You are currently browsing the category archive for the ‘Politica e istituzioni’ category.

Beppe Grillo ora cita Noam Chomsky e il suo “La democrazia è una luccicante scatola vuota”. Prima c’era stato l’attacco all’articolo 67 della Costituzione che prevede, come tutte la altre costituzioni democratiche nel mondo, il sacrosanto divieto di mandato imperativo per i parlamentari, che devono poter fare liberamente le loro scelte, senza la pistola puntata dello streaming.

Quello che si percepisce è un’insofferenza per le regole, la convinzione che tutti questi formalismi (pazienza se si tratta della Costituzione e delle leggi della Repubblica), non possano limitare, ostacolare, procrastinare l’azione salvifica degli interpreti autentici ed esclusivi del cambiamento, la cui eticità  nessuno può mettere in discussione.

Sembrano cose che non stanno in piedi, ma l’aria che tira è questa, ed è un’aria pericolosa. Poi a me le scatole piacciono, sono oggetti utili, a cominciare da quella più grande, che è la nostra Costituzione.

Certo, sono contenitori da riempire, come ricordava Piero Calamandrei nel ’55 agli studenti milanesi: “La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica.” Il disprezzo, aggiungerei.

Venerdì scorso in giro per la piana de l’Aquila, in questa primavera di nuvole grigie e acqua, con Antonio Perrotti, per preparare il convegno del 5 aprile per il quarto anniversario del terremoto. Antonio è uno di quegli strani italiani, come direbbe Erbani, che con la loro testardaggine civile tengono viva la Repubblica, nonostante tutto.

Il centro storico è sempre lì, i soldi sono stati dissipati nelle smanie paternalistiche del progetto C.A.S.E. Nel mentre, gli edifici della città fantasma restano ingabbiati  con travi e tiranti, o avvolti nei costosissimi ponteggi della Marcegaglia. Intorno, nel gioiello agricolo della piana, tra le cime innevate, impazza la città fai-da-te, di villette finto provvisorie, in una straniata Casoria di montagna, ugualmente eterna come l’originale.

Quanto visto venerdì a l’Aquila è metafora del Paese. Allo stesso modo a Roma, in carenza di fiducia, leadership e progetto, Napolitano tenta di mettere in sicurezza il quadro istituzionale, concedendo un altro giro a Monti – sempre più armatura vuota, come il cavaliere inesistente di Calvino -, con il puntello dei Violante, Bubbico e Giorgetti, al posto di tiranti e impalcature.

Così inferrettata la città della politica tenta di star su, di prender tempo, sempre più svuotata, disertata,in attesa, mentre la vita pulsa altrove.

messainsicurezza_web

Se nel ventennio berlusconiano il paese non ha avuto prima una sua deriva peronista è stato grazie ai tre presidenti. Che non erano tutti di sinistra: cattolico democratico il primo, laico-azionista il secondo, post-comunista il terzo, seppur da sempre su posizioni moderate. Quello che il satrapo col cerone non riesce proprio a digerire è un tratto che ha accomunato le tre figure: la fedeltà alla Costituzione del ’48 vissuta come progetto indefettibile, come religione civile.

E’ facile vedere allora come l’elezione di un presidente alle vongole, post-costituzionale, alla Pera o Letta, per tacer di Schifani, priverebbe il paese di un bilanciamento essenziale. Perché il peso elettorale delle forze riconducibili all’arco costituzionale vale oramai  solo un terzo del totale, e la tendenza è verso un ulteriore raggrinzimento. Il resto è una congerie di populismi assortiti, che nella primordiale assenza di responsabilità e senso istituzionale, gioiosamente trovano motivi di vitalità, inafferrabilità, forza.

Anche chi come il sottoscritto non conosce bene il fenomeno, sta rapidamente apprendendo che il tono della comunicazione grillina rimane costantemente sintonizzato sul Vaffa-day, tra l’irrisione, l’insulto, la minaccia. La scelta non è nuova, abbiamo già ascoltato  in passato personaggi come Craxi e Bossi , ma anche rodomonti di scala minore, come Renato Brunetta e Luigi de Magistris.

Una certa umiltà o prudenza, quando governi, ti vengono dalla durezza dei fatti, ed in effetti i toni del povero neosindaco 5 Stelle di Parma sembrano ora molto più dialoganti e pacati.

