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Ottavio Ragone, Repubblica Napoli 11 marzo 2016
Le primarie di domenica 6 marzo hanno parlato e hanno detto alcune cose molto chiare. Bisogna decifrare questi segnali politici sotto il frastuono delle polemiche, oltre gli «esecrabili comportamenti» – sono parole dello stesso Partito Democratico – davanti ad alcuni seggi, ovvero il deprimente scambio di denaro soprattutto in quartieri della periferia. Il primo messaggio delle primarie è che Antonio Bassolino dopo il suo lungo calvario umano e politico ha ancora un rapporto forte con la città. Ma non tale, probabilmente, da raccogliere i consensi necessari per diventare sindaco. Quelle tredicimila schede nero su bianco consentono finalmente di capire, in primo luogo all’interessato, quale peso abbia oggi e quanto la sua figura intercetti le aspettative della città, oltre le legittime esigenze personali di riscatto e risalita dall’ingiusto baratro in cui era precipitato.
La traiettoria politica di Bassolino non è finita, anzi. Ma non sale più, se misurata con il metro del consenso popolare. L’ex sindaco può sostenere – come del resto sta facendo in queste ore – che ha perso perché i fedelissimi di Valeria Valente, lei del tutto inconsapevole, avrebbero imbrogliato in alcuni seggi decisivi. Quattrocentocinquanta voti di scarto sono pochi e si prestano alla disputa a colpi di ricorsi, come in effetti sta accadendo.
Tuttavia se il ritorno in campo di Bassolino dopo tanti anni avesse sprigionato l’energia civica che lui stesso auspicava, valicando gli angusti confini del partito, l’ex sindaco avrebbe surclassato la Valente ben oltre i seggi contesi di San Giovanni, i tradimenti veri o presunti dell’amico-nemico Antonio Borriello, le guerre fratricide e tutto il triste “epos” democratico, l’infinito scontro che ormai appassiona ben poco i cittadini. Quell’attitudine belligerante, diretta scaturigine di antiche vicende politiche, incomprensibile soprattutto ai più giovani.
L’«effetto Bassolino» non c’è stato, perlomeno non nei termini desiderati dai suoi sostenitori, né realisticamente poteva esserci in una città molto cambiata. Tornato da alcuni mesi sulla scena politica, l’ex sindaco adesso l’ha conquistata ancora di più. Ha una sua evidente forza con cui il centrosinistra dovrà fare i conti, considerato che l’uomo si è trovato contro quasi tutto l’apparato del partito e per poco non ha vinto. Però, appunto: non ha vinto. Agli occhi dei napoletani non è il Bassolino di una volta e non lo sarà più.
Quella storia è finita e ora può nascerne un’altra, ma diversa.
Spingendosi oltre questo limite come legittimamente potrebbe fare qualora si candidasse e presentasse una lista civica – Bassolino potrebbe in teoria liberare un nuovo entusiasmo civico. Oppure – ed è invece l’ipotesi più probabile – imboccherebbe una strada secondaria che non conduce a Palazzo San Giacomo, nel disastro generale del centrosinistra.
Bassolino ha ragione da vendere quando rivendica il rispetto per la sua storia. Il Pd ha commesso pesanti errori nei suoi confronti e non potrà più fare finta che lui non esiste, quasi rimuovendolo come se fosse una presenza imbarazzante. Chi ha intelligenza politica non può sentirsi giudicato da dilettanti. Ma l’ex sindaco sbaglierebbe se, per desiderio di rivalsa o per regolare annosi conti politici, sovrapponesse la sua vicenda a quella di una città che non sente più il richiamo del passato. Si respira un desiderio di aria nuova che allo stato solo i Cinque Stelle potrebbero intercettare e in parte ancora de Magistris, sebbene assai più debole del 2011. In questa possibile corrente ascendente il Pd, finora, non si è nemmeno posto. Anche la destra di Lettieri ha più chance.
Il secondo messaggio delle primarie, tuttavia, è che il centrosinistra ha ancora una sua ragion d’essere. Trentunomila votanti non sono un boom ma neanche pochi, in tempi di generale disaffezione alla politica. È perfino sorprendente questo risultato dopo cinque anni di inesistente opposizione al sindaco. Il Pd non ha tirato fuori uno straccio di idea e Matteo Renzi in prima persona sta cercando di colmare il vuoto con Bagnoli, gli investimenti della Apple, le Universiadi e altri scelte che forse verranno. Questa base di consenso, ancorché modesta per la comprensibile delusione accumulata in tanti anni da militanti e cittadini, potrebbe perfino condurre il centrosinistra al ballottaggio, ma solo a patto che il Pd sia unito e utilizzi i pochi mesi che mancano alle elezioni per aprire una grande e seria discussione con la città sul programma. Le polemiche al limite dell’insulto raccontano che l’unità è già una chimera e forse è tardi per rimettere insieme i cocci di una coalizione esplosa in primo luogo sul piano dei rapporti personali.
Se poi vincerà la ragion politica e se questo sarà sufficiente almeno per agguantare il ballottaggio, si vedrà nei prossimi giorni e mesi.
Il terzo e forse principale messaggio delle primarie è che Napoli è stanca. Non ne può più delle beghe del Partito Democratico, dell’esplosione di odii antichissimi, dell’avvilente spettacolo di primarie, i cui veleni si spargono intorno per anni, macchiando una città incolpevole.
Gli scontri di partito non si consumano sulla pelle di una città.
Servono norme chiare per le primarie e uguali per tutti in Italia, ma nel frattempo il Pd e i suoi leader tutti i leader, i vecchi e i nuovi – devono rendersi conto che Napoli chiede una proposta politica chiara per valutarla assieme alle altre in campo, e poi scegliere. La città avverte ben altre urgenze, non ha alcuna intenzione di rileggere l’inconcludente romanzo di un odio senza sbocchi.
