, equivalgono a un quinto della città di Napoli, dieci volte la bonifica di Bagnoli, che pure è frutto di un secolo di siderurgia. E’ un dato che è impossibile minimizzare, prenderlo sul serio non significa cedere al “negazionismo”.
Non bisogna dimenticare una cosa. L’obiettivo del decreto era circoscritto all’identificazione delle aree agricole interessate dalla contaminazione da rifiuti. Ed è questo il lavoro che gli esperti hanno fatto, mettendo in campo i migliori strumenti e conoscenze che avevano a disposizione. Per inciso, i prodotti agricoli della piana campana sono ora i più controllati d’Italia, e sino ad ora non si è evidenziato alcun problema di sicurezza. E’ difficile affermare che la via critica che minaccia la salute sia legata al consumo delle produzioni locali. Nonostante tutti gli oltraggi, gli errori e le infedeltà, il presidio agricolo è l’elemento del sistema che sembra aver retto meglio, e questo dovrebbe essere un dato confortante, dal quale ripartire.
Ci sarà tempo ancora per ragionare su questi argomenti, in modo laico, dati alla mano, senza sentenze preventive. Su un punto Saviano ha ragione, siamo solo all’inizio, il percorso di conoscenza, per il restauro dell’ecosistema, del paesaggio e del territorio massacrato della piana campana è appena cominciato.
Vedi anche le riflessioni di Massimo Fagnano sulla sua pagina facebook
Antonio di Gennaro, 11 marzo 2014
Sono circa 920 gli ettari della pianura campana a rischio, le aree agricole sulle quali si dovrà indagare per accertare eventuali contaminazioni da rifiuti. E’ questo il dato ufficiale fornito ieri a Roma, nel corso della conferenza stampa congiunta, con la quale i tre ministri Lorenzin (sanità), Martina (agricoltura) e Galletti (ambiente) hanno presentato, con il presidente della Regione Campania Caldoro, il rapporto della commissione di esperti insediata lo scorso dicembre col decreto “Terra dei fuochi”. I responsabili dei tre dicasteri hanno nell’occasione sottoscritto un decreto interministeriale, che dispone per queste aree l’effettuazione di indagini dettagliate sui prodotti agricoli, i suoli e le falde, da completarsi entro 90 giorni. Le analisi accerteranno l’eventuale necessità di adottare misure di contenimento del rischio, che potrebbero andare dal restringimento della gamma delle colture praticabili, optando per quelle a minore capacità di assorbimento/traslocazione dei potenziali contaminanti; alla fitodepurazione con colture non alimentari; sino alle tecniche tradizionali di bonifica (soil washing ecc.) per i siti a più elevata contaminazione. Ad ogni modo, lo screening effettuato dalla commissione di esperti ha evidenziato come le situazioni più critiche si restringano a una sessantina di ettari, nei comuni di Acerra (località Calabricito), Giugliano (loc. Masseria del Pozzo), Villa Literno (loc. Soglitelle), tutte situazioni già note, per lo più ricadenti nelle cosiddette “aree vaste” del piano regionale di bonifica, nelle due versioni del 2005 e del 2013. Solo per questi 60 ettari, il decreto interministeriale prevede opportunamente, a titolo precauzionale, il divieto immediato di vendita della produzioni agricole, nelle more delle indagini dirette che saranno effettuate nei prossimi 90 giorni.
I 920 ettari agricoli a rischio costituiscono lo 0,9% della superficie territoriale dei 57 comuni delle province di Caserta e Napoli interessati dal decreto “Terra dei fuochi”, che si estende complessivamente per circa 108.000 ettari. L’identificazione è avvenuta incrociando i dati geochimici disponibili (circa 2.500 campionamenti), con l’interpretazione delle foto aeree dell’ultimo ventennio, che ha consentito di identificare gli scavi e i movimenti di terra sospetti.
I dati ufficiali presentati nella conferenza stampa di ieri confermano quanto scritto nei precedenti articoli su questo giornale: le aree agricole della piana campana interessate dal problema rifiuti sono estremamente circoscritte e limitate, non è dunque lecito parlare di un degrado generalizzato. Il profilo ambientale che emerge per questi territori, è molto simile a quelli delle altre pianure italiane ed europee a comparabile grado di antropizzazione. D’altro canto, i risultati analitici della campagna straordinaria di controlli, attualmente in corso, confermano la totale sicurezza e salubrità delle produzioni agricole, perfino di quelle coltivate nelle aree sequestrate dalla magistratura a Caivano, per le quali si è infatti resa necessaria una sostanziale retromarcia. L’ecosistema agricolo, per grazia di Dio, è una macchina assai complessa, in grado di bloccare, con una molteplicità di meccanismi, il passaggio negli alimenti dei potenziali contaminanti.