Ad ogni modo, la burbanza grillina è certamente corroborata dal buon vento elettorale, ma in democrazia il numero dei voti serve a stabilire chi decide, non chi ha ragione. Per quest’ultima cosa rimane necessario il dibattito pubblico, che presuppone un minimo di urbanità, di capacità di argomentazione, immedesimazione,  ascolto.

E di pazienza, anche e soprattutto con i troll.

“E’ l’ultimo atto ufficiale che compio, sono felice che sia qui” ha detto Napolitano commentando a caldo la commemorazione assieme al presidente tedesco Gauk delle vittime della strage nazista di S. Anna di Stazzema. Alla fine i due anziani leader si sino abbracciati a lungo, in modo irrituale, rimanendo avvinghiati l’un l’altro, ed è in quell’abbraccio il testamento politico di Giorgio Napolitano.

Difficile non provare rispetto, nonostante tutte le perplessità, per il vecchio presidente. E’ lui il grande sconfitto delle ultime elezioni, il suo disegno è andato in frantumi. Il governo tecnico ha certamente evitato il baratro, ma ha fornito a un  Berlusconi  spacciato l’occasione di riciclarsi ancora una volta, a Grillo materiali robusti per la sua affermazione, a un Pd frastornato ulteriori motivi di logorio e sfibramento.

Nel corso di quest’anno abbiamo definitivamente compreso, ove ce ne fosse stato mai bisogno, che Monti non è Ciampi, né Prodi, e neanche Padoa-Schioppa. Mentre la Merkel non è Kohl.

La cancelliera farebbe bene a leggere il libricino profetico che rese celebre il giovane Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, nel quale si scongiuravano i vincitori del primo conflitto mondiale di non vessare la nazione tedesca con condizioni impossibili, perché la sofferenza economica avrebbe comportato lo sfacelo della democrazia. S’è visto poi quanto avesse ragione.

L’esito del progetto del vecchio presidente, il suo dramma personale, sta nel fatto che le elezioni che dovevano tenerci in Europa hanno consegnato il 60% del parlamento italiano a una desolante congerie di populismi anti-europeisti.

In quell’abbraccio tra i vecchi presidenti c’è la consapevolezza tragica della gravità del momento, un’indicazione fragile per il futuro.

In questi giorni incerti di avventure arrischiate, velleità, ostinazioni, furbizie, improvvisazioni, se mi chiedessero di riavvolgere il film, di indicare l’inizio della storia che ci ha condotti sin qui, non avrei alcun dubbio nel tornare al ’98, alla caduta del primo governo Prodi.

Ci dissero che si andava verso equilibri più avanzati, invece avemmo l’osceno crepuscolo del centrodestra, sino alla regressione adolescenziale del grillismo. Fisiologica quest’ultima, magari necessaria, per carità.

Penso sia stato allora che l’ala s’è spezzata. Quel governo magari affrontava il riequilibrio dei conti e le riforme lungo traiettorie socialmente sostenibili. C’era il tempo, la sensibilità, la qualità. Evitandoci lo sprofondo, la macelleria che abbiamo dovuto acriticamente trangugiare.

Certo, continuo a mettermi in fila ogni volta per le primarie. Ma, onestamente,  è più un tornare a quella possibilità negata, che l’adesione a un progetto che non c’è.

Secondo il Censis i redditi nel Mezzogiorno d’Italia sarebbero scivolati al di sotto di quelli greci. In generale, sarebbe meglio smetterla di usare la Grecia come unità di misura nella scala del dissesto economico, è uno stato membro dell’Unione, ha insegnato a tutti noi cosa significa  esser uomini, merita più rispetto.

Ciò detto, il problema esiste. Abbiamo capito che è un ventennio che al Sud i fondi comunitari hanno sostituito i trasferimenti statali anziché integrarli, e il gap tra le parti del paese è aumentato anziché diminuire. Abbiamo capito che queste risorse sono state trattenute da una borghesia alla ricerca di rendite anziché di profitti, in un patto collusivo con una politica di pura clientela, e con una criminalità organizzata estremamente sagace, senza produrre alcun beneficio al territorio, anzi spesso provocando ulteriori sconquassi. Le menti finissime della Corte dei conti europea non sono riuscite ancora a capire quali positivi effetti abbiano mai avuto le decine di miliardi spesi nella scorsa programmazione in Campania.

