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Antonio di Gennaro, 12 gennaio 2014

C’è qualcosa che non va in un paese che ha addirittura bisogno di una sentenza di Cassazione per sapere se un suolo agricolo è coltivabile, se una certa acqua può essere utilizzata o meno per irrigare le colture; un paese nel quale la magistratura è chiamata sistematicamente ad agire come arbitro di ultima istanza, su questioni delle quali, in tutti gli altri posti del mondo, si occupano amministrazioni e servizi tecnici ordinariamente competenti.

Così è avvenuto per i pozzi agricoli sequestrati a Caivano. La Cassazione aveva imposto al Tribunale del Riesame di riconsiderare l’istanza di dissequestro presentata da uno degli agricoltori, in primo tempo rigettata. Il ragionamento alla base della sentenza di Cassazione non fa una grinza: se i prodotti agricoli, come a Caivano, alla fine sono risultati del tutto in regola, il reato di avvelenamento non sussiste, tanto più che gli elementi chimici in eccesso nelle acque irrigue sono naturali, fanno parte del “valore di fondo”: a questo punto, il sequestro cautelativo e le limitazioni imposte alle attività agricole non hanno più alcun fondamento.

Ieri c’è stato il nuovo pronunciamento del Riesame, con un colpo di scena che proprio nessuno poteva prevedere. Come nel Monopoli, si torna tutti alla casella di partenza, perché il Riesame, anziché pronunciarsi nel merito, ha scovato un vizio procedurale nell’originaria ordinanza di sequestro dei pozzi, che invalida tutti i passaggi successivi: il ricorso dell’agricoltore, la prima sentenza del riesame, il pronunciamento della Cassazione. Tutto inutile, abbiamo scherzato, bisogna iniziare daccapo.

Il problema è che, nel frattempo, questi atti ora dichiarati non validi dal Riesame, questi ectoplasmi giuridici, hanno avuto conseguenze maledettamente concrete sull’attività degli imprenditori agricoli, le cui aziende e i cui investimenti sono andati in malora. Tre cicli colturali sono saltati: i fondi sequestrati, da luoghi del lavoro, sono diventati terre di nessuno, spazi vuoti di senso e civiltà.

Cosa succede ora è difficile prevederlo. La cosa più ragionevole sarebbe quella di spazzare via i fantasmi, e tornare alla sostanza delle cose, ripartendo dai criteri di legge, scientificamente fondati, che la Cassazione ha indicato per valutare e dirimere la questione. Dopo mesi di incertezza, sarebbe il modo migliore per proteggere davvero l’interesse dei consumatori, e la reputazione di un’economia agricola che, tra mille difficoltà, tiene ancora viva la grande piana, ai confini della città.

Antonio di Gennaro, 8 gennaio 2015

Poi dici la coerenza: avevo scritto che non me ne sarei interessato più, ed ecco invece un altro pezzo… Il fatto è che ero stato contattato da Servizio Pubblico, insieme a Mario Fusco, per partecipare ad una puntata sul tema (poi rimandata a causa della barbarie criminale che ha travolto i giornalisti di Charlie Hebdo), e volevo riordinare le idee. Naturalmente il punto non è più l’uso che si è fatto dello show di Capodanno al Plebiscito, rispetto al quale ho espresso per tempo le mie perplessità (vedi il post “La finestra di opportunità”, pubblicato da Repubblica lo scorso 15 febbraio con il titolo  “Terra dei Fuochi, 75 milioni buttati”, e anche il più recente “Viva Zapata!“). Qui si parla delle cose che Gigi D’Alessio ha detto, che sono sacrosante, ed allora è utile ragionare sui motivi che possono aver scatenato reazioni contrarie così forti. Adg