Sin qui gli aspetti positivi, se così si può dire, della vicenda. Perché per il resto, il decreto “Terra dei fuochi” è figlio del tempo che viviamo, nel quale anche la produzione legislativa sembra mirare più all’annuncio e alla rassicurazione, che a produrre risultati concreti. Così, per l’esecuzione delle analisi di controllo sui 920 ettari, il decreto non stanzia un euro, né tantomeno propone un programma dettagliato delle indagini, rimandando la palla agli esperti e ai loro Enti di afferenza (CRA, ISS, ISPRA, ARPAC), che dovranno utilizzare propri fondi, a bilancio inalterato, con la Regione Campania chiamata alla fine a rimborsare il tutto, a piè di lista. Vedremo se con soluzioni tanto improvvisate si riuscirà a centrare l’obiettivo dichiarato, quello di completare, nel tempo breve dei 90 giorni, il lavoro di caratterizzazione delle aree a rischio.
Così come restano assai vaghe le misure per mettere una volta per tutte sotto controllo pubblico ciò che rimane dell’agro campano, la grande cintura verde intorno alla città, massacrata dal disordine urbanistico, dai piani casa, dalla speculazione sfrenata, prima ancora che dai traffici di rifiuti. Vanno bene le analisi, ma qui quello manca è il governo del territorio. In queste terre in disordine, le più fertili dell’universo conosciuto, una conoscenza che non sfocia in azione, come nell’Amleto, produce solo cattivi fantasmi.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 11 marzo 2014.
Antonio di Gennaro, 13 febbraio 2014
Certo la politica, sin dai tempi del Conte di Cavour, è anche l’arte di cogliere le occasioni, le “finestre di opportunità”, come si dice. Le tragedie collettive, compresa quella della “Terra dei fuochi”, si prestano alla perfezione allo scopo: sotto la spinta della bolla emotiva e dell’emergenza, diventa improvvisamente possibile far passare decisioni pubbliche altrimenti inattuabili, che spesso con le difficoltà reali non c’entrano proprio niente. E’ quanto accaduto nei giorni scorsi, con l’annuncio dell’Assessorato regionale alle attività produttive di un sontuoso programma di comunicazione, per riscattare l’immagine delle aziende campane dell’agroindustria, travolte dalla crisi della Terra dei fuochi. Un’iniziativa che presenta molti aspetti bizzarri, a partire dal costo, che è di cinquanta milioni di euro, destinati all’organizzazione di eventi, alla partecipazione a fiere e mostre, al lancio di campagne promozionali, con aiuti distribuiti in larga misura sotto forma di vaucher per le aziende.
Restano paradossalmente fuori le aziende di produzione agricola, cioè quelle più danneggiate dalla crisi, e l’intervento si configura allora come un generosissimo sostegno al settore della comunicazione e della pubblicità. Per comunicare cosa, non è assolutamente chiaro, considerato che la maniera migliore di rassicurare il consumatore dovrebbe essere quella di procedere ad interventi concreti, impiegando una cifra così ragguardevole per farle veramente le bonifiche, anziché raccontarle. Oppure per attuare su vasta scala progetti seri, come quello pure presentato nei giorni scorsi, di etichettatura dei prodotti campani con il Qr-code, quello strano geroglifico, che inquadrato con lo smart phone, consente di visibilizzare istantaneamente sullo schermo del tuo telefonino vita, morte e miracoli del prodotto che stai acquistando, compresi i certificati di analisi, la localizzazione dell’azienda, finanche la foto dell’agricoltore.
Altro esempio di progetto faraonico, frettolosamente intrapreso sull’onda della crisi, è quello per lo screening sanitario della popolazione, un’iniziativa aspramente criticata dagli specialisti, fumosa negli obiettivi come nei risultati attesi, per la quale dovrebbe arrivare dallo Stato un finanziamento di venticinque milioni, ma qui ha ragione il presidente Caldoro, che preferirebbe venisse invece evitato il taglio di quattrocento milioni ai trasferimenti per la sanità, con la riduzione all’osso dei servizi di base per i cittadini campani, che rappresentano la prima ed essenziale forma di prevenzione.
Cinquanta più venticinque fanno settancinque milioni, una cifra incredibile in questi tempi di crisi e di revisione della spesa. Risorse cospicue, che indirizzate su obiettivi concreti, contribuirebbero a risolvere alla radice i problemi, e che vengono mestamente impiegate per politiche placebo o elettorali. Tutti soldi letteralmente buttati dalla finestra, di opportunità s’intende.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 15 febbraio 2014 col titolo “Terra dei Fuochi, 75 milioni buttati”.