A causa del patto di stabilità, che blocca il cofinanziamento, da due anni a questa parte la giunta Caldoro ha sospeso il metadone, e questo naturalmente ha comportato indicibile sofferenza.

Dobbiamo imparare dal passato. Ed allora dovrebbe apparire chiaro che il prossimo ciclo di programmazione (l’ultimo?) dovrebbe porsi pochi obiettivi, affinché il lavoro inizi a formarsi, a riprodursi. Primo, assicurare al sistema delle imprese un’infrastruttura amministrativa, territoriale, ambientale in ordine, che funzioni in regime di legalità. Non è compito della politica decidere se produrre succhi di pomodoro o carlinghe d’aeroplano, ma di favorire le  condizioni perché un’ampia gamma di attività possa serenamente svilupparsi. Secondo, contribuire a un clima sociale meno problematico, aiutando le famiglie nella cura dell’infanzia, degli anziani, dei giovani uomini e donne che stanno costruendo la propria vita. Terzo, stabilire uno stile nuovo di moralità e di rispetto degli impegni, con un sistema trasparente di rendicontazione e valutazione dei risultati.

E poi, lasciamo in pace la Grecia, il problema siamo noi.

L’articolo è uscito anche su Repubblica Napoli del 22 aprile con il titolo “Lasciamo in pace la Grecia e mettiamoci al lavoro”, ed è reperibile all’indirizzo

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/22/lasciamo-in-pace-la-grecia-mettiamoci-al.html?ref=search

E’ il titolo del sito e di un libro di Valerio Quatrano, che racconta “come vincere le elezioni con internet”, ma lo slogan imperversa sul web, ed è diventato una sorta di generale implorazione/imprecazione rivolta dal suo popolo  al frastornato centrosinistra nostrano e al suo manipolo di generali stanchi e satolli.

La lezione, per ora, l’ha applicata alla perfezione Beppe Grillo, ma il paragone si ferma qui, perché il fenomeno Obama è fatto si di comunicazione, ma anche di sostanza.

I due ultimi discorsi del presidente, quello del secondo insediamento e quello sullo stato dell’Unione, sono molto importanti, e indicano una strada nuova per i progressisti di tutto il mondo.

In un paese spaccato a metà come una mela, Barack propone un programma per il lavoro, i diritti personali, i beni pubblici, l’ambiente, incardinandolo saldamente nella Costituzione del 1789, considerata un progetto ancora pienamente valido, dotato di “forza duratura”, la fedeltà al quale è la vera idea unificante della nazione, e la cui piena attuazione è “un viaggio senza fine”.

E’ su queste basi che Obama propone il suo New Deal, un grande programma federale di investimenti pubblici per l’istruzione, la ricerca, l’ambiente, e per la manutenzione dei beni pubblici, a partire dai 70.000 ponti dai quali dipendono le comunicazioni interne del paese.

“Il pareggio di bilancio non è una politica” ripete il presidente, mentre  la precarietà sta corrodendo minacciosamente la vita delle persone e le fondamenta stesse della coesione sociale.

E’ per questo, tornando alle cose di casa nostra, che non possiamo condividere quanto scrive sul Corriere Galli della Loggia, secondo il quale l’elezione di Laura Boldrini e Pietro Grasso costituirebbe la prova della definitiva perdita di identità della sinistra italiana, che pure aveva espresso per tali cariche figure come la Iotti, Ingrao, Napolitano, Violante. E’ vero il contrario, perché i neopresidenti hanno fatto due discorsi che più obamiani non si potrebbe, nel solco della nuova sinistra mondiale che si va formando, che è democratica, costituzionale, repubblicana.

E agli amici che mi ripetono che, Obama o non Obama, l’America è sempre la stessa, rispondo che io Dick Cheney me lo ricordo bene, e una differenza la vedo.

Ps. Ho ragionato di queste cose anche nell’ultimo articolo pubblicato da Repubblica Napoli reperibile all’indirizzo web http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/02/27/beni-pubblici-beni-comuni-istruzioni-per-luso.html?ref=search

Barack-Obama-Forward

Messo alle strette il centrosinistra ha tirato fuori dal cilindro due presidenti delle camere di elevato profilo, di assoluta qualità. Mettendo insieme i loro due discorsi di insediamento viene fuori quel racconto credibile di rinascita sociale ed  istituzionale che non si è riusciti a fare in campagna elettorale. Con questi volti e queste parole probabilmente l’esito delle elezioni sarebbe stato differente. I due nuovi presidenti hanno tracciato un programma di governo che non si comprende perché non debba e possa essere sottoscritto dalle forze che nel nuovo parlamento premono per un cambiamento, a cominciare dal Movimento  5 stelle, che ieri ha perso un’occasione.

