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Una raccolta dei testi dalla pagina facebook “6000 sardine”
Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita.
Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla.
Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare.
Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara.
Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete.
Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare.
Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. E’ stata energia pura. Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi.
Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto.
Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie.
Non c’è niente da cui ci dovete liberare, siamo noi che dobbiamo liberarci della vostra onnipresenza opprimente, a partire dalla rete. E lo stiamo già facendo. Perché grazie ai nostri padri e nonni avete il diritto di parola, ma non avete il diritto di avere qualcuno che vi stia ad ascoltare.
Siamo già centinaia di migliaia, e siamo pronti a dirvi basta. Lo faremo nelle nostre case, nelle nostre piazze, e sui social network. Condivideremo questo messaggio fino a farvi venire il mal di mare. Perché siamo le persone che si sacrificheranno per convincere i nostri vicini, i parenti, gli amici, i conoscenti che per troppo tempo gli avete mentito. E state certi che li convinceremo.
Vi siete spinti troppo lontani dalle vostre acque torbide e dal vostro porto sicuro. Noi siamo le sardine, e adesso ci troverete ovunque. Benvenuti in mare aperto.
“E’ chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce. Anzi, è un pesce. E come pesce è difficile da bloccare, perché lo protegge il mare. Com’è profondo il mare”.
15 novembre
Ieri in quella piazza è cambiato qualcosa. Abbiamo ripreso ciò che ci appartiene utilizzando mezzi che il populismo non conosce: la gratuità, l’arte e le relazioni umane. Per noi l’emozione è stata grande ma sappiamo che non siamo stati gli unici ad emozionarsi. I giornali e le radio ci fanno tante domande a cui non sappiamo rispondere. L’unica certezza è che siamo una grande famiglia e che faremo grandi cose insieme. Questa pagina sarà la nostra casa, invitate chi è pronto a rimboccarsi le maniche. Non mollateci sul più bello.
18 novembre
Tutte le forme di protesta fanno paura. Soprattutto se partono dal basso sfruttando mezzi che la retorica populista non conosce. Il silenzio delle sardine è stato assordante. Perché eravamo una marea e perché avevamo il sorriso sulle labbra mentre gli altri gridavano rabbiosi. Siamo partiti dal basso che più basso non si può. E per questo siamo vulnerabili. I nostri avversari lo sanno e hanno già attivato la macchina del fango. Ci accusano di essere assassini, figli di papà, cazzari. Ci accusano di non esistere. Vorrebbero non esistessimo. Perché se non ci fossimo, la pancia continuerebbe a prevalere sulla testa. Avevamo già detto che sarebbero stati tempi duri e che non si sarebbe tornati indietro. Ora abbiamo due possibilità. Tornare a nasconderci dietro responsabilità altrui oppure rispondere alla chiamata del vivere civile e democratico. Rispondere con i mezzi che hanno aperto un primo squarcio. Essere presenti a Modena oggi, premiando lo sforzo di due ragazzi ventenni che ci stanno dando l’anima.
Pensano che la pioggia ci fermerà, ma si sbagliano. Si illudono che l’odio in rete ci farà tremare. Non hanno capito. La risposta spetta a noi. Se vogliamo possiamo. Troviamo un ombrello, un impermeabile e trasformiamoci in Sardine di piazza. Silenziose ma inarrestabili. Un’altra piazza piena sarà semplicemente… bellissima. Cambiamo una storia durata troppo a lungo.
19 novembre
Le piazze fanno paura.
Perché sono piene di gente.
Perché sono libere.
Perché hanno rovinato il tappeto rosso che la Lega si era steso in Emilia Romagna. Ma questo è un bene, perché vuol dire che la società civile si è risvegliata dal torpore e che non si piega. All’inizio nessuno si era accorto delle sardine. Oggi ci sono circa 40 piazze pronte a reagire spontaneamente alla retorica del populismo con la creatività e il sorriso sulle labbra.
Ma questo ha un costo.
I 4 promotori sono diffamati ogni giorno da alcuni organi di stampa e televisioni che fanno da cornice perfetta all’avanzata della destra populista. Tutti i profili facebook degli organizzatori delle piazze sono sotto assedio. Un assessore di Pianoro (Bologna) è stata minacciata di morte dopo che Salvini l’ha messa alla gogna sulla sua bacheca degli orrori, per la sola colpa di aver partecipato alla manifestazione e di essere impegnata politicamente. Una delle due promotrici di Modena (21 anni) ha dovuto oscurare tutti i suoi account ed è assediata da giornalisti, nonostante ieri il portavoce del flash mob bolognese avesse già espresso le scuse da parte delle sardine e condannato il suo post. Su twitter e facebook si moltiplicano gli account falsi che approfittano dell’immagine delle sardine per seminare odio e sminuire il potente messaggio che le piazze stanno lanciando.
Del resto chi siamo noi? Siamo semplici sardine che da un concetto semplice hanno risvegliato un grande movimento democratico che in meno di due settimane si appresta a portare decine di migliaia di liberi cittadini nelle piazze a dire NO allo schifo che viene gettato addosso all’essenza della democrazia: la partecipazione.
Diffidate dei profili fake, questo da cui scriviamo è l’unico account ufficiale.
La mail 6000sardine@gmail.com è l’unico mezzo per contattarci.
Durante il giorno dobbiamo anche cercare di lavorare e quindi scusateci se a volte le risposte arrivano in ritardo. Grazie per i numerosi messaggi di sostegno (e le richieste di aiuto) che stanno arrivando. Stiamo cercando di organizzarci per fare in modo che tutte le manifestazioni siano coerenti con il messaggio che abbiamo voluto dare.
Per tutti gli organizzatori di flash mob “6000 sardine” già organizzati: prendete contatto con noi, state attenti a esporvi, mettete profili privati, cambiate (e rafforzate) le password di tutti gli account e-mail e social e siate cauti nel rilasciare interviste a tv e stampa.
Per tutti gli aspiranti organizzatori: siete preziosi, ma proprio perché vi vogliamo bene non abbiate fretta. Prendete contatto con noi, aspettate a lanciare nuovi flash mob perché andrete incontro a un sacco di rischi e la vostra vita privata rischia di essere compromessa.
Queste sono solo alcune delle lezioni apprese in pochi giorni di partecipazione alla vita democratica del paese.
È uno schifo, lo sappiamo, ma del resto è anche colpa nostra che ci siamo svegliati così tardi.
20 novembre
Per chi se lo fosse perso, ecco il discorso che abbiamo letto in Piazza Maggiore:
Bologna, 14 novembre, ore 20.45
La prima notizia è che abbiamo vinto. Magari non abbiamo vinto la guerra ma chi ben comincia è a metà dell’opera. La seconda che non è un caso che la più forte risposta al populismo e alla retorica dell’odio sia arrivata proprio da Bologna e dall’Emilia Romagna. Una terra fondata sull’inclusione, sullo studio, sul lavoro, sul volontariato. Purtroppo la nostra comunità è sotto attacco da parte di una forza che ritenere politica è un’offesa alla politica. Dopo aver strumentalizzato i migranti, i cristiani e le persone fragili ora è il nostro turno nel tritacarne mediatico di Matteo Salvini e i suoi accoliti.
Eppure ci fa bene, perché dormivamo da tanto. Alzino la mano quelli che non scendevano in piazza da anni. Alzino la mano quelli che stavano a casa a criticare e lamentarsi invece che rimboccarsi le maniche. Alzi la mano chi ha disegnato una sardina dopo anni che non disegnava niente. Ecco che allora la prima lezione è per noi. Illudersi che tutto cambi senza che noi per primi si muova un dito è un’illusione.
La terza notizia è che ci aspettano due mesi duri come la nostra generazione non ne ha mai vissuti. I nostri avversari giocano sporco, sono potenti, hanno un sacco di soldi che nessuno sa da dove vengano, hanno troll e robot che invadono i social e influenzano la vita democratica di un paese che dovrebbe aspirare al meglio.
La quarta notizia è che c’è speranza e che non siamo soli. Il nostro appello è stato raccolto da molti, tantissimi. La maggior parte dei quali è qui presente stasera. E con un’altra parte non meno importante che ci sostiene da casa e da tutta Italia guardando con fiducia alla nostra comunità. Negli ultimi giorni abbiamo scritto una nuova storia sui social network. Oggi abbiamo fatto qualcosa che tutti, compresi i nostri avversari, ritenevano impossibile. Non solo abbiamo decuplicato i numeri di Salvini su facebook, ma li abbiamo raddoppiati nella realtà, perché siamo in 100.000! (gag). A nulla sono serviti i cartelloni che ci assillano da settimane, a nulla i proclami sulla liberazione dell’Emilia Romagna, a nulla i pullman che sono arrivati dalla Lombardia, dal Veneto e dal Trentino. Oggi abbiamo stravinto. Li abbiamo disintegrati con mezzi che loro non conoscono: la gratuità, l’arte, il sorriso e le relazioni umane.
E vorremmo invitare tutti quelli che ci hanno criticati per il fatto che eravamo “contro” e non a favore di qualcosa, li vorremmo invitare a guardare questa piazza. Vi sembra una piazza contro? Vi sembra una comunità che non ha argomenti? Vi sembra un messaggio privo di contenuti?
La quinta ed ultima notizia è che se lo vogliamo questo sarà solo l’inizio. In sei giorni abbiamo dimostrato che non esiste bestia abbastanza potente da arginare il pensiero, le idee e le persone vive. Non esiste pirata abbastanza affamato di potere quando di fronte vi è una comunità libera, inclusiva, creativa e resistente.
Ed è davvero così, se lo vogliamo il populismo è già finito. Se lo vogliamo la stagione delle bugie potrà dirsi conclusa. Se lo vogliamo la testa sarà più forte della pancia. Se lo vogliamo la politica tornerà ad essere una cosa seria. E a questo proposito ci sentiamo di fare un appello. Non lasciate soli i nostri politici. Perché hanno bisogno di noi. Si fanno una vita di inferno per difendere il nostro territorio e per far vivere una vita migliore ai nostri figli, sono loro in prima linea. Ringraziamoli invece che accusarli costantemente.
In molti avete chiesto di continuare questa avventura, di vincere anche le prossime battaglie. Sicuramente ripeteremo l’invasione delle sardine anche in altre città della nostra regione ed avremo bisogno di voi. Non sarà facile ma ce la metteremo tutta per portare il messaggio di speranza lanciato da questa piazza in tutti i territori di questa regione.
Per il momento siate orgogliosi di aver preso parte ad un’azione folle, democratica e rivoluzionaria.
Da domani potrete raccontare a tutti di quella volta che una sardina ha sconfitto un pirata.
22 novembre
Libertà, relazioni umane, sorrisi e partecipazione, questi sono i valori che le sardine porteranno in Piazza Mercanti a Milano il 1° Dicembre alle ore 17:00
Nessuna bandiera, ci sarà spazio per tutti coloro che vorranno stringersi in un grande abbraccio!
23 novembre
In vista dei numerosi eventi spontanei che avranno luogo nelle piazze d’Italia, ricordiamoci di mettere al centro i valori che animano la partecipazione!
- I NUMERI valgono più della propaganda e delle fake news, per questo dobbiamo essere in tanti e far sapere alle persone che la pensano come noi che esiste questo gruppo;
- È possibile cambiare l’inerzia di una retorica populista. Come? Utilizzando arte, BELLEZZA, non violenza, creatività e ascolto;
- La testa viene prima della pancia, o meglio, le EMOZIONI vanno allineate al pensiero critico;
- Le PERSONE vengono prima degli account social. Perché? Perché sappiamo di essere persone reali, con facoltà di pensiero e azione. La piazza è parte del mondo reale ed è lì che vogliamo tornare;
- Protagonista è la piazza, non gli organizzatori. Crediamo nella PARTECIPAZIONE;
- Nessuna bandiera, nessun insulto, nessuna violenza. Siamo INCLUSIVI;
- Non siamo soli ma parte di RELAZIONI UMANE. Mettiamoci in rete;
- Siamo vulnerabili e accettiamo la commozione nello spettro delle emozioni possibili, nonché necessarie. Siamo EMPATICI;
- Le azioni mosse da interessi sono rispettabili, quelle fondate su gratuità e generosità degne di ammirazione. Riconoscere negli occhi degli altri, in una piazza, i propri valori, è un fatto intimo ma Rivoluzionario;
- Se cambio io, non per questo cambia il mondo, ma qualcosa comincia a cambiare. Occorrono SPERANZA e CORAGGIO
23 novembre
Marsala non si lega e scende in piazza per dimostrare che esiste un’opposizione reale, giovane, numerosa e desiderosa di riconquistare un diritto fondamentale quello di manifestare nelle piazze.
24 novembre
Reggio Emilia.
I nostri mari non saranno mai più vuoti.