Antonio di Gennaro, 1 febbraio 2014
Dunque l’aura di bonomia che sprizza dagli spot pubblicitari era tutta una montatura, il capitano che dispensa bastoncini non è poi tanto saggio, se la Findus ha deciso di sospendere a titolo precauzionale gli acquisti di ortaggi della piana campana. Per gli altri territori della regione il conferimento dei prodotti è condizionato ad una tale mole di analisi e accertamenti a carico del produttore, da renderlo impossibile, la Campania di fatto è estromessa dalle forniture. Atteggiamento diametralmente opposto quello del gruppo Coop, secondo il quale la Campania continua ad essere “terra di eccellenti produzioni di qualità ed è sbagliato allargare il problema di una zona a tutta la regione… Abbiamo compiuto una campagna straordinaria di controlli sui prodotti ortofrutticoli provenienti in particolare dalla cosiddetta “terra dei fuochi” e i risultati sono molto buoni. Pertanto rassicuriamo i soci e i consumatori”.
Il mercato è libero, ci mancherebbe, ognuno è padrone di fare quel che vuole, ma una cosa è chiara: decidere il blocco degli acquisti dei nostri prodotti ortofrutticoli, per motivi precauzionali (sino ad oggi nemmeno un campione commercializzato è risultato contaminato), è un provvedimento di facciata, un modo simbolico di rassicurare il consumatore atterrito dalla tempesta mediatica (secondo una ricerca Datamedia il 75% dei consumatori italiani avrebbe deciso di non comprare più campano). Il risultato vero è quello di prostrare migliaia di produttori onesti, costretti a svendere produzioni di qualità, che saranno magari immesse nei circuiti commerciali sotto mentite spoglie.
I nostri prodotti sono sicuri, ma in questo momento appare impossibile svincolarsi dalla ferrea equazione ben descritta da Ugo Leone nel suo articolo su Repubblica Napoli di venerdì 29 gennaio, che lega in una tragica catena, tutta da dimostrare, i rifiuti, l’agricoltura, la salute delle persone. Eppure, pezzi di ragionamento iniziano ad emergere. Nel suo intervento al recente convegno organizzato dal gruppo Pandora a Città della Scienza, Mario Fusco, il direttore del Registro tumori dell’Asl Napoli 3, nel cui territorio ricade gran parte della piana campana, ha spiegato come, secondo i dati ufficiali, l’incidenza delle malattie tumorali in quest’area è in linea con quella nazionale, ma la mortalità è superiore. Questo significa che ci si ammala allo stesso modo, ma si muore di più.
E’ questa allora la vera faccia del dramma, quella di un’area metropolitana senza regole, dove l’assistenza al cittadino, gli indici di qualità della vita e di civiltà minima sono al fondo delle graduatorie nazionali ed europee e dove, paradossalmente, l’agricoltura era tra le poche cose a funzionare. Se questo è il quadro, con il decreto “terra dei fuochi”, come si è cercato di illustrare nei precedenti interventi su questo giornale, il governo rischia di fare lo stesso errore di Capitan Findus: quello di ripiegare su politiche simboliche, che non sfiorano le cause strutturali del disagio, della discriminazione, di un disordine territoriale divenuto oramai inaccettabile per gli abitanti, come per l’opinione pubblica globale.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 05 febbraio 2014 con il titolo “L’errore della Findus la lealtà della Coop”.
L’illustrazione: Captain Findus visto da Cavalars
Antonio di Gennaro, 17 gennaio 2014
Alla fine, con l’ultima versione del decreto “Terra dei fuochi”, siamo passati dal blitzkrieg, dalla guerra lampo, a quella di posizione: rispetto alla stesura iniziale, i meccanismi di attuazione, se possibile, si complicano ancor di più, mentre si moltiplicano gli studi propedeutici, c’è n’è per molti istituti nazionali, tutti operosamente alla ricerca di lavoro. Come c’è il notevole investimento (3 milioni) sul telerilevamento, l’occhio di Ismaele che dovrebbe scovare dall’alto i siti contaminati. Peccato che queste informazioni già abbondino per la piana campana e, come magistralmente illustrato su queste pagine da Benedetto De Vivo, nel nostro caso servano a poco.