Le primarie hanno parlato, bisogna ascoltarle.
Raffaele Sardo, Repubblica Napoli del 6 marzo 2016
“Non c’è alcuna correlazione tra le morti per tumore e i prodotti agricoli coltivati sui terreni della Campania». Il professor Massimo Fagnano del dipartimento di Agraria della Federico II emette la sua “sentenza” presentando la ricerca effettuata per valutare la qualità e la salubrità dei suoli e dei prodotti ortofrutticoli del comune di Casal di Principe. Nella sala consiliare c’è anche il primo cittadino, Renato Natale, insieme all’assessore all’Ambiente Mirella Letizia e al consigliere Mario Schiavone. Per la ricerca sono stati prelevati 50 campioni di suolo e di prodotti vegetali in diverse aziende del comune e consegnati a tre diversi laboratori indipendenti.
«I dati che presentiamo oggi — spiega il professor Fagnano — confermano le campagne di monitoraggio fatte non solo dall’università di Napoli, ma anche da altri istituti, su tutti i terreni della Campania. Viene fuori che sinora c’è stata un’azione di depistaggio, magari in buona fede, da parte di chi ha messo sotto accusa i cavolfiori e i pomodori, mentre nessuno ha indagato sull’aria che respiriamo». Dall’analisi dei dati risulta che nessuno dei 50 campioni vegetali analizzati ha superato il limite di legge previsto dalla legislazione comunitaria. Questo risultato è confermato anche dalle analisi effettuate dall’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno. Per quanto riguarda altri inquinanti organici, non ne sono state rilevate tracce. Dei terreni analizzati, una piccola percentuale presenta valori di berillio, tallio e vanadio più alti di quelli previsti dalle norme di legge. «Ma tali valori — spiega Fagnano — sono da attribuire alla natura geologica dei suoli». Una piccola percentuale dei campioni presenta valori superiori relativamente all’arsenico, al selenio e allo zinco. «Questi superamenti — ha spiegato ancora il professor Fagnano — potrebbero essere dovuti alla natura vulcanica dei suoli. Ma per nessuno di questi campioni è stato rilevato un accumulo nei prodotti vegetali».
Pubblicato su Repubblica Napoli del 6 marzo 2016 con il titolo: “Dossier di Agraria su frutta e verdura: Nessun legame con i tumori“
Le primarie, poverine, non c’entrano. Le avevamo pensate quando credevamo che i partiti ci fossero ancora, ora è diverso. In fondo sono uno specchio, ci restituiscono l’immagine di ciò che siamo: una comunità, eterogenea e scombinata quanto vogliamo, che si sforza ancora di scegliere insieme una linea e un leader; o una guerriglia tra consorterie, l’una contro l’altra armata, che non condividono niente. Con quest’orchestra di pensieri nella testa, mi accingo a mettermi in fila, al seggio.
Antonio di Gennaro, 7 febbraio 2016
Giulio Regeni, 28 anni, studiava i nuovi movimenti sindacali in Egitto; Valeria Solesin, 28 anni, i problemi del lavoro femminile nelle economie europee. Il suo ultimo articolo per il Corriere della Sera aveva titolo “Allez les filles, au travail!” (Avanti ragazze, al lavoro!). L’ultimo articolo di Regeni sul Manifesto, “In Egitto, la seconda vita dei sindacati indipendenti“. Una giovane donna, un giovane uomo che cercavano di capire, che pensavano avesse senso lavorare, impegnarsi, rischiare. Cittadini del mondo, armati solo di intelligenza e sorriso. Ora li sentiamo nostri figli, fratelli, nostre guide, loro che la vita la prendevano sul serio, e tornano alla memoria, in loro onore, i versi di Nazim Hikmet:
La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’aldilà.
Non avrai altro da fare che vivere.
La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate,
o dentro un laboratorio
col camice bianco e grandi occhiali,
tu muoia affinché vivano gli uomini,
gli uomini di cui non conoscerai la faccia,
e morrai sapendo
che nulla è più bello, più vero della vita.
La vita non è uno scherzo,
prendila sul serio
ma sul serio a tal punto
che a settant’anni, ad esempio,
pianterai degli ulivi
non perché restino ai tuoi figli,
ma perché non crederai alla morte,
pur temendola,
e la vita peserà di più sulla bilancia.
Antonio di Gennaro, Repubblica Napoli il 29 gennaio 2016
Dovete immaginare la formazione del sistema metropolitano caotico nel quale abitiamo come un missile a più stadi, che attraversa tutte le fasi della storia repubblicana. La prima ondata è quella del trentennio dopo la guerra, nel corso del quale le superfici delle aree edificate febbrilmente raddoppiano. La crescita urbana si concentra soprattutto nel capoluogo, assieme ai comuni costieri a est e ovest, da Pozzuoli a Torre del Greco, dando così vita a una brutta copia, congestionata, della “Grande Napoli” immaginata da Nitti negli scritti di inizio ‘900.
La seconda fase inizia con il terremoto del 1980, e dura un altro trentennio. La città raddoppia di nuovo, ma questa volta la colata edilizia tracima oltre le colline di Napoli, riversandosi nella grande pianura, sui suoli più fertili del creato. Borghi rurali come Giugliano si trasformano d’improvviso in città con più di centomila abitanti. Non c’è un piano, la città esplode nella campagna, dando vita ad un caos di elementi rurali e urbani che si incastrano disordinatamente, senza più un ordine leggibile.
E siamo alla fase attuale, che penseremmo caratterizzata da un rallentamento dell’urbanizzazione, ma nulla è più lontano dal vero. A scala metropolitana, nonostante lo scempio, la città occupa ancora “solo” il quaranta per cento della superficie territoriale, l’altro sessanta sono ancora boschi e campagne. Questo significa che c’è ancora da consumare, e infatti le superfici urbanizzate continuano a crescere al ritmo di duemila ettari l’anno, in barba al rischio ambientale, al paesaggio, al consumo del suolo.