“Frattanto i pesci
Dai quali discendiamo tutti
Assistettero curiosi
Al dramma collettivo
Di questo mondo
Che a loro indubbiamente
Doveva sembrar cattivo
E cominciarono a pensare
Nel loro grande mare
Com’è profondo il mare
Nel loro grande mare
Com’è profondo il mare”
26 novembre
Care sardine,
nonostante il segnale che le piazze stanno dando, c’è ancora chi si ostina nel tentativo di semplificare e dividere, di opinare senza partecipare.
Potrà essere detto di tutto, ma le sardine nuotano in acque meno superficiali.
Il mare è molto profondo e nella profondità c’è maggiore libertà.
Armiamoci di lanterna e rimaniamo vigili.
Lassù c’è molta luce, ma è anche più facile abboccare.
27 novembre
La politica dell’odio e dell’aggressività si è sviluppata anche attraverso alcuni salotti televisivi creati ad hoc per fornire ai propri telespettatori un dibattito sterile, parziale e demagogico. Per questo motivo scegliamo con cura le trasmissioni in cui andiamo per raccontare quanta meraviglia e complessità ci sono nelle nostre piazze.
Non facendo politica in senso stretto non partecipiamo ai dibattiti tra politici.
E ovviamente ci teniamo alla larga da quelle trasmissioni che hanno sdoganato termini come culattone, terrone o “consenziente”.
In sostanza, in certi programmi di Rete4 non ci vedrete mai.
E comunque le nostre sardine saranno ospiti a “Piazza pulita” su La7, giovedì sera. Lorenzo Donnoli e Jasmine Cristallo vi racconteranno come procede la nostra nuotata in mare aperto…
28 novembre
Carissime sardine,
l’onda che abbiamo generato è nella sua fase più potente.
A partire da oggi e per tutto il week-end scenderanno in piazza 21 città.
Con una sardina in mano e il sorriso sulle labbra.
Da Taranto a Firenze, dall’Isola della Maddalena alle roccaforti leghiste del nord, da Napoli a Ferrara.
Sono piazze spontanee, una bocca che aspettava di essere interpellata per poter gridare.
È un momento storico per il futuro delle nostre comunità e della nostra democrazia. Qualcosa che non era mai accaduto in questa generazione. Ed è ora che tutti facciano una scelta. Perché il tempo di stare a guardare è finito.
Quest’epoca di divisioni, di aggressività gratuite, di insulti alla persona e al pensiero complesso è durata fin troppo a lungo. Non abbiamo studiato, lavorato, contribuito a rendere le nostre comunità migliori per farci prendere in giro da chi preferisce gli interessi elettorali alla sensibilità delle persone.
Per tutti coloro che hanno subito violenze fisiche e verbali.
Per gli emarginati e per tutte quelle categorie sociali che sono state strumentalizzate per una manciata di voti in più.
Per chi si è visto sminuire semplicemente perché ha espresso un’idea di società diversa.
Per noi che abbiamo il dovere di metterci il corpo, le mani e il cervello.
Da oggi se lo vorremo non saremo più soli, non avremo più paura, torneremo ad essere protagonisti.
E a chi vi dice che durerà solo un giorno ditegli che anche a Bologna ci avevano detto lo stesso.
Fidatevi di voi stessi.
Tornate ad esserci.
La piazza vi aspetta,
e vi spetta.
30 novembre
stiamo ricucendo la ferita di quel tessuto sociale che qualcuno ha voluto lacerare per una manciata di voti in più.
Che la terapia abbia inizio.
E Taranto sarà un passaggio cruciale.
C’è chi taglia.
Noi cuciamo.
2 dicembre
Anche ieri l’Italia si è unita in un grande abbraccio.
Da Sud a Nord, con il sole e con la pioggia battente, cantando, raccontando storie, sorridendo, applaudendo, commuovendosi.
“Libertà è partecipazione”
2 dicembre
C’è chi critica le sardine per la loro mancanza di “contenuti”.
Le sardine ascoltano sorprese.
Ricordano piazze vuote. Ora le vedono piene.
Piene di persone in carne e ossa.
A contarle quasi non ci riesci per quante sono.
E CONTARE è anche il loro desiderio: contare nella collettività, nella fiducia l’una sull’altra.
Vogliamo darci da fare anche in un altro modo, dare voce e sostegno ai tanti progetti sociali che da tempo nuotano nella nostra stessa direzione. Ce ne occuperemo con cura, partendo da ora con questo primo progetto.
Sono state cucite delle sardine con materiali di recupero e stoffe africane. Piccoli oggetti concreti, come il lavoro necessario per realizzarli.
Lavoro di richiedenti asilo che, imparando una professione, conquistano ogni giorno la loro integrazione e ce la consegnano nelle mani.
Acquistando qui la tua sardina https://vicinidistanti.com/ :
– Contribuirete al progetto di promozione sociale portato avanti dalla sartoria Vicini d’Istanti che offre opportunità d’inserimento lavorativo ai richiedenti asilo
– Sosterrete un progetto della Caritas dedicato ai rifugiati (assistenza legale e prestito fiduciario per il sostegno dell’affitto)
– Aiuterete il gruppo 6000 sardine a coordinare le iniziative sul territorio;
L’Italia non si lega.
Si stringe attorno alla politica…
E si circonda di bellezza.
3 dicembre
E’ giunto il momento di alzare la testa, in maniera pacifica.
Nessun colore politico, nessuno slogan “contro”.
Solo noi, la nostra presenza e la nostra unione!
6 dicembre
Riconoscere i propri valori negli occhi degli altri, in una piazza, è un fatto intimo ma rivoluzionario!
8 dicembre
Ieri sera, in 15 città di tutta Italia, migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere una trasformazione del linguaggio politico, cantando a favore dell’integrazione, della collettività, dei diritti umani e del rispetto verso la Politica (con la P maiuscola)
10 dicembre
Le piazze delle sardine si sono fin da subito dichiarate antifasciste e intendono rimanerlo.
Nessuna apertura a CasaPound, né a Forza Nuova. Né ora né mai.
Dal 14 novembre scorso centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza proprio contro quei partiti che con le idee e il linguaggio dei gruppi neofascisti e neonazisti flirtano in maniera neanche troppo nascosta.
Stephen Ogongo ha commesso un’ingenuità. Ci dispiace che il concetto di apertura delle piazze sia stato travisato e strumentalizzato, ma non stupisce. In questo momento le piazze fanno gola a molti, lo avevamo già detto e lo ripetiamo. Rammarica che questo fraintendimento sia cavalcato da più parti. Ma è giusto dare una risposta netta.
Le sardine sono antifasciste.
Le sardine continueranno a riempire le piazze.
Si decida da che parte stare. Noi lo abbiamo già fatto.
Andrea, Giulia, Mattia, Roberto e tutte le sardine
14 dicembre
Viviamo sulla Terra come fosse un Oceano.
Vedremo vasti orizzonti, non confini.
Ascolteremo il vento, non insulti.
Sentiremo ciò che vogliamo… ma non la paura.
Non ciò che vogliono che noi sentiamo.
Benvenuti in mare aperto.
15 dicembre
Dialogo.
Per riassumere in una parola cosa è successo nel primo “congresso” delle Sardine basta una parola. Che passa dall’ascolto, dall’empatia, dalla non violenza, dall’accettazione delle diversità. E da un obiettivo comune: tornare sui territori subito. Continuare a presentare un’alternativa alla bestia del sovranismo e alle facili promesse del pensiero semplice. Continueremo a difendere la complessità. E lo faremo in maniera semplice, gratuita, creativa. L’obiettivo delle persone che vedete in questa foto non è decidere o comandare. Ma coinvolgere. Se lo vorrete ci rivedremo presto. Basterà accettare ancora una volta l’invito. Basterà uscire dal mondo digitale. Basterà decidere chi volete ascoltare.
Noi siamo qui.
Ci saremo sempre.
Non ci lasciate soli.
Non ci lasciamo soli.
Roma, 15 dicembre 2019
Il nostro prossimo passo è tornare sui territori. Con iniziative che saranno realizzate in tutte le regioni d’Italia, liberando la creatività, valorizzando l’arte, favorendo l’interazione fisica fra i corpi.
Decine di iniziative a partire dal mese di gennaio, dopo che si saranno concluse le attività nelle piazze già in calendario. Sarà dedicata una particolare attenzione alle prossime elezioni in Calabria e, soprattutto, in Emilia Romagna, dove è nato il fenomeno sociale delle Sardine. Nel corso della mattinata di oggi, i referenti delle sardine italiane si sono ritrovati e confrontati per definire i prossimi passi. Due ore di discussione divisi in gruppi a seconda delle regioni di provenienza, con l’obiettivo di definire le prossime iniziative che saranno sviluppate sui territori.
Fra queste:
“Sardina amplifica sardina”, che sarà organizzato nel Lazio, per raccogliere i bisogni dei territori attraverso sardine che saranno raccolte in un’unica rete simbolica;
“Tutti sullo stresso treno”, un treno di sardine che attraverserà la Liguria fino alla Francia;
“Staffetta delle sardine”, che sarà realizzata in Sicilia per raggiungere anche le zone con situazioni critiche e complesse.
Oggi per queste nuove iniziative si sono gettate le basi, che saranno poi sviluppate nelle prossime settimane e presentate nel dettaglio.
Un denominatore comune emerso da tutte le proposte è l’attenzione alle zone periferiche, alle piccole città e alle località di provincia. Uno degli obiettivi delle Sardine fino a fine gennaio sarà raggiungere il più possibile territori che, spesso perché in difficoltà, si sono rivelati più vulnerabili ai toni populisti. Lo stesso accadrà in Emilia Romagna, con iniziative ad hoc che saranno organizzate sia nella “bassa”, sia nelle zone collinari e montane.
Nessuna discussione, invece, su temi politici specifici, che per definizione sono complessi e non possono essere affrontati in una mattinata in modo adeguato. Negli ultimi 30 giorni le sardine hanno scatenato una straordinaria energia, occorrerà molta pazienza per dare anche un’identità politica a questo fenomeno. E’ la stessa pazienza che chiediamo al mondo dei media. Capiamo l’urgenza di avere risposte ma ribadiamo che queste, invece, possono maturare solo con il tempo, e con la costruzione di un percorso condiviso che continuerà a rafforzarsi nelle prossime settimane.
Ciò che è certo è che le sardine si sono riunite per combattere tutte le forme di comunicazione politica aggressive, che strizzano l’occhio alla violenza, verbale o fisica, online o offline.
Ribadiamo i punti emersi dalla piazza di Roma e condivisi durante la giornata di oggi:
Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a fare politica invece che fare campagna elettorale permanente.
Pretendiamo che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente su canali istituzionali.
Pretendiamo trasparenza nell’uso che la politica fa dei social network.
Pretendiamo che il mondo dell’informazione protegga, difenda e si avvicini il più possibile alla verità.
Pretendiamo che la violenza, in ogni sua forma, venga esclusa dai toni e dai contenuti della politica.
Chiediamo alla politica di rivedere il concetto di sicurezza, e per questo di abrogare i decreti sicurezza attualmente vigenti. C’è bisogno di leggi che non mettano al centro la paura, ma il desiderio di costruire una società inclusiva, che vedano la diversità come ricchezza e non come minaccia.
Le sardine nelle istituzioni ci credono, e si augurano che con il loro contributo di cittadini la politica possa migliorarsi. Politica è partecipazione. La giornata di oggi è stata partecipazione. La giornata di oggi è stata politica.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 28 novembre 2017
Con la limitazione della circolazione sui viadotti insicuri, anche Genova si è trovata a vivere, certo in condizioni più estese e critiche, i disagi sperimentati a Napoli con la chiusura parziale della tangenziale. Tempi di percorrenza infiniti, cittadini e mezzi commerciali bloccati in lunghe code, e su tutto la sensazione di essere tornati indietro di cinquant’anni. Scopriamo così che il problema del deterioramento delle infrastrutture è di scala nazionale, che quel “debito pubblico territoriale” del quale dicevamo nell’articolo dello scorso 18 novembre – il costo delle manutenzioni e delle sostituzioni non fatte – rappresenta una posta passiva colossale, che si aggiunge a quella finanziaria, rendendo ancora più critico l’equilibrio di bilancio dello stato italiano. E’ evidente che in un simile quadro, aumentano gli aspetti di preoccupazione per il Mezzogiorno d’Italia, il pezzo di paese dove la crisi economica e istituzionale sta mordendo con maggiore violenza.
Il problema non è solo nostro, interessa molte economie avanzate, grandi paesi che in apparenza stanno meglio di noi. Attorno al deterioramento della rete autostradale statunitense si dibatte da almeno un quarto di secolo. Il budget pubblico per tenere in ordine le autostrade è costantemente diminuito, mentre l’Highway Trust Fund, l’ente federale che finanzia queste cose, è in bancarotta. A leggere i racconti sul New York Times, gli impatti sulle famiglie americane sono simili a quelli che stiamo vivendo noi, ed è questo il punto.