 Il povero Gigi D’Alessio non se l’aspettava proprio la gragnuola di reazioni sdegnate e di commenti critici alle sue affermazioni durante lo show di Capodanno. Il problema non riguarda la verità delle cose che il cantante ha detto, che sono sacrosante: migliaia di analisi sui prodotti agricoli della piana campana hanno confermato la loro assoluta qualità e sicurezza. Il problema è che queste affermazioni mettono in crisi lo schema di ragionamento implicito ché sta dietro lo slogan della “Terra dei fuochi”, e che potrebbe essere sintetizzato così: “La pianura tra Napoli e Caserta è stata massicciamente oggetto nel corso di un trentennio di pratiche di sversamento e seppellimento illegale di rifiuti, che hanno causato l’inquinamento generalizzato dei suoli e delle acque. I prodotti agricoli coltivati su questi suoli sono irrimediabilmente avvelenati, e il loro consumo è una delle cause della più elevata incidenza in quest’area di malattie tumorali”. L’espressione “Terra dei fuochi” si è trasformata tecnicamente nel luogo comune che condensa queste diverse affermazioni, collegate tra loro in una catena stringente, auto-evidente di ragionamento, che a questo punto può, anzi deve essere assunta nel suo complesso, senza possibilità di confutazione o smentita, pena il cedimento a forme odiose di negazionismo. In quanto luogo comune di uso corrente, l’espressione “Terra dei fuochi” è entrata addirittura, come neologismo, nel dizionario Treccani.

Il fatto è che questo schema di ragionamento si è rivelato inconsistente, non ha retto la prova dei fatti, i rilevamenti, le misurazioni, il check-up approfondito dell’ecosistema. I dati a nostra disposizione dicono che l’ecosistema della piana campana non è perso per sempre, e soffre degli stessi acciacchi delle pianure europee ad elevato gradi di antropizzazione; che una strada per uscire dalla crisi c’è, e non è quella di inattuabili bonifiche globali, ma la messa in sicurezza delle ferite, già ben individuate da ben due piani regionali e, soprattutto, il governo e la cura quotidiana di un territorio maltrattato.

Quello che i critici di D’Alessio dovrebbero comprendere è che i fenomeni territoriali e sociali sono eventi complessi. La crisi della piana campana lo è in modo particolare. Nessuno di noi possiede le competenze per un’analisi esaustiva e definitiva. Occorre avere l’umiltà e l’intelligenza di ragionare e lavorare insieme.

Quando parliamo della storia e del funzionamento delle organizzazioni criminali l’autorità di Roberto Saviano è fuori discussione. E’ vero però che le conseguenze ecologiche e sanitarie dei fatti criminali, la loro effettiva portata territoriale, non sono meri corollari, un dato sociologico o letterario, teoricamente deducibile a tavolino. Si tratta di cose che vanno verificate, misurate, sapendo che il funzionamento degli ecosistemi è una cosa complessa.

Analizzare sul campo i fatti ecologici non significa per nulla negare i fatti sociali e criminali che sono stati faticosamente accertati. Interpretare correttamente i dati sulla salute degli uomini e degli ecosistemi agricoli della Terra dei fuochi non significa minimamente sminuire, circoscrivere o relativizzare la gravità dei crimini commessi, come anche la necessità impellente di politiche pubbliche adeguate. E’ evidente però che per uscirne fuori, per un progetto di ricostruzione della società e del suo territorio, non c’è bisogno di maledizioni bibliche, di un surplus di terrore. Né di screditare un settore, quello agricolo – e qui D’Alessio ha ragione da vendere – che si è rivelato alla fine, nel caos informe dell’hinterland, l’unica cosa che funziona. Il disastro vero sarebbe se le 38.000 aziende agricole della piana fossero davvero costrette a chiudere. Allora si che avremmo creato un immane deserto economico e sociale, proprio quello che le forze criminali e speculative stanno febbrilmente aspettando.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 21 gennaio 2015 con il titolo “Terra dei Fuochi nella Treccani”

Antonio di Gennaro, 19 dicembre 2014

Riassumendo, in un finale d’anno un po’ concitato, si è deciso di stanziare quattro milioni e mezzo per la S.C. Napoli ed altre società sportive, più mezzo milione per la diretta televisiva dello show di D’Alessio a piazza del Plebiscito e per un ciclo di spot, da mandare in onda sulle reti Mediaset e sulle TV locali da qui alla Befana. L’obiettivo è quello di rilanciare, a partire dallo sport e dallo spettacolo, l’immagine di una Campania positiva, salubre e ilare,  contrastando così  la cattiva nomea che ci siamo fatti con la Terra dei fuochi. I finanziamenti vengono dal Fondo di Coesione e Sviluppo, gestito dal governo centrale, ma si tratta di un’illusione ottica, perché si tratta di risorse comunitarie che le regioni del Sud non erano riuscite a spendere, e che sono state riprogrammate a Roma quando era ministro Fabrizio Barca. Insomma, erano soldi già nostri, lo Stato centrale sulla Terra dei fuochi non ha ancora sganciato di suo nemmeno un euro.