Metà di questa nuova città è illegale, non ha dietro una previsione, un piano, un controllo, come vorrebbe la Costituzione, e soprattutto è difficile farla funzionare, averne cura. E’ impossibile infatti inseguire questa dispersione urbana dotandola delle reti, dei servizi essenziali, dei sistemi per la depurazione e i rifiuti. Lo scandalo della terra dei fuochi, alla fine, è soprattutto qui, nella insostenibilità ambientale, sociale ed economica di un sistema fondato sul disordine, sullo sperpero del territorio e delle sue risorse.
Nel frattempo, l’area metropolitana è diventata “città metropolitana”, con dentro i 92 comuni della vecchia provincia, ciascuno dei quali, come un bancomat impazzito, vorrebbe continuare a disporre a piacimento della propria quota di capitale territoriale, nell’idea ancora di convertirla in consenso, controllo elettorale e sociale.
In questa situazione drammatica, inspiegabilmente, lo statuto metropolitano di recente approvazione, non fa l’unica cosa veramente necessaria, quella di costruire un governo unitario di scala metropolitana delle trasformazioni territoriali. Un centro di potere sufficientemente lontano dagli interessi, in grado di perseguire, a beneficio di tutti, quegli obiettivi minimi di sostenibilità, che a scala comunale non riusciamo più a vedere.
Se non facciamo rapidamente questo, la democrazia locale è a rischio, il caso di Quarto insegna. Lo ha scritto bene Paolo Frascani nel suo articolo su Repubblica del 17 gennaio scorso (“Il destino sociale e civile dei comuni sotto tiro”): le amministrazioni comunali, di qualsivoglia segno e colore, non ce la fanno proprio a reggere la forza d’urto di un apparato di interessi consolidato, a forte controllo malavitoso. L’unica prospettiva è quella di promuovere una nuova capacità di governo, politica e amministrativa, di scala metropolitana.
In questa complessa partita è necessario assolutamente comprendere che Quarto siamo noi, che c’è una inscindibile comunità di destino, ma anche che il ruolo di Napoli è decisivo. Il capoluogo rappresenta solo un decimo del territorio metropolitano, ma comprende un quinto delle aree urbanizzate, un terzo della popolazione. Dalla credibilità del suo gruppo dirigente, delle proposte che esprimerà, delle responsabilità generali che sarà in grado ad assumere, dipenderà il suo ruolo. Che potrà essere quello di socio di riferimento dell’alleanza, oppure di giocatore scomodo, contro il quale tutti gli altri, alla fine, scelgono di coalizzarsi. Per questo, anche scelte felici e improvvise come quella della Apple, sarebbe meglio viverle come un gol di Higuain, un risultato di squadra, un buon segnale per l’intero sistema metropolitano, piuttosto che come affermazione solitaria di un comune capoluogo che non riesce più a parlare con il suo territorio.
Paolo Frascani, Repubblica Napoli del 17 gennaio 2016
Non sparate sul pianista. I comuni della provincia (ex), di Napoli, sono sotto tiro. Il fantasma mortifero dell’inquinamento nella Terra dei fuochi aleggia nuovamente. È una minaccia che grava su molte comunità del territorio metropolitano: il marchio di una condizione ambientale irredimibile. Si torna a parlare anche di Pomigliano d’Arco, e non per ricordare il primato, riconosciuto al gruppo Fiat/Chrysler, di leader nazionale delle vendite, (più 21 per cento, su base annua),né per la buona prova data dalla coabitazione tra sindacati e dirigenza. Il centro è salito agli onori della cronaca per la polemica sui festeggiamenti per il santo patrono: chiudere per un giorno lo stabilimento o continuare la produzione. Soluzione, questa, che, alla fine, è prevalsa, ma senza impedire che “il caso” mettesse in mostra la difficoltà di armonizzare la sensibilità religiosa con la competizione globale. E, infine, Quarto, divenuta emblema della crisi politica delle periferie meridionali.
I fatti sono noti. Confuso è, invece, il profilo dei loro protagonisti, dedotto dalla cronaca: Rosa Capuozzo, il sindaco sull’orlo di una crisi di nervi, ferma nell’anteporre le ragioni del territorio alla “ragion di stato” del direttorio grillino, ma anche vulnerabile, perché sotto l’osservazione della magistratura, e, quindi, il gruppo consiliare che, pur con significative defezioni, continua a sostenerla. Sono “politici per caso”, spinti dagli stessi dirigenti che oggi li scomunicano, a scendere in campo per scompaginare i giochi della politica locale. Impreparati di fronte a un compito di tal genere, sono stati scacciati dal paradiso terrestre dei puri e immarcescibili seguaci del grillismo, per l’appoggio dato al sindaco. Una scelta che suscita le critiche di un Pd scatenato contro le incongruenti ipocrisie del direttorio 5stelle, ma offre anche lo spunto per una riflessione sulla politica locale. Quarto ha bisogno di essere governata. Ha sperimentato la presenza di interessi malavitosi che, dopo averla cementificata, cercano di assicurarsene il controllo politico, mediante connivenze e appalti pilotati. L’amministrazione Capuozzo ha ricevuto un mandato dalle urne e intende onorarlo. Il suo portavoce ha annunciato con voce esitante, ma con autentica determinazione, l’intenzione di appoggiare il sindaco; poi il fronte si è incrinato, ma i giudizi raccolti dalla telecamera, (Sky Tg 24) per le strade del piccolo centro, sono unanimi: invitano la giunta a non dimettersi. Non aggiungono che il problema politico locale, il destino sociale e civile della loro comunità, è stato completamente ignorato, e ciò non è irrilevante. La vicenda di Quarto non si esaurisce in ambito municipale perché chiama in causa la formazione di un nuovo ceto politico, nell’intera area metropolitana. Riguarda i cittadini che qui , come in altri comuni, durante la crisi dei rifiuti, e domani, magari, a Napoli, scendono in campo contro i vuoti e le omissioni della politica “ufficiale”. Una scelta che non può essere demonizzata dai partiti politici, né strumentalizzata dalle pratiche spregiudicate dei giovani leader pentastellati. Sono immemori del tempo della propria formazione politica, speso a “contrastare” in altre Quarto della “provincia abbandonata” e pensano, ormai, “in grande”, chiudendo rapidamente i conti con questo territorio. Non è la strada da seguire.