Nelle democrazie occidentali la rete dei trasporti è, in parte consistente, eredita del welfare state, un investimento pubblico colossale che, negli “anni d’oro” come li chiama Hobsbawm, dal secondo dopoguerra alla crisi degli ’70, ha cambiato la vita dei cittadini e delle aree geografiche, aprendo la strada alla modernizzazione, connettendo con modalità mai sperimentate prima le comunità nazionali, e rafforzando in ultima analisi le democrazie, pensiamo solo all’impatto sulla nostra società ed economia dell’Autostrada del Sole.
Ora il welfare è in crisi nera, e la risposta è stata la privatizzazione progressiva delle reti pubbliche, che pure erano state realizzate con il contributo collettivo, di lavoro e di soldi, di almeno un paio di generazioni. E’ un processo che le politiche dell’Unione europea, che ha fatto della concorrenza un idolo, più che un criterio di ragionamento, hanno fortemente promosso e incoraggiato. Con il crollo e l’ammaloramento dei viadotti prendiamo atto che si è trattato di un’operazione finanziaria, più che di un nuovo modello gestionale, visto che alla fine le manutenzioni e il turn over delle opere comunque non è stato fatto.
Il prezzo, alla fine, lo pagano i cittadini, come è assai bene descritto nel libro “Economia fondamentale. L’infrastruttura della vita quotidiana” (Einaudi), frutto del lavoro di un collettivo di economisti e sociologi europei, tra i quali il nostro Davide Minervini del Dipartimento di scienze sociali della Federico II. Il libro racconta la grande crisi, dal punto di vista delle famiglie europee, che vedono progressivamente erodersi il paniere di beni e servizi pubblici, proprio quelli legati al welfare, che vanno dai trasporti, all’energia, all’istruzione alla sanità fino alla telefonia e internet, a causa dei mancati investimenti, della liberalizzazione dei canoni, in un regime che è diventato di fatto un oligopolio privato.
In tutta questa storia il Mezzogiorno d’Italia è l’anello debole, e qui il ministro Provenzano ha pienamente ragione a mettere in discussione la posizione di Milano, l’unica città italiana veramente legata all’economia globale, tanto da poter disporre di fatto di una finanza parallela autonoma, grazie alla sua capacità di attrarre capitali internazionali. E’ singolare che in questa situazione i pochi grandi investimenti strategici nazionali, dall’Expo al Technopole, riguardino il capoluogo lombardo, come una sorta di premio aggiuntivo alle straordinarie performance di Milano, la sola delle nostre città che Paragh Kanna colloca tra le “città-stato”, i gangli forti delle supply chain globali, sempre più insofferenti, per ragioni evidenti, ai governi territoriali, regionali o statali che siano.
Non c’è alcun dubbio. Le politiche nazionali stanno andando in soccorso dei più forti e non si capisce più, in questa partita per la vita, quali asset, quali carte possa giocare il Sud, con il suo marchio di “inefficienza” che è diventato la scusa – lo spiega bene Nadia Urbinati nel suo “La mutazione antiegualitaria” (Laterza) – per un indebolimento asimmetrico del diritto di cittadinanza, della possibilità di contribuire con pari dignità alla formazione delle scelte pubbliche nazionali.
Una cosa è certa. In tutta questa discussione evitiamo almeno di spararla grossa: certo una “nuova IRI” potrebbe essere d’aiuto, se si disponesse di qualche decina di miliardi l’anno, per tutto il tempo necessario a rimettere in sesto l’armatura fisica del Paese; di una classe dirigente credibile; e possibilmente, di una strategia territoriale decentemente riequilibrata. Se non c’è questo, sono solo slogan per prender tempo, guadagnare un po’ di spazio sui giornali.
(La foto è tratta dal sito del Fatto Quotidiano)
Michele Serra, “La Repubblica” 26 novembre 2019
Quanto costa un uomo con la zappa e gli stivali di gomma?
Costa il tempo necessario a insegnargli che la zappa, che tiene pervio il fosso, pulita la canalina, sgombero il tubo di cemento, fa miracoli.
Credetemi, non è del passato contadino, non dell’improbabile arcadia di nonni sapienti che sto parlando. È del futuro.
Il governo delle acque, in un Paese per il settanta per cento montagnoso, è un insieme di grandi e piccole opere.
Le dighe enormi e gli argini possenti, le tonnellate di cemento e i viadotti che scavalcano i fiumi contano quanto il cesello paziente del territorio. Senza la cura del metro quadro, del rivo, del drenaggio che spurga la frana, nessuna grande opera basta a contenere la dissoluzione di un territorio dimenticato, tradito, omesso.
Ve la racconto io, e mi dovete ascoltare, la differenza tra l’acqua che viene giù disciplinata, lungo il reticolo anche minuto che solo l’uomo con la zappa e l’uomo con la ruspa (piccola, maneggevole) possono mantenere vivo; e l’acqua ingovernata, anarchica, lasciata alla sua cieca foga, che poco a poco svelle e trascina, cancella e distrugge. Grandi opere, ma certo, però per farne capire l’utilità e l’intelligenza, delle grandi opere, fatele parte di un sistema che riguarda tutti, proprio tutti. Date una zappa in mano a ogni studente, portatelo a vedere come funziona il monte, come funziona l’Italia. Se è una mania, pazienza, vale la pena passare per maniaco: servizio civile obbligatorio, di leva, per tutti, badile zappa piccone e stivaloni per ogni abitante di questo Paese, capi che insegnano, un esercito di soldati che impara. Cambierebbe l’Italia, cambierebbe dalle sue radici.
Greta, Francesco e la democrazia
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 12 ottobre 2019
Soffia forte sulla città il vento di “Friday for future”, il movimento dei ragazzi ispirato da Greta Thunberg che si batte contro il cambiamento climatico, prima con la grande manifestazione dei cinquantamila di fine settembre, seguita dall’assemblea nazionale a Castel dell’Ovo, una due giorni cui hanno preso parte centinaia di attivisti da tutt’Italia. Sono eventi di rilievo, cui “Repubblica” ha giustamente dato ampia copertura. In sede di commento i richiami al ’68 si sprecano. Come allora, la società degli adulti è colpita da un giudizio di inadeguatezza duro come uno schiaffo. Di fronte all’emergenza climatica in atto una frattura s’è spalancata, un “noi” contrapposto a un “loro”. I vecchi modi di pensare non servono più, l’attendismo è il peggior delitto. Greta e i suoi ragazzi chiamano a un’azione immediata, una svolta netta, imperativa, che riguarda tutto: modello economico, tecnologie, stili di vita, atteggiamenti, valori. Il tempo è finito, e comunque di noi non si fidano più.
Ci sono due risposte, ugualmente inadeguate, che a questo punto è possibile dare. La prima è quella denigratoria, della destra più becera, che mette in dubbio le capacità di Greta, la sua integrità, autenticità, autonomia, insieme alla robustezza mentale e culturale dei ragazzi scesi in strada nelle città di mezzo mondo. La seconda è il plauso peloso, gattopardesco, di chi pensa di blandire a parole il movimento, aspettando che magari si sgonfi, continuando in ogni caso a fare tutto esattamente come prima.
Il modo più onesto di vivere l’ondata impetuosa di novità, che cammina con le gambe e il respiro dei nostri figli, resta quello del confronto, del ragionamento, separando se possibile le parole d’ordine, gli obiettivi, dai percorsi realisticamente praticabili per il loro conseguimento.
Qui l’esempio può venire da Papa Francesco. La narrazione che la Chiesa latino-americana ha fatto del dramma amazzonico è molto simile per pathos, linguaggio, scenari a quella di Greta. Le soluzioni, il processo operativo che è necessario attivare per scongiurare la catastrofe ecologica e sociale – che ora il Sinodo mondiale che si è aperto a Roma dovrà sviluppare – Francesco le ha comunque delineate nella sua enciclica “Laudato si’”. E’ un documento fondamentale, che colloca l’ecologia integrale al centro della dottrina sociale della Chiesa. La parte pastorale dell’enciclica si sofferma lungamente sui metodi di valutazione preventiva e confronto, che è necessario utilizzare per identificare gli impatti ecologici e sociali delle diverse opzioni per contrastare il cambiamento climatico e il degrado degli ecosistemi, mettendo sul tavolo un bilancio trasparente, da sottoporre alla discussione pubblica. Insomma per Francesco l’urgenza degli obiettivi di sostenibilità e giustizia sociale è fuori discussione, ma le strade per raggiungerli possono essere diverse, la democrazia ha gli strumenti per scegliere, e non ci sono scorciatoie.
Di fronte a queste cose, le parole di Greta suonano dure: “Per me è bianco o nero, e non esistono zone grigie quando si parla di sopravvivenza. O continuiamo a vivere come civiltà, o moriamo… Tutto deve cambiare. E bisogna cominciare oggi. Quindi dico a tutti là fuori che è arrivato il momento della disobbedienza civile, il momento di ribellarsi.” In un recente commento sul New York Times, un giornale certamente progressista, che pure ha seguito e sostenuto il lavoro di Greta, Christopher Caldwell, un tipo che di fondamentalismi se ne intende, giunge alla conclusione che “il suo approccio radicale entra in frizione con la democrazia”. Da noi, ci aveva pensato Massimo Cacciari su “La Stampa” del primo ottobre a osservare che Greta procede per semplificazioni estreme, e che pure questo è populismo.
Sono giudizi troppo severi, bisogna dare tempo a questi ragazzi. Il loro impegno è ammirevole in una società di adulti che ha smarrito la maniera di integrarli, dare loro un lavoro, un futuro, un percorso di vita perscrutabile. Magari in questi movimenti si formerà una nuova classe dirigente utile al Paese. La direzione che indicano è quella giusta, il loro stimolo è provvidenziale. Cerchiamo di lavorare con loro, di ricordare che il metodo democratico, con tutti gli acciacchi, è l’unica cosa che abbiamo, che il tempo per costruire soluzioni deve esserci, non è detto sia sempre inerzia o cattiva coscienza.
Bagnoli ovvero la pianificazione alla rovescia
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 16 ottobre 2019
“Se si fa la bonifica e non ci sono le infrastrutture per raggiungere il nuovo quartiere, non si riesce a restituire Bagnoli ai cittadini e al mondo”. Le parole del ministro Provenzano suonano sacrosante, una boccata finalmente di aria buona, anche se una simile constatazione era già nel parere motivato del Ministero dell’Ambiente sul piano di risanamento di Invitalia, tanto lacunoso, secondo i tecnici di quel dicastero, da rivestire – è scritto proprio così nel decreto – “carattere virtuale”.
Lo schema infrastrutturale, il progetto indispensabile di trasporto pubblico, la rete del ferro per far vivere la nuova Bagnoli, così come i relativi fondi, non ci sono, ma è comunque partito il concorso di idee pensato da Invitalia, che è un po’ come progettare arredi e finiture di un nuovo appartamento, in un palazzo nel quale mancano ancora l’accesso, le scale, l’ascensore, le uscite di sicurezza, e pure il tetto. Insomma, la pianificazione al contrario.
La stessa cosa era successa in verità anche per la bonifica, che si intende ostinatamente realizzare sull’intera area, il cui costo (quasi quattrocento milioni, che uniti ai seicento già spesi fanno un miliardo di euro, quanto Milano ha speso per fare l’Expo) è stato computato senza mai pubblicizzare gli esiti dell’analisi di rischio, l’attività cruciale per capire dove bonificare, e sino a che punto.
Alla domanda esplicita che pure “Repubblica” aveva posto, Invitalia ha prima replicato che l’analisi di rischio c’era, ma era segreta, dando in seguito una versione ancora diversa: l’analisi di rischio si farà una volta decise le destinazioni finali, che è un altro bel caso di pianificazione alla rovescia, perché uno Stato che volesse comportarsi come buon padre di famiglia, tenderebbe ragionevolmente a localizzare le destinazioni d’uso anche in funzione dei livelli di rischio, evitando di fare sforzi inutili, e buttare soldi e tempo.
Stando così le cose, il ministro non ha potuto che registrare la situazione di stallo, prender atto della solitudine del commissario Floro Flores che ha pure lamentato, a distanza di cinque anni dal decreto Sblocca-Italia, la mancanza di una struttura tecnica (sic!); la complessiva incertezza sulle risorse finanziarie che servono per portare a termine tutto.
Nel clima deprimente che si è creato, le parole del ministro piovono come una spruzzata rigenerante d’acqua sul viso, e fanno ben sperare, così come la volontà da lui espressa di “chiarire alcune cose col soggetto attuatore”, cioè con Invitalia. Potemmo magari smetterla con la pianificazione al contrario, dedicarci finalmente a una sobria, pragmatica messa in sicurezza delle aree, che costerebbe assai meno; liberare risorse per le infrastrutture e il trasporto pubblico, che è il modo per far nascere davvero, e sostenibilmente, la nuova città.