Questo cospicuo investimento in immagine – cinque milioni, ma il programma complessivo vale una ventina di milioni – supera di gran lunga quanto abbiamo speso finora per attuare il decreto “Terra dei fuochi” e per sostenere concretamente un comparto agricolo finito nell’occhio del ciclone. Pare di capire che la scelta sia quella di giocarcela tutta sulla comunicazione, ma rimane a questo punto da stabilire quanto i gorgheggi di D’Alessio e le piroette di Zapata siano veramente efficaci nel controbattere, all’interno di una narrazione pubblica fortemente suggestionata, l’ennesimo strampalato servizio delle Iene, o il sermone apocalittico sul “biocidio”.

La recente sentenza della Cassazione, che ha di fatto smontato l’impianto accusatorio alla base dei sequestri dei suoli agricoli di Caivano, parrebbe indicare una strada diversa per uscire dalla crisi, basata su azioni e conoscenze pertinenti. La verità dei fatti alla fine ha la possibilità e la forza di affermarsi. La nostra credibilità è tutta legata alla capacità che avremo nei prossimi anni di mettere ordine in un territorio scasciato da mezzo secolo di illegalità, e di proteggere quanto rimane di un patrimonio rurale e di un’economia agricola di inestimabile valore.

Ad ogni modo, è questo l’ultimo post che penso di dedicare per il momento a questa vicenda. Dal mio punto di vista, per quel poco o molto che sono riuscito a comprendere, e che ho cercato di raccontare nelle cronache e nei commenti di questi ultimi quindici mesi, le cose da fare e da sapere sono ormai note, sarebbe stucchevole ripeterle ancora, alimentando una rappresentazione pubblica sterile, che rischia di replicarsi a tempo indefinito. Da grande non aspiro a fare il “terrafuocologo“, ci sono cose più importanti e urgenti per la Campania. Auguri a tutti.

Antonio di Gennaro, 12 dicembre 2014

“Mai i rischi sono dubbi”, era il titolo dell’articolo pubblicato da Repubblica il 13 novembre 2013, nei giorni immediatamente seguenti il sequestro in quel comune, da parte della magistratura, di 13 pozzi agricoli, assieme ai 43 ettari di pregiate colture orticole che quei pozzi provvedevano ad irrigare. L’ipotesi di reato era quella di avvelenamento: l’acqua irrigua conteneva fluoruri, manganese, arsenico, che avrebbero contaminato i prodotti agricoli, mettendo a repentaglio la salute dei consumatori. L’articolo avanzava dubbi sull’ipotesi accusatoria. Quei composti chimici, si diceva, sono naturalmente presenti nella falda della piana vulcanica campana, così come nei suoli; fanno parte del cosiddetto “valore di fondo”. Per di più, essi non passano direttamente nei prodotti, perché il sistema suolo-pianta, grazie a Dio, funziona come un filtro formidabile. D’altro canto, l’elevata presenza di elementi minerali è uno degli indici della particolare fertilità dei suoli di Campania felix.

Ora la Cassazione, pronunciandosi nei giorni scorsi sul ricorso di uno degli agricoltori che aveva subito il sequestro, conferma che era proprio così. Non basta la presenza di quei composti nell’acqua per interdire attività agricole millenarie, tanto più che i prodotti agricoli sono risultati alla fine totalmente salubri e sicuri. Di avvelenamento, quindi, non è il caso di parlare. La sentenza, che a questo punto fa giurisprudenza, colma un vuoto legislativo che pure era stato evidenziato, e affida al Tribunale del Riesame il compito di riconsiderare, sulla base di queste assunzioni, l’istanza di dissequestro dei suoli, inizialmente respinta.

Nel frattempo un anno è trascorso, almeno tre cicli colturali sono saltati, il danno economico per i produttori agricoli si è rivelato esiziale. L’immagine delle attività agricole specializzate della piana campane ha ricevuto un colpo durissimo. Queste aziende devono essere aiutate a ripartire. Perché, alla fine, la crisi della piana campana si sta rivelando una grande, impegnativa esperienza di apprendimento collettivo. Stiamo insieme riscoprendo la natura e i problemi della nostra terra. Un’economia agricola “clandestina”, che pure produce il 40% del valore delle produzioni agricole regionali, in prevalenza assorbite dalle filiere lunghe del mercato globale, è finalmente riaffiorata nel dibattito pubblico. Questo mondo rurale invisibile, che inizia dove finisce la città, è una grande risorsa per il nostro futuro, ma deve essere protetto da un sistema efficiente di governo e cura del territorio. La supplenza giudiziaria, così come in altri campi, è utile e necessaria, ma da sola non basta.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 13 dicembre 2014 con il titolo:Niente veleno nei terreni sequestrati dai magistrati