I criteri di selezione del ceto politico municipale vanno concordati su una più ampia scala istituzionale. La Terra dei fuochi in attesa di redenzione, Pomigliano costretta tra il vecchio retaggio comunitario e un nuovo futuro economico, sono parte integrante, con Quarto, della città metropolitana di Napoli, e, come tali, vanno aiutate ad affrontare le proprie difficoltà. Conviene ricordarlo a tutti, per guardare da vicino l’evoluzione di un territorio che non si lascia interpretare dalla ristretta prospettiva del Centro Storico di Napoli né, tanto meno, dalle stanze della politica romana.
L’immagine è tratta da vesuviolive.it
Pio Russo Krauss, responsabile per l’educazione sanitaria dell’ASL Napoli 1, ha studiato il rapporto SENTIERI, il documento che ha riattivato negli ultimi giorni le polemiche sulla Terra dei fuochi. Le sue riflessioni in proposito, pubblicate sulla pagina facebook dell’Associazione Marco Mascagna, sono un documento importante e prezioso, da leggere, meditare, tenere a mente, diffondere. Grazie Pio!
Antonio di Gennaro, 15 gennaio 2016
Una recente sentenza del tribunale di Velletri ha sancito la correttezza dell’informazione fornita da l’Espresso nel suo numero, quello con la copertina tutta nera, e la scritta “Vedi Napoli e poi muori”. Il servizio era basato sullo studio US Navy che analizzava il rischio per il personale delle basi dell’area napoletana. (Vale la pena di rileggerli quell’articolo e quello studio, alla luce delle conoscenze che nel frattempo sono state acquisite.)
Questa notizia, associata a quella sul recente aggiornamento del rapporto “SENTIERI” dell’Istituto Superiore di Sanità, viene ora interpretata dai leader dei movimenti Terra dei fuochi come ulteriore conferma delle tesi sull’eco-disastro totale.
Cosa dire? Le finalità dello studio americano, costato molti milioni di dollari, erano quelle di valutare a scala geografica le condizioni di rischio cui era esposto il proprio personale, adottando nel far questo standard di riferimento di gran lunga inferiori a quelli di legge, sia di quella italiana, europea, che di quella americana.
Nel riprendere le conclusioni dello studio, l’Espresso confonde i limiti di rischio, con quelli di legge. Accomunando per di più in un solo fascio l’approvvigionamento idrico da reti pubbliche, che nella città di Napoli, non scherziamo proprio, fornisce un servizio di assoluta sicurezza ed eccellenza (più di centomila controlli annui, in parallelo con quelli ulteriori fatti dal servizio sanitario nazionale), con quelli della città illegale o abusiva, che si approvvigiona non da quella formidabile, instancabile fabbrica di acqua buona che è il nostro appennino calcareo, ma alla prima falda della grande pianura antropizzata, notoriamente caratterizzata da bassa qualità (lo dice già il nostro Piano di tutela dell’autorità di bacino), commettendo così un errore grossolano.
Il magistrato dice che tutto questo non infrange la correttezza deontologica. Che dire? E’ un povero paese quello dove la gestione dei problemi ambientali e sanitari (si parli di terra dei fuochi, qualità dell’acqua, casi Stamina e Di Bella, fino all’infezione da Xylella) è sistematicamente affidata a una sentenza giudiziaria.
La sensazione è che comunque, al di là delle isterie, si stia lentamente formando un giudizio pubblico più equilibrato, aderente alla realtà e orientato alla risoluzione dei problemi, piuttosto che alla loro eterna riproposizione mitica. E’ un gioco faticoso e lungo. Del resto, l’ha scritto un po’ di tempo fa Toqueville: peggio di un regime politico che consente la libertà di stampa, ci sono solo quelli che non la ammettono. E’ la stampa, bellezza.
Immagine tratta da http://www.ecologiae.com
Antonio di Gennaro, 12 gennaio 2016
L’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulle malattie tumorali nella Terra dei fuochi ha agito a scoppio ritardato. Pubblicato in sordina lo scorso mese di settembre, il documento è finito solo da pochi giorni al centro del dibattito pubblico, per vie traverse, dopo la sua pubblicazione sul sito dell’Agenzia ambientale toscana, riattivando d’improvviso polemiche e accuse che parevano provvisoriamente sopite.
In particolare, le conclusioni cui giunge lo studio, con l’evidenziazione di eccessi di mortalità, incidenza e ospedalizzazione per malattie tumorali nei 55 comuni delle province di Napoli e Caserta interessati dal decreto Terra dei fuochi, con particolare riferimento al primo anno di vita e all’infanzia, sono stati impiegati dagli esponenti più in vista del movimento Terra dei fuochi per criticare aspramente quanti avevano a loro dire sottovalutato o negato l’entità dei problemi.
E’ opportuno a questo punto fare un po’ di ordine. Il rapporto dell’Istituto Superiore è un adempimento istituzionale, previsto della legge sulla “Terra dei fuochi”, e costituisce un aggiornamento dello studio SENTIERI, che fotografa la situazione al maggio 2014. Non si tratta dunque di dati nuovi, ma di un’ulteriore elaborazione di quanto si sapeva già, con alcune novità rappresentate dall’attenzione che lo studio rivolge alla popolazione infantile e adolescenziale, e al fatto di prevedere, tra i fattori di normalizzazione dei dati, oltre a quello dell’età, anche la deprivazione sociale.