Senza Tangenziale
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 23 ottobre 2019
A causa dei controlli di stabilità al viadotto di Capodichino dureranno almeno tre settimane i disagi e gli ingorghi per la restrizione del transito a sole due corsie. I percorsi alternativi suggeriti da Tangenziale di Napoli fanno sorridere: se vieni da occidente e vuoi prendere l’autostrada esci a Fuorigrotta e percorri il lungomare. Facevano prima a dire di non prenderla proprio, ma il dato triste è l’essere improvvisamente tornati alla situazione di viabilità di quarant’anni fa, prima dell’inaugurazione nel ’72 del primo tratto dell’opera, e constatare ancora una volta quanto la città sia fragile, priva di alternative, risorse, soluzioni di scorta per superare le emergenze.
Tutto questo in un clima generale ancora impressionato dal crollo di Genova: come quel ponte anche il nostro è gestito da Atlantia, e se è del tutto fuori luogo qualunque semplicistico accostamento, resta l’incertezza sul ciclo di vita delle grandi infrastrutture in cemento, che promettevano l’eternità, ma hanno i loro acciacchi pure loro. Ad ogni modo, in attesa di notizie più precise da parte della concessionaria, la decisione di un esercizio a scartamento ridotto del viadotto si rende ora necessaria per l’effettuazione dei controlli, o la riduzione precauzionale dei carichi, o probabilmente tutt’e due le cose.
Resta il fatto che la città è inerme, priva di alternative, dinnanzi a problemi che pure sono noti almeno da un vententennio. Nel Piano della rete stradale primaria approvato dall’Amministrazione comunale nel 2000, l’insostenibilità dell’accesso unico da est alla città, costituito proprio dal viadotto che ora s’è ammalato, veniva fortemente sottolineata, con la previsione di realizzare un secondo, necessario corridoio d’ingresso da ovest (l’Occidentale), con un collegamento tra la Perimetrale di Scampia e la Tengenziale, all’altezza degli svincoli del Vomero. Un tracciato era stato individuato, ed è allegato al Piano, con uno studio di fattibilità e di inserimento paesaggistico ed ambientale estremamente avanzato. In questo modo, a chi deve rientrare in città, si proponeva una doppia alternativa, distribuendo più razionalmente i flussi, evitando le forche caudine dell’unico, congestionato ingresso orientale alla città.
Erano tempi nei quali ci permettevamo ancora il lusso di programmare il futuro, anche se poi comunque quel piano fu accantonato. Oggi viviamo precari, beneficiando la rendita di decisioni prese quaranta, trenta, venti anni fa. Viviamo di rammendi, rattoppi, verifiche di stabilità, pregando a mani giunte che il capitale infrastrutturale e fisico della città, sottoposto a disumane pressioni, in qualche modo resista.
Il deserto a Mezzogiorno
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 8 novembre 2019
Dopo la presentazione dell’ultimo rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, è veramente sorprendente il rimprovero di autorevoli osservatori al prestigioso istituto di ricerca, di riproporre alla fine sempre la stessa ricetta, quella di chiedere più fondi per il Sud. Si tratta proprio di cattiva ideologia, perché il rapporto dice tre cose incontrovertibili. Primo: la somma di trasferimenti e investimenti pubblici è minore nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese, quindi ciò che Svimez chiede è che sia ristabilita come minimo l’equità. Secondo: la crisi ha innestato, con l’emigrazione dei migliori, un impoverimento del capitale umano e sociale che costituisce l’aspetto più drammatico del problema. Terzo: il Paese non ha una strategia per fronteggiare tutto questo, se non quella cinica di sganciare, con l’autonomia differenziata, i vagoni più lenti.
Vanno via dal Sud i ragazzi che hanno studiato, ma anche le multinazionali come Whirlpool e Arcelor, e viene da chiedersi se, oltre la “trappola dello sviluppo intermedio” di Gianfranco Viesti (siamo troppo inefficienti per attrarre l’eccellenza, troppo costosi per concorrere coi paradisi della delocalizzazione), non finisca per pesare molto alla fine una sorta di populismo anti-tecnologico e anti-industriale.
Facciamo il caso dell’ArcelorMittal. Chiunque conosca gli impianti siderurgici d’Italia, da Piombino a Taranto, passando naturalmente da Bagnoli, sa che sono stati concepiti, e per tutto il Novecento hanno funzionato con una logica arcaica: l’occupazione sciatta dello spazio, centinaia di ettari, a volte migliaia, per dare la possibilità allo stabilimento di smaltire in libertà i propri residui, le loppe, gli scarti, come fossimo ancora nel mondo di Dickens, e poi i carbonili a cielo aperto, pronti a spandere al vento polveri insane. Uno stato di cose inaccettabile, ormai palesemente, contrario al quadro normativo, nazionale e europeo.
Eppure, in questa situazione è evidente che se vuoi mantenere la siderurgia assieme al più grande impianto d’Europa, una cosa che vale quindicimila posti di lavoro, quasi l’1,5% del PIL nazionale considerando l’indotto, devi necessariamente prevedere uno scudo legale, che non significa l’impunità per i colpevoli, ma la possibilità di disporre del tempo ragionevole per la messa a norma, per la conversione ecologica degli impianti. Lo scudo serve a evitare che chi oggi vuole risolvere i problemi, debba rispondere delle mancanze delle gestioni precedenti. Ma il senso vero è quello di proteggere l’ordinamento giuridico stesso, evitandogli di funzionare fuori contesto, come un meccanismo cieco, dagli esiti drammaticamente inappropriati.
Ma tant’è, l’ideologia vuota degli slogan ha vinto. Con il voto parlamentare che ha abolito lo scudo, la ricerca di un colpevole da punire ha prevalso sulla ricerca di soluzioni responsabili. Certo, è evidente che una multinazionale come Arcelor, consapevole del suo potere negoziale, abbia sparato alto, per strappare condizioni più favorevoli, complice anche l’attuale calo della domanda mondiale di acciaio. Ma dall’altro lato del tavolo, ci sono istituzioni repubblicane che appaiono allo sbando, prive di una visione e uno straccio di politica territoriale e industriale, si tratti di Whirlpool o dell’Ilva.
Ad ogni modo, ad alimentare questo clima scoraggiante per le imprese, è lo stesso modo di pensare che da noi ha trasformato la crisi della piana campana nel mito eterno, privo di soluzioni della Terra dei fuochi; che continua ad opporsi ostinatamente a qualunque civile, moderna impiantistica per i rifiuti. Quel che è certo, è che non si governa a lungo con gli slogan. Dopo la sbornia parolaia del ventennio, a riportare il Paese a un principio di realtà ci pensò la Costituzione repubblicana, che dice che la politica è tutta un bilanciamento ragionevole e faticoso di principi: iniziativa privata e programmazione pubblica, libertà e sicurezza, sviluppo economico e qualità dell’ambiente. L’arte di fare i compromessi giusti, in vista di un superiore bene comune. Ora sembra che quella strada sia definitivamente persa.
Tra le riflessioni pubblicate in agosto su Repubblica Napoli avevo dimenticato questa, sui neoborbonici e il Partito del Sud,
Le cause perdute del Mezzogiorno
Antonio di Gennaro, 21 agosto 2019
Come ha scritto ieri Aurelio Musi su queste pagine, era inevitabile che in questo momento difficile per il Mezzogiorno anche i neoborbonici venissero fuori con una loro proposta, un “Movimento per il Sud”, che lo scrittore Pino Aprile intende presentare pubblicamente nei prossimi giorni, del quale ha parlato nell’intervista a Roberto Fuccillo. Come osserva giustamente Musi, lo spazio per una simile offerta politica appare potenzialmente ampio, resta da capire quanto tutto questo possa davvero aiutare il Sud a superare la congiuntura complicata che stiamo vivendo, fatta di crisi economica, spopolamento, debolezza istituzionale.
Il neoborbonismo non è solo nel mondo. Un bel numero della rivista Meridiana, uscito nel 2017, è interamente dedicato alle “Cause perdute”: la nutrita famiglia di movimenti che fonda la sua identità su una dolorosa sconfitta: i borbonici, appunto, ad opera dei piemontesi; i Confederati americani sconfitti dagli Stati del Nord; e poi i fascisti italiani dopo il disastro dell’ultima guerra; ed ancora catalanisti, carlisti spagnoli, socialisti radicali russi sconfitti nella rivoluzione del 1917…
I due curatori, Eduardo González Calleja e Carmine Pinto, nell’introduzione al volume mettono in rilievo come questi movimenti abbiano molte cose in comune. In primo luogo il fatto che queste identità si basino tutte su una causa perduta, una sconfitta ingiusta, che diventa evento mitico, nella quale il nemico ha prevalso sui superiori valori dei vinti grazie alla slealtà e al tradimento, depredando poi i soccombenti non solo di beni e risorse, ma anche della loro storia e tradizione, cancellandone la memoria autentica.
Per quanto riguarda i vinti, ad essi non è in nessun modo possibile attribuire colpe o responsabilità. La loro sconfitta è esclusivamente frutto dell’inganno e del complotto. L’appartenenza a una identità in tal modo costruita richiede una cosa sola: la lealtà alla causa, autentica e giusta per antonomasia, in opposizione all’interesse, all’opportunismo, al tradimento.
A rifletterci un attimo, anche per i movimenti della cosiddetta Terra dei Fuochi è andata così, con la causa perduta che in questo caso è rappresentata dall’avvelenamento subdolo dei suoli per colpa dei rifiuti tossici provenienti dalle industrie del Nord. Non conta niente il disordine territoriale frutto di sessant’anni di anarchia urbanistica, o l’incapacità di gestire un ciclo dei rifiuti autonomo, non ci sono nostre responsabilità, è tutta e sempre colpa di un nemico esterno.
La contiguità di questo modo di ragionare con i vari populismi in giro è evidente: il problema non è mai quello di una responsabilità propria da esercitare, di soluzioni, compromessi, alleanze e percorsi da costruire con ostinazione e coerenza ma, appunto, di un nemico bieco da additare e combattere. E’ un gioco misero evidentemente, e così davvero non si va da nessuna parte.
Antonio di Gennaro, 4 settembre 2019
La scena è quella di un teatro di guerra. I pesanti tombini scoperchiati, cavi elettrici strappati, porte sfondate e vetri rotti, gli impianti tecnologici a pezzi. E poi il fuoco, che ha distrutto i locali della bella palazzina degli uffici, l’odore di bruciato che stringe ancora la gola. La cittadella Gesen, il piccolo gioiello tecnologico al centro delle discariche di Giugliano, nata per il trattamento di percolati e biogas, è stata distrutta da una serie di raid, almeno quattro, iniziati il giorno di ferragosto, e proseguiti fino a lunedì scorso.
L’impianto, inattivo da tempo, era diventato il quartier generale del commissario alle discariche di Giugliano, Mario De Biase, e del suo staff. In quegli uffici era stato messo a punto l’intervento di messa in sicurezza della discarica Resit, distante solo un centinaio di metri, trasformata, come ha raccontato Repubblica lo scorso 27 luglio, in un parco verde di sei ettari, abbellito dai murales di Jorit.
Obiettivo apparente dei raid, condotti in grande stile da una squadra di almeno una ventina di persone, assistite da camion e furgoni, era il furto dei cavi e dei materiali metallici. Per far questo, sono stati distrutti gli impianti di trattamento del biogas e del percolato, un sistema tecnologico modello costruito coi fondi europei, potenzialmente in grado di produrre energia pulita per una comunità di alcune migliaia di persone.
Il sistema di sorveglianza ha mostrato falle incredibili, se le squadre di razziatori hanno potuto lavorare per molte ore, e a più riprese, seguendo un programma preciso: a ferragosto il taglio dei cavi e l’isolamento elettrico degli edifici; il 25 agosto, la razzia in grande scala, conclusa con l’incendio della palazzina direzionale. Poi ancora almeno altre due incursioni, l’ultima lunedì sera, nel corso della quale sono state arrestate in flagrante due ragazze rom e un minore, mentre un’altra dozzina di persone è riuscita a fuggire.
Certamente ha pesato, sull’estrema vulnerabilità del sito, il puzzle caotico di competenze: il complesso distrutto era della Gesen, una società partecipata dalla vecchia provincia, che non esiste più ed è stata assorbita nel Consorzio di bacino, anch’esso in scioglimento, in attesa che si costituisca il nuovo Ato. C’è poi anche la Sapna, società della città metropolitana, che gestisce alcune delle discariche, oltre alla guardiania dell’area che però, negli ultimi tempi, sembra non riuscisse a coprire l’intero arco delle 24 ore.