Tutto questo mentre gli amici epidemiologi mi spiegano avviliti come lo screening della popolazione, che costerà alcune decine di milioni, così come proposto dal decreto, potrà tranquillizzare qualcuno, ma non porterà a nulla. Perché i test di massa hanno senso quando consentono una diagnosi rapida, sicura e precoce di una patologia specifica ed efficacemente trattabile, come per il tumore alla mammella, al collo dell’utero, al colon. In questo caso, invece, non è chiaro cosa si vada a cercare, e cosa si dirà poi alle persone.
Quanto all’impiego dell’esercito, cosa dire, male non fa, anche se resta da capire quanto queste esibizioni muscolari temporanee dello stato contribuiscano a supplire, in progresso di tempo, all’incapacità di amministrazioni e comunità locali di tenere in ordine i propri territori.
Infine, non manca nemmeno la relazione semestrale al parlamento, ed è questo il segno certo che la crisi è stata oramai metabolizzata dall’apparato burocratico, e si presta ad essere trattata alla stregua di tutte le altre ordinarie tragedie di questo paese, in un tran tran che potrà durare anni, del quale è importante cogliere tutte le opportunità spicciole, poco importa se nel frattempo un’intera regione rimane sospesa, in attesa di giudizio.
Eppure le priorità di intervento, le aree da mettere in sicurezza le conosciamo da quasi un decennio, senza bisogno del satellite o di raffinate esercitazioni accademiche, sono tutte ben individuate nel Piano regionale di bonifica, al di là dei diversivi contenuti nel decreto, e la situazione allora è simile a quella di un poveretto che giunga ad un pronto soccorso con evidenti ferite da proiettile, e venga curato con un collirio o un’aspirina.
Mentre scrivo, mi telefona un amico per darmi in anteprima la notizia del dissequestro delle produzioni agricole di Caivano: dopo tanto clamore, le analisi ufficiali dicono che quegli ortaggi sono a posto, l’agricoltura c’entra ben poco, ma il danno oramai è fatto, la quota di mercato della nostra orticoltura di qualità è fortemente a rischio, le aziende agricole stanno chiudendo.
La cosa curiosa è che tutto questo ambaradan è pagato con i soldi della Campania. Almeno prima con i commissariamenti (e quello introdotto dal decreto di fatto lo è) arrivavano anche le risorse: al di là dei risultati, che non interessavano nessuno, c’era almeno da scialare. Ora, invece, c’è solo un’attestazione di minorità e inaffidabilità a tempo indeterminato, forse ce la siamo meritata, ma non serve a niente.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 18 gennaio 201. Illustrazione di Attilio Mussino (da http://principieprincipi.blogspot.it)
Antonio di Gennaro, 6 gennaio 2013
Ha perfettamente ragione Raffaele Cantone nella sua intervista a Conchita Sannino, quando afferma che “c’è bisogno che le istituzioni riprendano in mano il pallino delle decisioni”. Il fatto è che per agire bisogna disporre della conoscenza, della credibilità e del potere necessario, e tra questi ingredienti non è certo il primo a difettare. Innanzitutto, disponiamo di adeguate conoscenze su quello che è l’epicentro della crisi, gli ottocento ettari di terre di desolata pertinenza delle grandi discariche della piana campana, che il Piano regionale di bonifica ha diligentemente perimetrato sin dal 2005. Ottocento ettari abbiamo detto, una superficie paragonabile a quella di un grande impianto industriale, non quindi la generalità del territorio. Nei giorni scorsi i ricercatori della Federico II hanno pubblicato in rete (l’indirizzo del sito è www.ecoremed.it) cartografie estremamente dettagliate dello stato di salute dei suoli agricoli dell’intera piana campana, frutto di più di 3.000 campionamenti. Si tratta per inciso di conoscenze non disponibili, con dettaglio comparabile, per nessun’altra area geografica, a scala nazionale e continentale. Il profilo ambientale della piana campana che ne esce è del tutto simile a quello delle altre pianure italiane ed europee ad elevata antropizzazione. Non dimentichiamo che sui suoli vulcanici fertili della fascia costiera abitano quattro milioni e messo di persone, all’interno un’area metropolitana tra le più scombinate del mondo. Ed è questo il punto. Il sacrosanto furore civile dei comitati, che per la prima volta hanno assegnato un ruolo politico all’hinterland, nel passato sempre subordinato alle vicende di un capoluogo incapace di visione e di leadership, deriva da quello che Fabrizio Barca definirebbe come un drammatico deficit di cittadinanza. Stiamo parlando di una parte d’Italia dove tutti gli indicatori di prestazione sanitaria, educativa, ambientale, economica e civile sono clamorosamente carenti. Da questo punto di vista, con l’infelice slogan “terra di fuochi” si connota più o meno consapevolmente una patologia complessiva che affligge uno dei sistemi urbani più sofferenti del cosiddetto mondo civilizzato. Se questo è il problema, se queste sono le conoscenze disponibili, le difficoltà come ha sottolineato Cantone sono tutte di carattere decisionale. Oggi si tengono in Senato le audizioni pubbliche per recepire le proposte di modifica al decreto governativo, avanzate da associazioni e comitati. Speriamo siamo utili a comprendere che il problema non è il deficit di conoscenza ma l’inconsistenza delle politiche pubbliche per il Mezzogiorno, insieme alla fragilità dei poteri locali, che dovrebbero essere sostenuti, forzati magari ad esercitare le proprie prerogative, evitando le forme sterili di commissariamento che il gracile dispositivo attualmente propone.
Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 7 gennaio 2014 con il titolo “Terra dei fuochi, la crisi in un’area di 800 ettari”.
Ha ragione il Professore, è meglio andare.
Antonio di Gennaro, 4 dicembre 2013
S’è completamente dimenticato del “Rasoio di Occam” l’estensore del decreto del 2 dicembre sull’emergenza rifiuti nella piana campana: il principio secondo il quale è sempre meglio evitare, nella risoluzione dei problemi, la moltiplicazione non necessaria degli enti. Il provvedimento è infatti basato su un’architettura barocca fatta di comitati e commissioni inter-ministeriali, con il supporto di una nutrita schiera di enti nazionali di ricerca e dell’Arpac, chiamati a produrre un intreccio aggrovigliato di indirizzi, decreti, studi, relazioni, programmi straordinari di intervento, in un meccanismo a cascata, in apparenza serrato, che rischia, per come funzionano poi queste cose nella realtà, di durare anni.
Anche l’obiettivo finale, in apparenza chiaro, di identificare con decreto del governo nazionale “i terreni della regione Campania che non possono essere destinati alla produzione agroalimentare”, in quanto “interessati dagli effetti contaminanti di sversamenti e smaltimenti abusivi, anche mediante combustione”, appare mal formulato. La realtà è diversa, e necessita di una strategia di intervento ben più lineare. Certo, c’è sempre da studiare e approfondire, ma il cuore del problema è già correttamente identificato nel Piano regionale di bonifica dei siti inquinati, nelle due versioni del 2005 e del 2013, ed è costituito dalle “aree vaste”: i grappoli micidiali di discariche della piana tra Napoli e Caserta, che hanno inghiottito per un trentennio rifiuti urbani e industriali, fungendo da principale recapito dei traffici leciti e illeciti. Stiamo parlando di 800-900 ettari da mettere urgentemente in sicurezza, una superficie paragonabile a quella dell’Ilva di Piombino, senza perder altro tempo, sviluppando ulteriormente l’approccio già messo a punto dal Commissario di governo per le discariche di Giugliano, ed applicato nei lavori , in corso di affidamento, di messa in sicurezza della discarica ex-Resit. Si tratta di isolare e impermeabilizzare queste aree, piantandoci alla fine sopra dei boschi di protezione ecologica, che riqualificano anche il paesaggio, e tutt’intorno delle fasce verdi no food per l’ulteriore assorbimento dei potenziali inquinanti.
Questa parte del lavoro va fatta subito, non ci sono ragioni per procrastinare, né l’esigenza di attendere l’esito di studi e accertamenti in corso: bisogna attuare celermente il piano che la Regione si è già data, e dovrebbe essere questo il vero obiettivo del decreto, piuttosto che l’ideazione di un imponente marchingegno burocratico, come se fossimo all’anno zero, e la situazione ci fosse completamente sconosciuta.
Così com’è scritto il decreto si presenta come un commissariamento tout court, da parte del governo di Roma, dei poteri locali, però utilizzando i loro fondi, e la cosa potrebbe anche essere giustificata dall’inazione che ha caratterizzato l’ultimo quindicennio, nel corso del quale la filiera Regione-Province-Comuni si è dimostrata incapace di governare e contrastare questi fenomeni, seppur noti nelle loro linee fondamentali, anche se il giudizio va necessariamente esteso a importanti pezzi dell’apparato investigativo e repressivo dello Stato centrale. Eppure, questa strada di deresponsabilizzazione non convince, perché alla fine sono le capacità locali di governo e controllo del territorio che vanno potenziate, al di là dell’introduzione delle nuove fattispecie di reato, degli inasprimenti delle pene, di tutte quelle cose insomma che, da sole, troppo somigliano a vane grida manzoniane.
Pubblicato su Repubblica Napoli, venerdì 6 Dicembre.







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