Per il resto, la metodologia è la stessa impiegata nelle precedenti versioni dello studio SENTIERI: un approccio che, a quanto scrivono gli autori dello studio “… non consente in linea generale, la formulazione di valutazioni di nessi causali”, che non è in altri termini in grado di determinare le cause delle patologie indagate, e ciò vale tanto più, è scritto espressamente nel rapporto, per malattie come i tumori, “ad eziologia multifattoriale”, che possono cioè dipendere da cause molteplici.
Viene allora da chiedersi perché, tra le diverse sorgenti di contaminazione (traffico veicolare, industrie, ecc.) presenti in un’area a forte urbanizzazione, quale quella della Terra dei fuochi, l’attenzione debba aprioristicamente cadere sul fattore “rifiuti”, caratterizzato per di più al suo interno da enorme eterogeneità (rifiuti urbani, speciali, pericolosi…), e da modalità molteplici di interazione con le diverse matrici ambientali (aria, acqua, suolo).
Ancora, gli eccessi di mortalità, incidenza e ospedalizzazione rilevati dallo studio SENTIERI emergono dal confronto dei dati relativi ai 55 comuni compresi nel decreto Terra dei fuochi, con quelli relativi al resto della Campania, ed è questo un punto dello studio che appare francamente debole, perché in tal modo un segmento importante dell’area metropolitana Napoli-Caserta, uno dei territori più antropizzati d’Europa, con densità abitativa superiore ai duemila abitanti per chilometro quadro, viene raffrontato con realtà rurali, che presentano densità demografiche anche venti volte inferiori.
Di qui la proposta, pure avanzata, che il confronto venisse effettuato tra i 55 comuni identificati dal decreto Terra dei fuochi, e realtà urbane adiacenti, a comparabile grado di urbanizzazione. Se il raffronto viene fatto in questi termini, le cose cambiano notevolmente, perché le tendenze evidenziate nel rapporto SENTIERI per il territorio dei 55 comuni, si riscontrano anche in comuni esterni al perimetro considerato, come evidenziato dall’epidemiologo Mario Fusco, direttore del Registro Tumori dell’ASL Napoli3, ed allora francamente non si comprende più l’utilità dello studio, se l’obiettivo era quello di dimensionare e localizzare i problemi, orientando la progettazione delle politiche e degli interventi di risanamento e recupero.
Tornando alle polemiche di questi ultimi giorni, nessuno intende negare sofferenze e criticità dell’area metropolitana Napoli-Caserta. Il disordine territoriale, il degrado dei paesaggi, la desolante qualità di vita, fedelmente registrata del resto dalle recenti classifiche nazionali, necessitano di risposte indifferibili, adeguate. La bonifica è una priorità, ma meglio sarebbe partire da una sobria e capillare messa in sicurezza, per suturare le ferite e interrompere le contaminazioni.
Come si stava facendo a Giugliano, nei luoghi simbolo del disastro, con la discarica Resit, e il podere di S. Giuseppiello, sei ettari incantati di ciliegi, peschi e pruni di proprietà dei fratelli Vassallo, intossicati dal cromo dei fanghi di conceria, che il Commissariato di governo per le discariche, con i ricercatori della Federico II, stanno recuperando con l’impianto di boschi verdi di fitodepurazione, nuovi capisaldi ecologici e di civiltà. Un progetto pilota a basso costo, applicabile in tempi brevi alle tante ferite della piana massacrata, inspiegabilmente bloccato perché il Commissariato è in attesa di proroga governativa. Un messaggio concreto di speranza, da riattivare con urgenza.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 13 gennaio 2016 con il titolo “Metodo e dati” ecco i punti neri della ricerca”
M’era sfuggito il reportage sulla Xylella di Daniele Rielli (qui il link), pubblicato su Internazionale.it il 24 dicembre 2015, non a Francesca Santagata, Massimo Fagnano e Silvestro Gallipoli, che lo hanno opportunamente ripreso sulla loro pagina facebook.
Antonio di Gennaro, 25 dicembre 2015
L’articolo di Foschini su Repubblica (Giudici contro scienziati la strana battaglia sulle origini della Xylella), riproposto nel post precedente, è avvincente, si legge come una spy story, ed è un buon punto di partenza per una riflessione, purché si faccia un po’ di ordine.
Il conflitto che viene raccontato riguarda almeno tre questioni che è necessario distinguere:
1) le cause della moria degli olivi: da una parte c’è chi dice che è l’infezione da Xylella a produrla (1a); l’altra tesi è che si tratti invece di una sindrome complessa, che dipende da molti fattori, e in questo caso la lotta alla Xylella non risolve niente (1b).
2) ammesso che si tratti della Xylella, la tesi sposata dalla Commissione europea è che per eradicare la malattia sia necessaria l’estirpazione della piante malate e il controllo dell’insettino che veicola il batterio, la sputacchina (2a); la tesi contrapposta dice invece che l’estirpazione degli olivi non è necessaria, e addirittura aumenta il rischio di infezione, e che è possibile una cura dolce, soft delle piante malate, con il ricorso a limitate potature (2b). La tesi 2b è in qualche modo collegata con la 1b.
3) sempre ammesso che l’agente patogeno sia la Xylella, resta da capire se l’epidemia ha cause naturali (3a), o sia stata provocata da comportamenti colposi (3b) o addirittura dolosi (3c) da parte di ricercatori e aziende con interessi nel settore.
I punti 1 e 2 dovrebbero rientrare nelle competenze della comunità scientifica, e la loro soluzione essere affidata al confronto critico tra ricercatori e tecnici. Invece, come in altri casi, prima ancora che questo confronto si sviluppi, le diverse tesi divengono materia di conflitto tra istituzioni (commissione europea e ricercatori mainstream da un lato, vs magistratura e ricercatori alternativi dall’altro), ed allora tutto diventa più difficile, perché il ragionamento viene sostituito dalla difesa a oltranza di posizioni di principio.