L’impianto come si è detto non era attualmente in funzione, per riattivarlo sarebbe bastato un revamping del costo di poche centinaia di migliaia di euro. In questi ultimi anni, grazie a De Biase, la Gesen aveva comunque continuato a produrre un diverso tipo di energia, che ha a che fare con la cultura, la conoscenza, la coscienza civica. L’auditorium al terzo piano della palazzina degli uffici era diventato, proprio nel mezzo dell’area più critica della Campania, un centro di divulgazione per migliaia di studenti delle scuole pubbliche dell’intera regione, che qui venivano a studiare come si ricostruisce un ecosistema, come si ripara la terra ferita. Quando entriamo sembra dopo un bombardamento. Le mura annerite dal fuoco, gli arredi a terra, maciullati, il soffitto che viene giù a pezzi. Persino le soglie di marmo delle scale sono state spezzate, una ad una, con rabbia
La furia massima ha investito proprio la stanza dove il commissario Mario De Biase coordinava i lavori di recupero delle discariche, letteralmente sventrata, il tavolo di cristallo in frantumi, il mobilio e i computer a pezzi, gli archivi rovesciati, i soffitti sconvolti. Alle pareti restano affisse le planimetrie dei progetti, erano un simbolo di speranza concreta ma adesso, in mezzo alle macerie, ti mettono addosso solo un senso di precarietà.
Tra gli autori dei raid ci sarebbero dunque rom, qualcuno avrebbe anche visto persone di colore. Rimane il dubbio che per rubare il metallo non ci fosse bisogno di tanta violenza, di frangere ogni vetrata, massacrare in questo modo i locali. Girando per le stanze distrutte è netta invece la sensazione che, con questa sproporzionata azione di guerra, qualcuno, molto al di sopra degli esecutori materiali, abbia voluto lanciare un messaggio. Di questa terra mortificata non si deve salvare niente. Tutto deve rimanere com’è: le ferite eterne delle discariche, le strisce strafottenti di monnezza a bordo strada, le ragazze nigeriane sedute ad aspettare lungo il viale.
In attesa che polizia, carabinieri, magistratura chiariscano come tutto questo sia potuto accadere, la cosa importante ora è mettere in sicurezza i luoghi simbolo vicini, che sono tremendamente a rischio: il parco verde della Resit, i cui impianti tecnologici potrebbero subire lo stesso saccheggio, e il bosco di san Giuseppiello, il sito di fitorisanamento più vasto d’Italia, sequestrato ai Vassallo – ai quali lo Stato ha presentato il conto – dove ventimila pioppi, monitorati dai ricercatori della Federico II, puliscono in silenzio la terra contaminata dai fanghi industriali.
Nel servizio del 27 luglio scorso si diceva della difficoltà di rintracciare un ente, un’amministrazione in grado di prendere in consegna permanente queste aree riscattate. Il commissario De Biase è in scadenza, ma senza responsabilità e governo questi luoghi moriranno di nuovo. L’azione di guerra per ora li ha risparmiati, restano il simbolo della rinascita possibile, ma occorre prevedere a loro difesa, subito, un presidio di sicurezza permanente. Sono già in programma a breve nuove visite di scolaresche e equipe scientifiche, questo racconto di speranza, conoscenza, riappropriazione del territorio non può fermarsi dinnanzi alla barbarie, non deve assolutamente essere interrotto.
Tre brevi riflessioni, pubblicate da Repubblica Napoli tra agosto e inizio settembre. I temi sono diversi. Il rapporto Svimez, sulla sempre più preoccupante situazione del Mezzogiorno. Il pezzo sulla nuova strategia della Lega è uscito prima della rottura del governo giallo-verde, forse un po’ ha portato bene. E poi l’inaccettabile morte di un operaio agricolo, al lavoro sotto una serra a Varcaturo.
Il Sud come periferia
Antonio di Gennaro, 4 agosto 2019
Che effetto fa leggere l’ultimo rapporto Svimez dopo averle girate da poco, per conto di questo giornale, alcune di queste terre: le periferie d’Appenino, dal Matese al Fortore al Cilento; e quelle di città, da San Giovanni a Teduccio a Pianura.
La cosa che più mi ha colpito nel viaggio è una certa identità di pensiero. Alla domanda su quali fossero le cose fa fare, i sindaci delle aree rurali interne hanno risposto allo stesso modo dei parroci e degli operatori delle periferie urbane, indicando senza incertezze una terna costante: educazione, connessione, lavoro. Senza scuola non ci sono bambini e ragazzi; senza lavoro mancano i loro genitori. Per i collegamenti poi, l’aspirazione era per un muoversi meno faticoso di persone, merci e informazioni, che non dipendesse da una stradaccia pericolosa mezzo franata tra le colline; da una linea internet a singhiozzo; o da un autobus precario di periferia, senza più regola ed orario.
La cosa che Svimez dice ora, è che in questa nuova, inedita congiuntura, fatta di recessione e spopolamento assieme, le città e le campagne del sud condividono ormai lo stesso declino, che é diventato di sistema. Il calo delle nascite e l’emigrazione, che hanno già dimezzato nel giro di un cinquantennio la popolazione della cintura verde appenninica, minacciano ora alle aree urbanizzate, che pure sembrano ancora congestionate di funzioni e persone. Insomma, è l’intero Mezzogiorno che si trasforma in periferia, la sterminata area interna di un Paese che non c’è più.
Calo demografico e recessione producono insieme un mix pericoloso, un avvitamento in picchiata: se le persone vanno via, cala il gettito fiscale e previdenziale, e non si ricostituisce più il capitale pubblico necessario a tenere in sicurezza l’economia, i territori, le comunità. Una precarietà gestionale che sperimentiamo già ora, nell’incapacità di mantenere in condizioni minime di efficienza e decoro un capitale urbano e infrastrutturale che dal 1960 si è comunque sestuplicato, strappando il Sud Italia, nel bene e nel male, da un medioevo che sembrava non dovesse finire mai.
E’ una trappola che Gianfranco Viesti ha definito “dello sviluppo intermedio”: la condizione incerta dei territori che sono comunque troppo costosi, rispetto all’Est europeo ad esempio, per attrarre le nuove manifatture; troppo poveri per interessare i circuiti globali dell’innovazione e dell’eccellenza.
Il percorso per uscire da questa situazione appare complicato. In tempi di autonomia differenziata, con le regioni del Nord che contrattano con lo Stato centrale le nuove regole di convivenza, quasi già fossero paesi terzi, viene meno la possibilità stessa di immaginare le necessarie politiche di riequilibrio, che non possono che essere nazionali e statali.
A livello locale, la macchina della pubblica amministrazione nel suo complesso, è in fase avanzata di dismissione, come effetto del prolungato blocco del turn over e dei prepensionamenti di Quota Cento. C’è poi la questione della continuità amministrativa: per ottenere risultati occorrerebbe costanza, pazienza, evitando di buttare all’aria ogni volta quello che è stato fatto in precedenza.
Rimangono di conforto alcune esperienze dal basso, come quelle che Francesco Erbani ha raccontato nel suo ultimo libro “L’Italia che non ci sta” (Einaudi), nel quale ha cucito insieme storie esemplari, dalle Catacombe di San Gennaro alle Grotte di Pertosa, accomunate da un aspetto: la riappropriazione, la cura e la gestione, da parte di comunità locali, del patrimonio territoriale e culturale, generando in questo modo occupazione e nuove opportunità, insomma i beni pubblici che mancano.
Si tratta naturalmente di esperienze seminali, con il valore di esempi, fonti d’ispirazione. Hanno in comune il fatto di basarsi sulle persone, e di mettere al centro proprio le tre parole chiave incontrate nel viaggio – educazione, connessione, lavoro – con le quali hanno evidentemente molto a che fare.
L’inganno di Lega1 e Lega 2
Antonio di Gennaro, 13 agosto 2019
Torna alla mente il racconto di Massimo Troisi, col Senatur Umberto Bossi imbarazzato quando dalla sua libreria spunta fuori a sorpresa il 45 giri con dedica di “Tu si’ na malatia” del grandissimo Peppino di Capri. E’ evidente che quella di Troisi non era comicità, ma scintilla di intelligenza cosmica, straniamento sublime, comprensione profonda delle cose.
Chissà se gli attuali strateghi e consulenti d’immagine della Lega ci hanno pensato, ma loro sono andati comunque volutamente oltre, verso un trash scientificamente perseguito, col pancione in fuori sulla spiaggia, le cubiste che ballano l’inno, e il crocifisso attorno al pugno, esibito come amuleto magico-superstizioso, non più simbolo di fraterna universalità ma di identità rissosa, di insofferenza ostile verso i più deboli.
Ma non è questa nuova strategia comunicativa che interessa, quanto l’ingegneria elettorale che c’è dietro, che per certi aspetti ricorda quella che a sorpresa Berlusconi dispiegò nelle elezioni politiche del 1994 contro la gioiosa macchina da guerra di Occhetto, con un alleanza differenziata al nord con la Lega e al sud con Alleanza Nazionale.
Questa volta l’alleanza differenziata è tra due pezzi della Lega stessa: il pezzo più vecchio, chiamiamolo Lega1, quello che già governa le città e le regioni del Nord, e che per inciso nell’attuale parlamento è il partito che vanta la maggiore anzianità. Ed il pezzo nuovo, la Lega2, nata per drenare inaspettati consensi al Centro-Sud, che si giova della colorita, scientifica attrezzatura comunicativa descritta in precedenza.
E’ evidente che i due pezzi hanno obiettivi e funzioni del tutto diverse. La Lega1 una strategia precisa ce l’ha, è quella dell’autonomia differenziata, e del taglio fiscale alla Trump, che la Ragioneria Centrale dello Stato ha già valutato come assolutamente incompatibile con gli equilibri finanziari del Paese.
Sugli aspetti di incostituzionalità e iniquità dell’autonomia differenziata, così come delineata nelle ipotesi di intesa che circolano, hanno autorevolmente scritto Massimo Villone sulle pagine di Repubblica, e Gianfranco Viesti nel suo libro “La secessione dei ricchi”. Carlo Iannello sul Manifesto ha sottolineato un altro aspetto, che è l’impossibilità, una volta che il provvedimento passasse, di attuare politiche nazionali di qualunque tipo, con una competenza dello Stato centrale di tipo residuale, e l’Italia che scivolerebbe verso la condizione grigia e cinica pre-unitaria di paese “senza centro”, desolatamente descritta da Giacomo Leopardi nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”.
Ad ogni modo, il disegno è chiaro: rastrellare con la Lega2 – che un disegno proprio non ce l’ha, se non un astuto, bizzarro coacervo di slogan tra loro confliggenti, del tutto estranei ai reali bisogni del Mezzogiorno – i voti che servono per attuare finalmente la strategia della Lega1, che mira a sganciare a qualunque costo il destino delle regioni più prospere da quello incerto del resto del Paese.
Qualche problema di convivenza tra le due Leghe sembrerebbe emergere, se sui social iniziano a fioccare commenti perplessi di elettori della Lega1 nei confronti della nuova, avventurosa strategia espansiva. Che però, nella sua inverosimiglianza, sta lì, chiara, alla luce del sole, impudente, evidente a tutti, e per questo alla fine magari ce la fa.
L’agricoltura clandestina
Antonio di Gennaro, 02.09.2019
Stava lavorando in serra Pasquale quand’è morto. La raccolta dei meloni a Varcaturo era finita da tempo, ma c’era comunque da preparare il terreno, le porche per la coltura successiva. Pasquale era un O.T.D., un operaio agricolo a tempo determinato. Un bracciante. Moglie e tre figli, a 55 anni era uscito di casa alle quattro del mattino, da Caivano, per una paga giornaliera di 40 euro. Come raccontato da Raffaele Sardo ieri su Repubblica, dei lavoratori che quel giorno erano in azienda, Pasquale e un altro erano a nero, gli altri regolarmente assunti.
La morte tragica di Pasquale Fusco costringe a ritornare sulla questione delle condizioni di lavoro in agricoltura. In Italia muoiono sul lavoro due persone al giorno, nel 2018 gli infortuni mortali sono stati 704, 83 in agricoltura, il 21% delle morti è al Sud. Nella piana campana la situazione è estremamente difficile. Le aziende sono particolarmente piccole, frammentate. La crisi della terra dei fuochi le ha ulteriormente mortificate, spinte alla clandestinità, il sommerso è enorme. La superficie agricole censita dall’ISTAT è solo un terzo di quella reale. Per di più si lavora su margini irrisori: i prezzi agricoli sono fermi da tre decenni in termini reali, mentre i costi di produzione – fertilizzanti, energia, manodopera – seguono invece fedelmente i rialzi del costo della vita.
La situazione ha aspetti paradossali. Le aziende agricole che cercano manodopera qualificata non la trovano. C’è invece nell’hinterland disordinato della piana campana un serbatoio di persone povere, come Pasquale, che in un modo o nell’altro devono lavorare. E gli immigrati, dall’Africa e dall’Est Europa, la loro paga è più bassa, sino alla metà. Ma qui la questione non è tra italiani e stranieri, ma invece tra chi è povero e ha bisogno, e tutti gli altri.