Se ci mettiamo anche il discorso storico di Francesco, con quelle parole sulla povertà della Chiesa, mai udite da un pontefice, ieri è stata una giornata importante, stavo per scrivere storica. Resta da capire se siamo ancora in tempo.

Perché poi, alla fine, questa nostra Repubblica è fatta di tre cose: sovranità, popolo e territorio. L’uso e l’abuso del territorio sono questioni politiche per eccellenza. Una delle novità del recente sconvolgimento elettorale, con l’affermazione del Movimento 5 stelle, è il ritorno del territorio nell’agenda politica. Non il territorio dei tecnici e degli specialisti, ma quello dei paesaggi urbani e rurali della nostra povera quotidianità, quelli che attraversiamo tutti i giorni, che determinano i nostri stati d’animo, che vorremmo migliori, più belli, salubri e sicuri. Il territorio vissuto attraverso gli occhi dei cittadini.

I partiti imbalsamati della prima e seconda repubblica se n’erano dimenticati. La questione ambientale era scomparsa dai programmi, della sinistra come della destra. Il notevole consenso raccolto da un movimento che ha messo la qualità del territorio al centro della sua azione, è un segno ulteriore dell’allontanamento (irreversibile?) della vecchia classe politica dai desideri, le aspirazioni, le reali urgenze dei cittadini. Per i quali, invece, la cura, la manutenzione, la riqualificazione delle città e dei paesaggi è l’opera pubblica fondamentale, il New Deal per risollevare il paese.

Si possono fare molte cose con il 25% dei voti. Si può partecipare a un governo di coalizione, o sostenerlo dall’esterno. Si può stare all’opposizione. Si può anche chiedere l’incarico per formare un governo di minoranza: può darsi che gli altri decidano di sostenerlo. Sono tutte posizioni legittime, dipende dagli obiettivi che ci si pone.

Diverso è dichiarare che le cose che uno vuole fare sono possibili solo disponendo della maggioranza assoluta, anzi della totalità dei consensi. L’idea non è nuova, l’ha già avuta Berlusconi. La convinzione che i propri obiettivi siano perseguibili  esclusivamente “in purezza”, senza contaminarli con accordi con altre forze, lasciamola alle sette religiose e ai movimenti integralisti.

E’ nel pluralismo di posizioni che le scelte collettive si formano, si attuano, diventano realtà.

L’onorevole Gaetano Pecorella, nel presentare nei giorni scorsi i risultati del lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti in Campania, non ha resistito alla tentazione di fare cattiva letteratura. Perché sono senz’altro condivisibili le conclusioni contenute nel rapporto, secondo il quale l’istituzione del commissariato straordinario ha acuito la crisi, anziché risolverla, coprendo illegalità e collusioni d’ogni genere. Lo diciamo e scriviamo da anni, fa piacere che ora il parlamento della repubblica dica che effettivamente è andata così.

Inaccettabile e di cattivo gusto, invece, la metafora utilizzata dall’avvocato, che ha descritto la crisi dei rifiuti in Campania come “la peste del XXI secolo”. Gli organi dello stato non sono chiamati a far sfoggio di citazioni, ma a dire con chiarezza, ai due milioni di campani che vivono nei siti di bonifica di interesse nazionale, come si intende superare la situazione di rischio esistente. Come ha invece fatto Roberto Fico, neoparlamentare 5 stelle, in occasione della sua prima uscita pubblica a Scampia, dichiarando che “la bonifica della terra dei fuochi sarà la nostra TAV”. Altra serietà, altra responsabilità istituzionale, c’è da sperare.

Commenti recenti

Avatar di BelindaBelinda su Bagnoli, appello alla res…
Avatar di Agriturismo Le ToreAgriturismo Le Tore su Come un diario
Avatar di Libertas ProjectLibertas Project su Terra
Avatar di Erminia RomanoErminia Romano su L’outlook della città
Avatar di antonioluigi capobiancoantonioluigi capobia… su L’outlook della città