Il punto 3 introduce la possibilità di responsabilità umane, e qui vengono tratteggiati diversi possibili racconti: quello più semplice, dell’errore umano, o quello della natura violentata che sfugge al controllo, come in Jurassic Park (3b), fino ad arrivare alla tesi del complotto, come in un romanzo di Umberto Eco (3c).
Il caso della Xylella è emblematico del conflitto tra scienza, istituzioni e società. Gli interessi in gioco sono concreti, e molteplici. La riflessione deve continuare, e la cosa difficile, come in altri casi, è controllare criticamente i diversi aspetti della questione.
Giuliano Foschini, Repubblica 24 dicembre 2015
Diciotto ottobre del 2010. Nella sala conferenze dello Iam, l’Istituto agronomico del Mediterraneo di Bari, centro di ricerca internazionale orgoglio d’Italia, sono riuniti in un workshop alcuni tra i più importanti patologi vegetali al mondo. “Phytosanitary Workshop on the Quarantine Pathogen Xylella fastidiosa” è il titolo dell’incontro. Si discute di una tremenda peste degli ulivi che già colpito gli Stati Uniti e alcuni Paesi europei, in grado in un attimo, come fosse Medusa, di rendere pietra un albero secolare. Qualche giorno prima, per gli studiosi riuniti a Bari, era arrivata dall’Olanda una provetta. Sull’etichetta era scritto in rosso: dangerous. E al rigo successivo: Xylella.
Febbraio 2013. I signori Russo, che hanno alcuni alberi nell’agro di Gallipoli, segnalano una strana malattia che ha attaccato i loro ulivi: sono tutti bianchi, ormai secchi. Lo sono diventati in pochi giorni. Nel giro di un mese arrivano decine di segnalazioni dalla stessa zona alle associazioni di categoria che immediatamente avvisano le autorità.
Agosto 2013: grazie a una “folgorante intuizione” un professore barese, Giovanni Paolo Martelli, suggerisce di cercare la presenza del batterio Xylella in Puglia, fino a quel momento mai individuato. Pochi mesi dopo, a settembre, quell’intuizione diventa una certezza: “Identificazione del Dna della Xylella fastidiosa olandese in Puglia”, scrivono in un lavoro scientifico alcuni docenti baresi, tra cui Martelli. Il 15 ottobre si muove anche la Regione Puglia. Poi arriveranno il ministero, la Protezione civile e l’Unione europea: la Xylella ha attaccato la Puglia, sentenziano. Sono a rischio un milione di alberi, anche quelli che vivono da secoli. Bisogna tagliarne, subito, almeno diecimila. Altrimenti sarà l’epidemia.
È necessario ripartire da qui, campagne di Gallipoli, sole di dicembre e tutto intorno tronchi di alberi ormai secchi, per raccontare la peste. E per provare a muoversi all’interno di una vicenda che ha le fattezze di una calamità (una terra che perde la propria storia, la propria bellezza), i contorni di una spy story (come ci è arrivata la Xylella in Puglia?), le conseguenze di una guerra tra accademia e giustizia (sono universitari o incoscienti?), il rischio di una battaglia tra scienza e cialtroneria (virus o scie chimiche?). Sul tavolo ci sono infatti due storie opposte e parallele: la prima racconta di un assalto alla natura fatto da professori incoscienti, politici in cattiva fede e multinazionali e proprietari terrieri a caccia di denaro. Vittime: gli alberi di ulivo pugliesi. La seconda di magistrati inconsapevoli, consulenti matti, scienziati accusati ingiustamente. Vittime: sempre gli alberi di ulivo pugliesi.
I fatti: l’Italia, tramite il suo commissario, il capo della Guardia forestale, Giuseppe Silletti, ha ordinato nei mesi scorsi il taglio di tutti gli alberi malati di Xylella, cinquemila almeno. Lo ha imposto l’Unione europea cui spetta il controllo dei patogeni. Si ritiene infatti che l’unica maniera per contenere il virus sia eradicare. «Non c’è altro da fare», ripete ancora oggi Silletti e, con lui, i professori. «Siamo affranti, ma la scienza deve avere la forza di non piegare la testa», dicono. Affranti. Perché la procura di Lecce ha iscritto tutti loro nel registro degli indagati, Silletti compreso, sostenendo che stanno sbagliando tutto. E che se il virus si è espanso è anche colpa loro: «Tagliare fa aumentare l’epidemia, dimostrano i dati empirici. E poi non c’è alcuna prova che la Xylella sia la causa unica dell’essiccamento ». Primo punto: come è arrivata la Xylella? «Dalle piante ornamentali del Costa Rica», sostengono gli universitari. «Falso. Probabilmente da quel convegno», rispondono i magistrati. Nel provvedimento di sequestro raccontano infatti di «gravi irregolarità» nei documenti che accompagnavano le provette giunte dall’Olanda. E annotano anche che alcuni di quei documenti sono spariti. Li hanno chiesti: ma prima non è stato possibile perquisire lo Iam perché ha lo status di sede diplomatica. E poi, domandandone l’esibizione volontaria, sono stati presi in giro: «Un dipendente è uscito a cercarli ed è rimasto per alcuni minuti fermo fuori dal bagno. È tornato e ha detto che non li aveva trovati».
L’arrivo della Xylella potrebbe, dunque, essere stato uno sbaglio. Ma che interesse hanno ora gli universitari a mentire? L’università, osserva ancora la procura, ha creato uno spin off per un nuovo tipo di coltivazione dell’ulivo non intensiva: e soci, in questa esperienza, sono proprio lo Iam e l’Istituto Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla Xylella. Altri “amici” della società sono poi Vito Savino, ex preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, «fautore dell’eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali», e Giovanni Paolo Martelli, il primo a parlare di Xylella. «Savino, Godini e Martelli — scrive ancora la procura — condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell’Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell’Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione Xylella».