Ragionare del lavoro in agricoltura è dunque difficile, una questione troppo intrecciata ai temi delicati della marginalità, del disagio, della legalità, del controllo del territorio. Solo un’altra faccia della sofferenza sociale complessiva che affligge la grande area metropolitana. I Servizi Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro della ASL dovrebbero, controllare, monitorare la salute delle persone, la qualità degli ambienti di lavoro, ma il servizio sanitario nazionale, in grave affanno qui al Sud, non ce la fa proprio a stare dietro ai fabbisogni particolari del settore agricolo.
Le aziende agricole non dovrebbero essere lasciate sole. Una buona strada è quella della cooperazione: mettere insieme i piccoli perché possano finalmente difendersi in mezzo a un mercato globale spietato, con competitori che hanno costi inferiori ai nostri , una migliore organizzazione, oltre che sistemi-paese più vicini alle attività agricole. Solo le reti cooperative possono aiutare i piccoli produttori a spuntare margini più equi nella filiera del valore, nei confronti di commercianti e distributori, e ad adottare i necessari protocolli di legalità. In Trentino l’80% del valore della produzione agricola è gestita dalle O.P., le organizzazioni dei produttori riconosciute dall’Unione europea; al Sud la media è del 20%.
La morte di Pasquale Fusco è un evento doloroso, senza rimedio, le parole e i ragionamenti non servono. Resta il compito di dare ordine senso e prospettiva a un’agricoltura semiclandestina, che pure continua a gestire il 65% del territorio della grande area metropolitana. Se ci credessimo, il discorso potrebbe addirittura capovolgersi. Una filiera agricola ordinata, rafforzata dall’associazionismo, potrebbe significare per la Campania e il Mezzogiorno un’occasione importante di assorbimento e integrazione degli immigrati, di lavoro per i connazionali, insomma un ammortizzatore sociale attivo e produttivo, forse sotto certi aspetti migliore di quelli che stiamo mettendo in campo. Le persone, il territorio, l’agricoltura non possono andare avanti da soli.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 29 maggio 2019
I segni premonitori c’erano, eppure in pochi avrebbero scommesso su un’affermazione così netta dei partiti ambientalisti nelle elezioni europee del 26 maggio. Parlamentari verdi sono stati eletti in 13 paesi, nella nuova assemblea sono aumentati da 50 a 69, e saranno probabilmente determinanti nella formazione di una maggioranza in grado di fare a meno di sovranisti, populisti e destre.
Le affermazioni maggiori sono in Germania, dove Die Grünen con il 20,5% è secondo partito dietro la CDU-CSU della signora Merkel; in Francia, dove Les Verts con il 13,5% è la terza forza dopo Le Pen e Macron; ed anche in Gran Bretagna, dove il Green Party con l’11% è quarto, prima dei conservatori di Theresa May in caduta libera. Manca l’Italia, dove Europa Verde con il 2,3% è lontana dalla soglia d’ingresso, e non ha eletto alcun rappresentante.
Il dato su cui riflettere è la piattaforma politica con la quale queste forze si affermano, e il caso esemplare è quello dei verdi tedeschi, che secondo molti osservatori hanno compiuto con le ultime elezioni il salto da partito identitario a partito di massa, in grado di cogliere consensi in segmenti della pubblica opinione assai diversi. Gli ingredienti del successo non sono nuovi se presi singolarmente, ma lo diventano se si considera la sintesi originale che Die Grünen ha proposto all’elettorato.
Attorno al nucleo fondativo di istanze ambientali – lotta al cambiamento climatico, transizione energetica, contenimento del consumo di suolo ecc. – i verdi tedeschi hanno infatti costruito una strategia economica e sociale a tutto campo, che comprende le infrastrutture, i trasporti, la politica della casa, il lavoro, l’integrazione degli immigrati. Per tradurre in realtà queste cose Die Grünen sono al governo in nove lander, collaborando di volta in volta senza particolari difficoltà sia con i cristiano-democratici che con i socialdemocratici.
Fin qui siamo nel solco di un ambientalismo adulto, pragmatico, le cui basi sono state gettate vent’anni fa con l’affermazione nel partito dell’ala “realista” su quella “fondamentalista”, una linea seguita poi con continuità, fino all’attuale leadership di Hannalena Baerbok e Robert Habek.
Ma c’è dell’altro, perché l’affermazione dei verdi tedeschi deve molto a scelte che con l’ambientalismo apparentemente hanno poco a che fare: la chiusura netta al populismo; l’affermazione delle libertà individuali, oltre ogni distinzione di razza, religione, orientamento sessuale.
Poi – e sono opzioni non scontate, che fanno veramente riflettere – la difesa più gelosa delle regole del gioco e dei principi di democrazia liberale, perché non ci sono politiche ambientali se le istituzioni si ammalano. Infine, il cosmopolitismo, il multilateralismo, l’europeismo, l’idea che l’unica garanzia per i giovani sia legata a un’Europa ancora più connessa e integrata che rimane, con tutti i suoi difetti, l’ecosistema sociale migliore nel quale ci sia ancora dato di vivere.
E’ una scommessa importante quella che viene dall’ambientalismo europeo, che chiama in causa l’intero fronte democratico-progressista, a cominciare da quello di casa nostra: lisciare il pelo alla tigre populista è inutile, ci rimetti il tempo, e pure l’anima.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 27 aprile 2019
Nella sua omelia nel Duomo di Acerra, il giorno di Pasqua, il vescovo monsignor Antonio Di Donna, ha parlato della sua come di una “città crocifissa”, martoriata dall’intreccio di una crisi ambientale, sociale ed economica che appare senza sbocco, criticando inoltre duramente l’ipotesi di potenziamento del termovalorizzatore, con la realizzazione di una quarta linea: “I ragazzi e i giovani continuano ad ammalarsi e a morire” ha ricordato Di Donna “prima la Montefibre, poi l’inceneritore hanno distrutto i nostri campi.”
Sono accenti e ragionamenti già presenti nel documento pastorale della Chiesa campana sui roghi tossici del novembre 2012, sottoscritto dai vescovi della “Terra dei fuochi”, con le diocesi di Aversa, Caserta, Capua, Acerra, Nola, Pozzuoli e Napoli. Eravamo allora all’inizio della tempesta mediatica che sarebbe esplosa nell’estate del 2013, con l’intervista televisiva del pentito Carmine Schiavone.
Dalla pubblicazione di quel documento sono trascorsi sette anni. Se pure buona parte dei problemi restano irrisolti, molte cose sono successe, ed è utile ragionare sulla lezione appresa.
Diversamente dai timori del vescovo, il monitoraggio capillare delle aree agricole e dei prodotti alimentari ha definitivamente scagionato il settore primario da ogni sospetto. I suoli e gli ecosistemi agricoli della piana non sono compromessi: sui 50.000 ettari analizzati solo 30 alla fine sono stati interdetti alle produzioni alimentari. Insomma, la distruzione dei campi, della quale parla monsignor Di Donna, riguarda l’abusivismo edilizio, non la presunta contaminazione. Nel frattempo però, l’allarmismo ingiustificato ha causato la chiusura di molte aziende agricole, lasciando spazio ulteriore al degrado.
Per il resto, è vero che il recupero delle ferite del territorio, e il restauro dei paesaggi violati procede a rilento, ma c’è pure qualche segno nuovo di speranza. La messa in sicurezza della RESIT, la madre di tutte le discariche, è completata. L’area di discarica, resa sicura, come accade negli altri paesi, è ora un parco con alberi e arbusti, mentre il vicino frutteto di San Giuseppiello, dove i Vassallo interravano fanghi industriali, è diventato un bosco con 20.000 pioppi, dove i suoli vengono puliti con tecniche naturali. Un approccio che deve ora essere esteso alle altre aree ferite nella piana.
Anche per quanto riguarda l’emergenza sanitaria, una lettura più approfondita è stata fatta. L’analisi dei dati del Registro tumori dell’ASL Napoli 3, comprendente gran parte del territorio di Terra dei fuochi, mostra come l’incidenza delle patologie tumorali sia in linea con il resto del paese, mentre la mortalità è di alcuni punti superiore. L’indicazione è che nella Terra dei Fuochi ci si ammala nello stesso modo, ma si muore di più. Il problema dunque c’è, e riguarda screening, prevenzione e cure tempestive; il rafforzamento dei servizi essenziali, piuttosto che bonifiche generiche e costose.
Su questo sfondo metropolitano sofferente, grava come un macigno il problema della chiusura del ciclo regionale dei rifiuti, con il superamento del deficit impiantistico, una necessità autorevolmente ribadita nei giorni scorsi sulle pagine di questo giornale da Paolo Mancuso e Ugo Leone.
Gli impianti dei quali disponiamo sono insufficienti, per ora ce la caviamo esportando fuori regione quasi metà di quanto produciamo, indirizzandolo a caro prezzo verso gli inceneritori altrui. Ci affatichiamo a incrementare la raccolta differenziata, ma poi mancano gli impianti di compostaggio e le piattaforme per il recupero dei materiali, e tutto si risolve, per usare l’immagine di Daniele Fortini, in una sorta di costosa e improduttiva “ginnastica collettiva”.
Ad ogni ipotesi di localizzazione di un possibile impianto, di qualunque natura e dimensione esso sia, segue inevitabile l’opposizione delle popolazioni. L’assoluta, invalicabile sfiducia delle comunità locali, rispetto ad ogni tipo di iniziativa pubblica, prevale per ora su ogni dato o valutazione laica, non ideologica.
Questa sfiducia si nutre anche di generalizzazioni, e sarebbe meglio non accomunare, come fa monsignor Di Donna nella sua omelia, in un riflesso di anti-industrialismo radicale, la Montefibre con il termovalorizzatore, una tecnologia quest’ultima in uso in gran parte delle città europee. Nello specifico poi, gli studi e i monitoraggi compiuti dicono che l’impatto sulla qualità dell’aria dell’impianto di Acerra è limitato, rispetto alle emissioni del sistema metropolitano dei trasporti: il traffico automobilistico, ma anche le grandi attrezzature di scala territoriale nel territorio di Napoli, come l’aeroporto e il porto.
A nessuno, in questo momento difficile della storia del Paese e del Mezzogiorno, sfugge il valore del pluralismo, la necessità che tutte le comunità, gruppi, corpi intermedi siano in grado di arricchire il confronto pubblico con le proprie visioni, esigenze, proposte. Nei territori sofferenti dei quali stiamo parlando la Chiesa, la scuola pubblica e il volontariato, rappresentano spesso le sole infrastrutture civili di ascolto e assistenza alle persone. Per questo, il segnale di sofferenza che la Chiesa raccoglie, del quale l’omelia di monsignor Di Donna è interprete, non può essere messo in discussione.
Se realmente intendiamo difendere assieme i cittadini, i territori, e le istituzioni democratiche che li rappresentano, è però il momento di una riflessione nuova, a distanza di sette anni da quel primo documento ecclesiale, che tenga conto con apertura, responsabilità e coraggio dei termini reali della questione, di tutti i dati e le analisi disponibili, delle cose che non sapevamo e abbiamo dovuto giocoforza apprendere. Le generalizzazioni apocalittiche non aiutano a trovare soluzioni, è il tempo dei ragionamenti.
Antonio di Gennaro, pubblicato su Repubblica Napoli del 13 febbraio 2019 con il titolo “L’attacco allo Stato unitario”
Bisogna proprio leggerlo il libricino che Gianfranco Viesti ha da poco pubblicato per Laterza (Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, 55 pp.), che si può scaricare gratuitamente dal sito della casa editrice. In poche pagine Viesti riassume con chiarezza i motivi per i quali le intese per l’autonomia differenziata, stipulate dal governo con le tre regioni più ricche (Veneto, Lombardia, Emilia), debbano essere considerate come l’attacco più grave mai sferrato sinora allo Stato unitario repubblicano, come garante supremo dei diritti di uguaglianza di tutti i cittadini italiani, a prescindere da dove essi vivano, così come scritto nella Costituzione del 1948.
Se le intese passassero nella versione attuale (il parlamento non potrà infatti modificarle, ma solo approvarle o rigettarle), i trasferimenti per servizi fondamentali, a partire da scuola e sanità, verrebbero commisurati al reddito prodotto dai diversi territori: i cittadini delle aree più ricche, sarebbero più uguali degli altri, meritevoli pertanto di quote maggiori di istruzione e salute.
Qualcosa del genere in verità è già avvenuto, nel riparto dei fondi alle università, e anche nella sanità. In tutti e due i casi i sistemi in vigore sono basati su criteri che finiscono per indirizzare preferenzialmente le risorse lì dove le cose vanno già meglio. Il risultato inevitabile è l’impoverimento ulteriore delle sedi universitarie del Sud, e la migrazione di studenti verso il nord (157.000 l’anno secondo Svimez, pari al 30% del totale, con una perdita annua di 3 miliardi). In campo sanitario la secessione è di fatto già avvenuta, stando al rapporto 2018 dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, secondo il quale la differenza di 2-4 anni nella speranza di vita tra Nord e Sud è diretta conseguenza del diverso livello di assistenza garantito dal Servizio sanitario nazionale.