Unione europea che ha deciso anche di erogare i contributi per gli alberi da tagliare sulla base non della quantità di olio prodotta ma del numero di piante. «Non si tratta di un particolare », dicono qui a Gallipoli quelli con le mani sporche di terra. «Da qualsiasi parte sia arrivata, la Xylella si è diffusa tramite un animale che salta da una pianta all’altra nei campi non arati. Si è diffusa per colpa di chi non cura le piante. E chi non le cura ha tutto l’interesse a tagliare…». In realtà, dicono i pm di Lecce, si potrebbe essere diffusa per altri motivi. Per esempio, per colpa di alcuni campi sperimentali di pesticidi svolti prima dalla Regione e poi dalla Monsanto, la multinazionale del settore. La stessa che nel 2007 aveva acquisito la società «Allelyx — fa notare la procura — parola specchio di Xylella….». «Quei prodotti — si legge nel decreto — avrebbero potuto produrre gravi conseguenze su batteri eventualmente già presenti e silenti». «Che succede se durante la peste, abbassi le difese immunitarie?», si chiede un contadino. Che indica uno dei campi sui quali avevano svolto quelle sperimentazioni. È tutto nero. Bruciato. Più nessuna traccia. Non è stata la Xylella. Ma un incendio, qualche mese fa.
Vedi anche il post su Horatio “Mediterraneo senza olivi“
Foto dell’uliveto secolare Alliste Calaturo, da ilmiosalento.com
Antonio di Gennaro, 29 settembre 2015
Certo Francesco è stato il primo pontefice giunto a Washington provenendo da Cuba, ma è stato anche il primo a celebrare in piazza del Plebiscito passando prima da Scampia, e a distanza di tempo quella visita a Napoli assume un valore programmatico, perché rileggendo i testi degli interventi, è chiaro che in quel pellegrinaggio Francesco ha anticipato molti dei temi poi sviluppati nell’enciclica Laudato sì, pubblicata solo pochi mesi dopo.
Insomma, agli occhi di Francesco, la crisi e le contraddizioni dell’area napoletana sono proprio il prodotto dei meccanismi analizzati nell’enciclica, il prevalere della cultura dello scarto, dove ad essere scartati sono tanto i beni che consumiamo, trasformati frettolosamente in rifiuto, quanto le persone, marginalizzate a vivere in porzioni di territorio che degradano irreversibilmente, in carenza di lavoro, servizi, sicurezza, progetti decenti di vita.
Nella Laudato sì non si fa differenza tra crisi ecologica e crisi sociale, sono le due facce della stessa medaglia, e nessuna strategia di recupero dell’ecosistema è possibile senza affrontare le cause sociali e i fattori di ingiustizia che sono le cause prime del disastro. Il richiamo è a un’ecologia integrale, a una cultura della cura, da contrapporre a quella dello scarto: cura quotidiana del territorio, inteso come “casa comune”, come luogo della nostra vita da riempire nuovamente di senso, leggibilità, qualità ecologica ed estetica, nei quartieri popolari come in quelli borghesi, nelle fasce rurali da proteggere, come in quelle congestionate dall’urbanizzazione selvaggia.
Per fare questo, dice l’enciclica, occorrono istituzioni che funzionino, cultura di legalità, lotta alla corruzione che “spuzza” e rovina tutto, ma soprattutto possibilità di lavoro e prospettive decenti di vita, insieme a un’opera indefettibile di educazione e investimento sulle persone, affinché siano per prime in grado di generare gesti e comportamenti quotidiani di cura e rispetto per il comune ambiente di vita.
Nell’enciclica Bergoglio ricorda come il nome scelto per il suo pontificato – Francesco –racchiuda un programma ed una missione, ed allora la prima cosa che il poverello d’Assisi fece fu quella di restaurare la piccola chiesa diroccata di S. Damiano. Di fronte al degrado e alla sofferenza dell’area metropolitana, dice l’enciclica, il nostro compito è simile, ed è quello di restituire, pietra su pietra, valore e armonia ai contesti ecologici e sociali, avendo ben presente che la dignità degli abitanti, anche nelle situazioni più difficili, non è mai intaccata, al di là degli stereotipi e pregiudizi miseri, ed è la risorsa autentica da cui partire: come ha ricordato il presidente Mattarella nella sua visita alla scuola di Ponticelli, nel DNA delle persone c’è la possibilità di riscatto, piuttosto che un immodificabile destino.
In un momento nel quale le istituzioni repubblicane, dallo Stato in giù, mostrano evidenti difficoltà a proporre percorsi concreti di riscatto per Napoli e il Mezzogiorno d’Italia, l’enciclica di Francesco diventa uno strumento importante di comprensione, ma anche una scatola piena di attrezzi, per iniziare a costruirla, qui ed ora, quella cultura della cura dalla quale dipende la nostra sopravvivenza.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 30 settembre 2015 con il titolo “L’enciclica del papa e la visita a Scampia”
Antonio di Gennaro, 31 luglio 2015
E’ davvero il catastrofismo l’ultima risorsa, il linguaggio obbligato per chi intenda portare all’attenzione del dibattito pubblico e dell’agenda di governo nazionale la difficile condizione del Mezzogiorno e della Campania? Per molti versi, la strategia narrativa adottata dall’ultimo rapporto Svimez, con l’immagine forte di un meridione a rischio di sottosviluppo permanente, e una situazione socio-economica addirittura peggiore di quella greca, appare simmetrica a quella che si è affermata in campo ambientale con la Terra dei fuochi, che è il racconto di un ecosistema irrimediabilmente compromesso. Le tinte sono altrettanto fosche, e sono quelle di una catastrofe oramai senza scampo.
Nel caso della Terra dei fuochi abbiamo poi capito che non era veramente così, il territorio è ferito, ma il grosso dell’organismo è sano, e c’è una concreta possibilità di recupero. Il problema è che il racconto martellante della catastrofe è come se avesse alla fine estenuato ogni capacità di reazione, perché di fronte alla prospettiva del male totale non c’è riformismo o programma incrementale che tenga, ogni azione appare inutile, le motivazioni vengono meno, e non si sa nemmeno da che parte iniziare. Il catastrofismo invoca improbabili palingenesi, mutamenti radicali di sistema, soluzioni definitive che non verranno mai, più che la capacità quotidiana di affrontare i problemi, di costruire soluzioni a partire dalle cose che è possibile fare, oggi.
Certo, l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è di placebo tranquillizzanti, o di un Pangloss che ci dica che le cose non stanno poi così male. Le difficoltà sono drammatiche, e sono sotto gli occhi di tutti. Resta il fatto che il racconto della catastrofe, sia essa in versione economica o ecologica, al di là della robustezza dei dati e delle analisi – che nel caso di Svimez non è assolutamente in discussione – non è servito sino ad oggi a generare efficaci azioni di governo, a scala locale e nazionale, o a selezionare classi dirigenti più capaci, e rischia anzi di funzionare come alibi, di provocare assuefazione. Abbiamo probabilmente bisogno di una narrazione diversa, che non sminuisca i problemi, ma restituisca senso ed urgenza a un lavoro quotidiano indefettibile, misurabile, prospetticamente orientato. Come gli inglesi, che a detta di Churchill non s’accorsero di aver perso, continuarono cocciutamente a combattere, e finirono per vincerla, la guerra.
Pubblicato su Repubblica Napoli del 5 agosto 2015 con il titolo “Se il catastrofismo diventa un alibi”
Antonio di Gennaro, 25 giugno 2015
In un celebre articolo del 1945 Gaetano Salvemini, ragionando già allora sul riassetto della macchina amministrativa dello Stato, osservava come i confini delle regioni italiane siano una creazione del tutto artificiale, pensata a tavolino, che prescinde dalle strutture geografiche e dalle traiettorie storiche dei singoli territori. Al contrario delle province, il cui disegno, tutto sommato, meglio corrisponde ad una tradizione istituzionale e amministrativa consolidata. Questo carattere di “artificialità” delle regioni torna alla ribalta in un momento come quello attuale, di disaffezione dei cittadini-elettori, che hanno disertato alla grande l’ultima consultazione, quasi a sottolineare l’ininfluenza dell’istituzione, nel mare magno della crisi, per il raddrizzamento dei destini personali e collettivi.
Se guardiamo alla Campania com’è oggi, le valutazioni di Salvemini appaiono tanto più calzanti, se i diversi territori dei quali si compone la regione appaiono tragicamente isolati: in assenza di una strategia comune, prevalgono le rivendicazioni e i conflitti, e l’idea che ciascun territorio abbia maggiori possibilità di superare la crisi facendo da solo, separando il più possibile il proprio destino da quello dell’intera regione.
Un caso emblematico è quello della “Terra dei fuochi”, che gli analisti più avvertiti oramai interpretano, al di là degli slogan e delle parole d’ordine, come una secessione dell’hinterland, che si riconosce oramai più popoloso e influente, da un capoluogo in declino, incapace di esercitare una qualsivoglia leadership, e di coalizzare il proprio retroterra all’insegna di politiche e visioni complessive di riscatto e riqualificazione territoriale.
In questa situazione, risulta evidente come, in assenza di un nuovo progetto politico e istituzionale, in grado di proporre ai territori una traiettoria comune, la Campania semplicemente non esista, e il ragionamento di Salvemini andrebbe allora inteso in senso propositivo, seguendo questa volta le orme di Francesco Compagna, riconoscendo come la regione, alla fine, costituisca il prodotto esclusivo di una visione e di una capacità di programmazione. Al di fuori di questa missione, l’ente regionale non ha ragione d’essere, e dovremmo ammettere, con il depotenziamento delle province, di aver scelto il bersaglio sbagliato.
Eppure i territori della Campania continuano ad essere uno straordinario serbatoio di risorse, materiali e immateriali. Riflettiamo sulla forza planetaria del brand “Vesuvio”, capace di suggestionare l’adolescenza di un ragazzo americano, che poi da grande diventa Ben Stiller, che in questi giorni ha raccontato con stupore ed entusiasmo il coronamento di un sogno di conoscenza a lungo inseguito. Il territorio regionale è zeppo di simili ricchezze, propulsori culturali e comunicativi che potrebbero dare nuova linfa, nella competizione globale, alle filiere del turismo, della manifattura, dei prodotti di qualità, della tecnologia e della conoscenza.
Per fare questo, occorre una nuova alleanza tra i territori, a partire da quella indifferibile tra la grande conurbazione regionale Caserta-Napoli-Salerno, che ospita i tre quarti dei cittadini campani, disagevolmente stipati, con enormi problemi ambientali irrisolti, sul 15% del territorio, e il resto della regione, la grande cintura verde appenninica, dal Matese fino al Cervati, che quei cittadini rifornisce di servizi essenziali come l’acqua, l’aria e la qualità ecologica, ma i cui borghi sono fase di desertificazione demografica e sociale. Le città e le terre della Campania devono raccontarsi e progettarsi insieme, a Roma come a Bruxelles. Tenere insieme tutte queste cose, riconoscere le sinergie al di là dei conflitti, è l’unica strada per la Campania-istituzione e per la Campania-territorio per recuperare un senso, per ridefinire sé stesse.
Pubblicato su Repubblica Napoli dell’1 luglio 2015 con il titolo “La Campania non è un’astrazione”














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