Si diceva che, con un deficit intollerabile di democrazia, le due Camere dovranno ora esaminare le intese per l’autonomia differenziata a scatola chiusa, prendere o lasciare. In più, osserva Viesti, il processo è irreversibile, perché le eventuali modifiche richiederebbero il concerto obbligatorio delle regioni interessate che, una volta ottenuto l’insperabile, non saranno mai disposte a fare marcia indietro.
Tutte queste cose, scrive Viesti, si verificano in uno dei momenti più difficili della storia del Mezzogiorno moderno – il primo ventennio del nuovo secolo – nel quale si registra in questa parte del Paese una congiuntura mai verificata sino ad ora, caratterizzata contemporaneamente da una diminuzione della capacità produttiva e del reddito, e da un declino demografico drammatico, nei numeri come nelle prospettive.
Gli sconquassi che un sistema di autonomie asimmetriche così congegnato creeranno all’intelaiatura istituzionale del Paese sono efficacemente descritti nel lungo articolo che Carlo Iannello ha pubblicato sulla rivista online Economia e Politica (Regionalismo differenziato: disarticolazione dello Stato e lesione del principio di uguaglianza). Profittando dell’ambigua articolazione dell’articolo 116 della Costituzione, così come modificato dall’infausta riforma del 2001, le ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia che verranno concesse alle tre regioni del Nord, finiranno per erodere le competenze dello Stato centrale in materie strategiche, invertendo di fatto la gerarchia costituzionale: alla fine, la competenza piena resterà dalla parte delle regioni, quella residuale dalla parte dello Stato, a questo punto del tutto impossibilitato a sviluppare le politiche di riequilibrio necessarie a tenere unito il Paese. “La stessa capacità dello Stato di tutelare gli interessi dell’intera collettività nazionale” scrive Iannello “sarebbe compromessa. Le regioni diventerebbero piccole patrie e lo Stato si ritirerebbe da settori strategici per il sistema Paese, con l’effetto di limitare la competitività dell’intero Paese, con danni per tutti.”
Mentre segmenti importanti della classe dirigente (vedi le posizioni dell’Unione industriali di Napoli e dell’Università Federico II) esprimono preoccupazioni simili per la tenuta del Paese, proponendo precisi paletti e condizioni, l’atteggiamento dei partiti appare frastagliato. Se la Lega evidentemente può gioire come un sol uomo per il risultato raggiunto – mantenere il gettito fiscale nelle regioni ricche – le altre forze appaiono divise al loro interno, con posizioni che vanno dalla ferma opposizione, a un dialogo possibilista sul testo dei provvedimenti, perché “non bisogna fare regali alla Lega”.
Anche l’ex ministro Delrio, nella sua lunga intervista su queste pagine a Dario Del Porto, invita alla calma, ribadendo che l’autonomia è un bene in sé, e che il meccanismo dovrebbe essere temperato da un maggior ruolo di città e aree metropolitane. Peccato che le città del Mezzogiorno siano alla canna del gas, in crisi finanziaria nera e già tecnicamente fallite, né si capisce come possano riprender fiato, in uno scenario come quello prospettato, di ulteriore ridimensionamento dei trasferimenti dallo Stato centrale.
Il ministro poi dovrebbe andarci cauto con l’ingegneria istituzionale, tenuto conto che la legge su province e aree metropolitane che porta il suo nome ha prodotto esiti veramente modesti, con le province declassate a enti metafisici di secondo livello, impoverite di risorse ma non di competenze, e le città metropolitane che restano creature indefinite, prive di un reale potere di governo sulla galassia riottosa di comuni che ne fanno parte.
Stiamo attenti quindi a giocare con gli equilibri costituzionali. La cattiva riforma del 2001 doveva tagliare l’erba sotto i piedi alla Lega, si è visto poi come è andata. E anche le intese preliminari con le tre regioni ricche, come sottolinea Viesti nel prezioso libricino, non le ha firmate questo governo, ma quello precedente, quando già la legislatura era terminata, e ci si sarebbe dovuti limitare all’ordinaria amministrazione. Rincorrere l’avversario sulla sua agenda ha comportato solo disastri, è il momento di dire cose sostanzialmente diverse, al Mezzogiorno e al Paese intero.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli del 7 giugno 2018
Lo scorso 23 maggio. la Commissione europea ha premiato a Bruxelles nell’ambito del “LIFE Award”, i 9 migliori progetti di ricerca europei per il periodo 2016-2017.
La buona notizia è che tra i premiati c’è il progetto ECOREMED dell’Università Federico II, per il recupero con tecnologie “verdi” dei suoli agricoli contaminati della piana campana. ECOREMED è stato il più importante progetto di ricerca condotto nell’ultimo quinquennio per studiare le aree agricole della terra dei fuochi e per mettere a punto le strategie di recupero. Ci hanno lavorato un’ottantina di ricercatori delle più diverse discipline, dall’agronomia alla chimica alla medicina, in collaborazione con l’Assessorato regionale all’agricoltura, l’Arpac e la società di ricerca RISORSA. Il premio è stato consegnato dal commissario all’ambiente, il maltese Karmenu Vella, al coordinatore del progetto, il professor Massimo Fagnano del Dipartimento di Agraria, che ha ideato e coordinato il progetto.
Le motivazioni del premio sono rilevanti. In particolare la commissione ha sottolineato tre aspetti: il contributo che il progetto ha fornito al governo italiano per l’identificazione delle aree ferite, e la messa a punto di tecniche di recupero ecocompatibili, basate sull’impiego di piante, microrganismi e compost, che rappresentano un’alternativa concreta a quelle ingegneristiche. In questo modo, con un costo che è un ventesimo delle bonifiche tradizionali, è possibile salvare il suolo, evitandone l’asportazione o la sigillatura, con l’impianto invece di una vegetazione forestale che aiuta anche a ricostruire il paesaggio.
Un altro aspetto considerato nelle motivazioni è l’applicazione pilota di queste tecniche, già nel corso del progetto, a due aree problematiche della piana campana: il podere di San Giuseppiello a Giugliano, un frutteto meraviglioso di sei ettari dove la famiglia Vassallo ha sversato per anni i fanghi delle concerie toscane; e un’area interna dello stabilimento ECOBAT, a Marcianise, fortemente inquinata da piombo. In queste due aree, due boschi inerbiti, con trentamila pioppi, come instancabili fabbriche verdi, lavorano ora per estrarre i contaminanti e tenere in sicurezza i suoli e l’ambiente di lavoro.
Il terzo aspetto che è stato sottolineato dalla Commissione è il lavoro di divulgazione svolto nel corso del progetto, con il coinvolgimento di migliaia di studenti, professori, amministratori, agricoltori: una poderosa opera di informazione, per chiarire i reali aspetti della crisi della terra dei fuochi, e le vie di uscita possibili. In particolare il podere di San Giuseppiello si è trasformato in un laboratorio, un’aula all’aperto dove gli studenti delle scuole pubbliche della Campania, con i loro docenti, vengono ad imparare come si cura e si recupera un paesaggio malato.
Perché alla fine l’aspetto rilevante è proprio questo: la costruzione, rispetto ai problemi gravi della nostra terra, di una competenza, una conoscenza operativa che consenta di progettare e costruire vie di uscita e di recupero, per far tornare la bellezza e la sicurezza di vita, al posto del racconto immutabile di un’apocalisse senza scampo.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli 31 gennaio 2018
Come sta l’agricoltura della Campania dopo la tempesta perfetta della Terra dei fuochi? L’economia della regione cresce più che nel resto d’Italia (+3,2% nel 2017), e la domanda allora è quanto le produzioni della terra contribuiscano a questo risultato, se il motore di Campania felix ha ripreso finalmente a girare. “Repubblica” lo ha chiesto a Vincenzo Sequino, che dirige da anni la sezione campana dell’Istituto nazionale di economia agraria, e di queste cose è autorevole e attento osservatore.
Il ritratto dell’agricoltura regionale fatto da Sequino è per molti aspetti inatteso, lontano dagli stereotipi della comunicazione strillata degli ultimi anni. Nel suo racconto, la crisi della Terra dei fuochi non ha colpito tutti i produttori indistintamente, ma i più piccoli e i più deboli, minacciando l’integrità sociale e territoriale della nostra agricoltura, prima che quella economica. Per quanto riguarda il futuro poi, la Campania, se vuole lasciarsi veramente alle spalle gli anni difficili, ha bisogno di politiche agricole molto diverse da quelle sperimentate sinora.
La prima domanda, naturalmente, è quanto ci è costata Terra dei fuochi, quanto ha pesato sull’economia della Campania.
«Il rapporto che l’Inea (che da poco ha un nuovo nome, ora si chiama Crea) ha redatto per il governo lo dice con chiarezza: a pagare sono stati i piccoli produttori, che sono una componente non secondaria del nostro sistema agricolo. Le aziende più grandi, quelle che hanno potuto permettersi le certificazioni, non hanno sofferto cali di fatturato. Anzi, l’export è addirittura un po’ aumentato. Il piccolo produttore invece ha dovuto svendere verdura e frutta di alta qualità con ribassi fino al 75%, e in forma anonima, con i nostri prodotti che sono stati etichettati con provenienze diverse dalla Campania. Molti agricoltori, anche giovani da poco entrati in attività, sono falliti, le terre sono in abbandono, in mano alla speculazione fondiaria. Il disastro territoriale e sociale si unisce a quello economico e per certi versi preoccupa di più».
E adesso?
«Le statistiche vanno lette con attenzione, perché l’agricoltura è un settore strutturalmente “anticiclico”, funziona un po’ come un ammortizzatore: va meglio quando il resto dell’economia va male, ed ha invece risultati meno esaltanti quando le cose vanno bene. È quello che è successo negli anni scorsi e sta succedendo ora. Quando c’era recessione l’agricoltura era l’unico settore non in rosso. Ora che l’economia è ripartita i dati, ad esempio quelli Svimez, dicono invece che l’agricoltura è l’unico settore in flessione, mentre tutti gli altri crescono. Ma qui ha ancora ragione Manlio Rossi-Doria, le cose dell’agricoltura vanno valutate su tempi diversi, mantenendo il passo “dei cavalli dal fiato lungo”».
Se i dati congiunturali non ci indicano la direzione, a cosa dobbiamo guardare allora?
«Bisogna capire innanzitutto qual è il ruolo dell’agricoltura in un’economia moderna, post-industriale. In apparenza, il contributo del settore primario al Pil, il prodotto interno lordo, è molto piccolo, intorno al 2,6%. L’agricoltura sembrerebbe una voce assolutamente marginale » .
Ed invece?
«Il Pil agroalimentare è come un missile a più stadi. Se a questo valore aggiungiamo quello dell’industria di trasformazione raddoppiamo, e arriviamo al 5%. Dobbiamo poi considerare la distribuzione commerciale, ed allora triplichiamo, e siamo al 16%. Manca ancora una quota, quella legata alla ristorazione, al turismo eno-gastronomico e culturale e al paesaggio. In questo modo possiamo arrivare intorno al 20%, vale a dire un quinto del Pil, che non è poco».
Perché il Pil agroalimentare è così importante?
«Perché è la parte del prodotto interno lordo che è più legata al territorio, quella che in tempi di globalizzazione è più difficile copiare e replicare altrove. Insomma, si tratta del pezzo di economia – pensiamo alla mozzarella di bufala, ai grandi vini campani, al San Marzano e agli agrumi della Penisola e della Costiera – che, se sei bravo, nessuno può portarti via. È una parte importante del tuo brand, della tua capacità di imporre la tua cultura, il tuo stile di vita, di quello che il politologo americano Nye ha chiamato “soft power”. Per una regione come la Campania, seconda solo alla Toscana per numero di visitatori dei musei, si tratta di una risorsa importante. Nella piana del Sele noi già assistiamo a questa integrazione tra agroalimentare, cultura e turismo, per merito di imprenditori e amministratori che hanno intuito queste possibilità e ci hanno creduto. È un modello da comprendere, e da riproporre. Certo poi, a mettere insieme il restante 80% del Pil della regione devono pensare l’industria, le manifatture e i servizi. Chi propone un futuro per il Mezzogiorno fatto solo di agricoltura e turismo, sta raccontando fesserie. Ma c’è dell’altro…».
A cosa si riferisce?
«Gli agricoltori sono relativamente pochi, solo il 6% circa degli occupati, ma fanno un lavoro importante: tengono in ordine il 90% del territorio regionale, che non è fatto di città ma di coltivi, pascoli e boschi. Sono loro che provvedono ogni giorno alla cura del paesaggio, e alla prima difesa dei suoli. Tutto questo ha un nome, si chiama “multifunzionalità”, ma nessuno paga gli agricoltori per il loro lavoro, gli aiuti comunitari servono anche a questo».
Quale politica occorre allora per realizzare queste cose?
«La domanda va declinata al plurale, perché non esiste un’agricoltura della Campania: abbiamo ormai una molteplicità di territori – pensiamo alla piana del Sele, al Cilento, la pianura Campana, la valle Telesina, le terre del Garigliano e del Roccamofina, gli altopiani del Fortore – ciascuno dei quali ha un suo sistema produttivo, le sue filiere, i suoi prodotti di qualità. Ciascuno ha le sue esigenze, e non basta una politica sola. Anche qui dobbiamo tornare a Rossi-Doria e al suo slogan “a realtà diverse politiche diverse”. Anche il nostro modo di usare i fondi comunitari deve cambiare profondamente».
In che senso?
«Ci è mancata una strategia. Abbiamo pensato che i regolamenti comunitari ci fornissero loro una strategia, e invece sono solo la cassetta degli attrezzi per fabbricarcene una, che sia solo nostra. Li abbiamo recepiti troppo passivamente, in maniera poco selettiva. È venuto il momento di capire prima chi siamo e di cosa abbiamo bisogno, e poi usare gli attrezzi che veramente servono, nel posto giusto. Ci serve un po’ più di consapevolezza, e di personalità».
È un programma estremamente impegnativo.
«L’importante è iniziare, decidere quale agricoltura immaginiamo tra vent’anni: se veramente desideriamo un tessuto di aziende più grandi e solide, accostandoci alla media europea; agricoltori più giovani e preparati; un sistema di ricerca e assistenza tecnica che promuova innovazione e renda i nostri prodotti più competitivi sul mercato globale. Un territorio e un paesaggio finalmente più curato e ordinato. Su tutte queste cose dobbiamo assegnarci un programma, e lavorarci con pazienza, senza cambiare direzione ogni volta. I cavalli dal fiato lungo di Rossi-Doria servono ancora», conclude Vincenzo Sequino.
Il sindaco di Orta di Atella condannato a 8 anni di carcere. L’urbanistica e il territorio di un paese erano in mano ai clan. Una situazione descritta analiticamente da Agostino Di Lorenzo sul numero 73/74 della rivista di scienze sociali “Meridiana” “ECOCAMORRE “. L’articolo di Agostino era titolato: L’anticittà della camorra: la condizione disurbana della provincia di Napoli. Conviene andare a rileggerselo. Ancora prima, Antonio D’Agostino aveva denunciato proprio il malaffare di Orta d’Atella, organizzando un incontro di denuncia con le Assise di Palazzo Marigliano. Adesso, le notizie sul processo al sindaco di Orta di Atella riportate da Repubblica Napoli l’11 gennaio scorso confermano che non si trattava di elucubrazioni: secondo i giudici è andata proprio così.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli, 20 dicembre 2017
L’annuncio di Invitalia che bisognerà ripetere la bonifica sull’intera area ex- Ilva, anche quella sulla quale si è già lavorato, è stato accolto con una certa freddezza da un’opinione pubblica già provata da vent’anni di opacità e inconcludenza, e viene da chiedersi cosa augurarsi ora dalla cabina di regia di domani, e in che modo sia possibile ridare smalto e credibilità al progetto istituzionale per Bagnoli. Certo, il comunicato di Invitalia pone alcuni interrogativi. Con lodevole trasparenza, l’Agenzia aveva tempestivamente pubblicato sul proprio sito i risultati dell’attività di caratterizzazione dei suoli e delle falde. Il passo successivo, stando alla legge, era quello dell’analisi di rischio, ma a questo punto c’è stata un’improvvisa accelerazione, dai dati di base si è passati direttamente all’annuncio che le gare per i lavori di bonifica sarebbero state avviate già a partire dal 22 dicembre prossimo, sull’intera area.
Il percorso delineato dal decreto legislativo 152/06 è diverso, lo ha spiegato bene Carlo Iannello nel suo articolo del 17 novembre scorso, proprio su queste pagine. Come scrive Iannello: « Le bonifiche dei suoli inquinati vanno eseguite solo dopo un’analisi di rischio che attesti la pericolosità sanitaria e ambientale di un sito: non è sufficiente il superamento delle soglie di contaminazione » . Il discorso di Carlo non fa una piega: con l’analisi di rischio noi passiamo da un rischio solo ipotizzato, ad un rischio concreto, specificatamente riferito a quell’ecosistema, all’uso che intendiamo farne, al contesto nel quale ci troviamo. Da una bonifica astratta, tabellare, ad una bonifica pragmatica, che misura gli sforzi in funzione degli obiettivi concreti da raggiungere. Nel dettagliato rapporto 2016 di Confindustria sulle bonifiche, una delle cause di inefficienza del sistema a scala nazionale ( sino ad oggi in Italia si è riusciti a bonificare poco meno di un quinto delle aree contaminate presenti nei Siti di interesse nazionale) è identificata proprio in questo aspetto: nell’incapacità di applicare la legge per intero.
A Bagnoli questo ragionamento non è stato ancora fatto, e ci si chiede allora come sia possibile definire i capitolati d’appalto, non avendo determinato le soglie di rischio; come siano state individuate le aree da bonificare e i relativi obiettivi, e cosa in definitiva chiederemo di fare alle ditte che eseguiranno i lavori.
Tanto più che i dati di caratterizzazione dei suoli evidenziano, specie nel primo metro di profondità, criticità piuttosto localizzate, che andrebbero ad ogni modo confrontate, se si intende ancora una volta applicare bene il decreto 152, con i valori di fondo, non solo quelli naturali ma anche quelli antropici, derivanti cioè dalle nostre molteplici attività. Abitiamo un’area densamente antropizzata, motorizzata e (nel bene e nel male) industrializzata, nella quale molte delle sostanze rilevate a Bagnoli dalle attività di caratterizzazione sono ubiquitarie, e la prospettiva, se si ragiona così sbrigativamente, sarebbe quello di dover sbaraccare mezza città metropolitana.
Resta il fatto che la formula istituzionale che il ministro De Vincenti è riuscito a costruire è quella giusta: la cabina di regia nella quale cooperano e dialogano i diversi livelli di governo, dallo Stato al Comune, passando per Regione e Città metropolitana, è la materializzazione dell’idea sacrosanta che il recupero di Bagnoli è una questione nazionale, che richiede il contributo di tutti. Alla cabina è dunque lecito chiedere una serie di cose.
La prima è che si faccia la bonifica giusta, quella prevista dalla legge – tutta la legge – senza forzature. Quello che i cittadini chiedono in questo momento non è un’azione esemplare, simbolica, riparatoria, ma buone decisioni e buona amministrazione. Bisogna usare bene i 270 milioni stanziati, che sommati ai 600 già spesi fanno quasi 900 milioni, poco meno di quanto è costato Expo, con la differenza che noi abbiamo investito questa considerevole cifra non per generare conoscenza, turismo, immagine, ma piuttosto per fare movimento terra.
La seconda cosa indispensabile per dare credibilità al processo è il cronoprogramma, con valore di patto inderogabile con la collettività, e con le unità di misura che non devono essere espresse in anni ma in mesi. Sarebbe bene poi relazionare periodicamente alla città e all’Italia su quanto si sta facendo, i risultati ottenuti, le difficoltà incontrate, i soldi spesi.
E, soprattutto, aprire finalmente l’area ai cittadini, c’è da abbattere un muro fisico oltre che di diffidenza, e tutto un rapporto tra la gente e i luoghi da ricostruire. Infine, se davvero si vuole dare il segno che si sta facendo sul serio, bisogna privilegiare la sostanza, i funzionamenti basilari del nuovo quartiere che sta nascendo. In Europa i nuovi insediamenti partono dal ferro, Copenaghen fa scuola, il principio è: prima il treno quindi le case. La linea 6 non basta, è una navetta da parco tematico.
Bisogna ridare priorità nei piani di investimento alle due linee previste dal piano regolatore, mettendo veramente la nuova Bagnoli, fin dall’inizio, in rete col resto della città e dell’area metropolitana. Dobbiamo liberare il quartiere storico dalla mortificante stretta dei binari della Cumana e della Metropolitana. Pensare al trasporto sostenibile, prima che ai porti turistici e agli alberghi. L’uso sobrio dei fondi deve servire anche a questo.
Mario Deaglio, La Stampa del 13 dicembre 2017
Secondo una convinzione largamente diffusa, gli italiani sono «brava gente»: sono pacifici, sensibili e civili e un pezzo di pane al vicino in difficoltà non si nega mai. Naturalmente non mancano importanti esempi in questo senso, ma nel suo complesso il paese sta andando in una direzione diversa.
L’Italia non è diventata solo «rancorosa», come l’ha definita il Censis nel suo 51° Rapporto, ma anche sempre più spaccata tra «ricchi» e «poveri», tra «chi è dentro» e «chi è fuori» come la descrive l’Eurostat in uno studio reso noto ieri. L’Istituto di Statistica dell’Unione Europea analizza la «deprivazione materiale e sociale», una definizione allargata di povertà che tiene conto non solo dei redditi ma anche della capacità della gente di soddisfare bisogni «normali» come quello di abitare in una casa sufficientemente calda, di essere in grado di sostituire un capo di vestiario consunto, di possedere almeno due paia di scarpe.
In base a questi criteri, l’Italia, con il 17,2 per cento della popolazione è sopra la media europea dei «deprivati» e quindi degli esclusi, e, in particolare, sopra i valori di quasi tutti i grandi Paesi del Continente (tra questi, la sola Spagna fa marginalmente peggio di noi).
Con valori più alti dei nostri troviamo soprattutto i Paesi del Sud e molti Paesi dell’Est (ma non la Polonia, la Slovenia e l’Estonia). Il tasso di «deprivazione materiale e sociale» della Germania è pari a poco più della metà di quello italiano, in Austria è ancora inferiore. Tutto ciò fa sì che, passando dalle percentuali ai numeri, l’Italia abbia la poco invidiabile caratteristica di essere in testa alla classifica del numero delle persone in difficoltà con quasi dieci milioni e mezzo di abitanti, contro i 7-8 milioni di Francia e Regno Unito – che hanno una popolazione sostanzialmente pari alla nostra – e della Germania che ha un terzo di abitanti in più dell’Italia.
Se poi si adottano i criteri dell’Istat sugli «italiani a rischio povertà o esclusione sociale» si raggiunge il 30 per cento della popolazione con un fortissimo divario tra il Nord, i cui valori sono abbastanza vicini alle medie europee e il Mezzogiorno dove si è prossimi alla metà della popolazione. E quasi ovunque la tendenza è all’aumento.
L’allargarsi dell’area di esclusione-povertà è un fenomeno mondiale. È però più sopportabile là dove i redditi aumentano con un buon ritmo e i livelli di reddito pre-crisi sono già stati superati, il che fornisce a tutti almeno qualche speranza di inclusione. È anche per questo che centinaia di migliaia di giovani italiani, spesso dotati di livelli medi ed elevati di istruzione, si sono trasferiti e si stanno ancora trasferendo all’estero.
In Italia la crisi economica ha tagliato i redditi più che altrove, ma forse il suo danno peggiore è quello di aver ridotto (per moltissimi giovani, quasi annullato) una speciale porzione del «capitale umano» fatta di fiducia, entusiasmo, programmi, piani di vita. E questo è il succo di cui si nutrono le «vere» riprese, che non possono essere solo economiche ma devono avere alla base qualche obiettivo ideale.
Possiamo certo congratularci di aver fatto ripartire, sia pure, per il momento, a velocità medio-bassa, la «macchina dell’economia» ma dobbiamo riconoscere di non essere finora riusciti a far ripartire la «macchina della società». Ci concentriamo sui sondaggi pre-elettorali ma dimentichiamo che tali indagini – come quella di La 7 resa nota lunedì sera – mostrano che, se si votasse oggi, la somma dei non votanti, di coloro voterebbero scheda bianca o non saprebbero a quale lista dare il loro appoggio, supera di un soffio la metà degli intervistati (e quindi la metà degli italiani).
Può una metà del Paese far finta che l’altra metà non esista? A considerare questo fine legislatura e inizio di fatto della campagna elettorale, si direbbe di sì. È sufficiente gettare un piccolo sguardo alle migliaia di emendamenti alla legge di bilancio 1918, in discussione alla Camera: rappresentano il trionfo del particolarismo, degli interessi di piccoli gruppi. O quando si affrontano i «grandi problemi», lo si fa solo a livello di principi, senza preoccuparsi di dove possano provenire le risorse per realizzarli. Possiamo solo augurarci che il modo degli italiani – e delle forze politiche italiane – di guardare alla loro società e alla loro economia migliori nel corso delle settimane che ci separano dalle urne; e che l’Italia trovi il coraggio di guardarsi nello specchio.
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