In questo sito vedi il post del novembre 2013: “La lezione di Caivano”

Antonio di Gennaro, 6 dicembre 2014

Dunque la geografia del “mondo di mezzo“, la sfera di influenza della cupola mafiosa di Carminati & Co., oltrepassa il Garigliano, ed arriva sino alle campagne di Giugliano. Si sapeva che la società che ha vinto l’appalto per la messa in sicurezza della discarica ex-Resit di Giugliano gravitasse nell’orbita dell’ex sindaco di Roma Alemanno. La novità degli ultimi giorni è che i nomi di suoi amministratori passati e presenti compaiono nell’inchiesta romana, e diventa allora lecito avanzare dubbi sulle possibili ragioni di quella sorprendente aggiudicazione.

Il disagio, lo sconforto che si avverte è grande, e le ragioni sono molteplici. Perché il progetto elaborato dal Commissario di governo era ed è un buon progetto, di impostazione sobria, efficace, per alcuni aspetti innovativa, con il ricorso anche a tecniche avanzate di fitodepurazione. Un modello da applicare alle altre grandi discariche della piana campana, per suturare le ferite e il degrado, restituire dignità ai paesaggi, lasciarsi una volta per tutte alle spalle lo slogan bolso della “terra dei fuochi”.

Ora tutto sembra compromesso, perché potrebbe essere successo quello che si temeva, che nell’affare delle bonifiche si finisse per affidare proprio agli orchi il compito di mettere ordine nel regno dissestato della piana campana. Nella complicata ricerca di una via d’uscita dalla crisi delle nostre terre, la non credibilità dello Stato appare come la peggior maledizione.

Quanto accaduto mette di fronte ad un’amara verità, perché la gestione di quell’appalto non rientrava nelle responsabilità locali, ma in quelle ministeriali, ed allora viene da pensare che non c’è scampo per i cittadini della Campania, se all’opacità ed alla permeabilità del contesto locale si aggiunge quella del livello nazionale, che si veste se possibile di tinte ancor più truci, assai più horror che fantasy.

Vogliamo sforzarci di credere che non tutto sia perduto. Mai come adesso “Necesse est enim ut veniant scandala“, è meglio che le magagne emergano ora, quando siamo all’inizio del cammino per restituire dignità alla nostra terra. E’ necessario garantire l’assoluta trasparenza nei lavori di messa in sicurezza del territorio: l’Autorità anti-corruzione di Raffaele Cantone deve scendere in campo con tutta la forza e l’autorevolezza, nella sua terra flegrea, come nel verminaio di Roma. Si, è opportuno che gli scandali avvengano, ma ” guai a colui che li produce”, come ammonisce l’evangelista Luca.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli dell’8 dicembre 2014

Antonio di Gennaro, 18 novembre 2014

“I fatti mio caro, i fatti”. Era la risposta di De Gaulle a chi gli chiedeva quali fossero le maggiori difficoltà per un politico. La macchina del mondo, spietata e imprevedibile, è in grado di scompaginare in un attimo programmi ed agende, stravolgendo obiettivi e priorità. Così, sono stati i duri fatti delle alluvioni in Toscana, Liguria, Lombardia, a costringere il governo a rimediare ad una evidente sottovalutazione, chiamando il  vicepresidente Delrio a un affannato tour mattutino nelle tre regioni alluvionate.

Nel giro di poche ore, la sofferenza del territorio italiano si è imposta sulle emergenze della finanza, dell’economia e del lavoro, anche se forse, a pensarci bene, il dissesto non è che una faccia diversa della stessa crisi, che riguarda in fondo la capacità di governo, la qualità delle politiche, dell’agire istituzionale.

Su questi temi il governo è in oggettiva difficoltà, avendo puntato tutto su una strategia anticiclica basata sulla semplificazione, la deregolation, la liberalizzazione delle trasformazioni territoriali. Questo è lo spirito che informa lo “Sblocca-Italia”, come anche la proposta di riforma urbanistica del ministro Lupi. La sofferenza di interi sistemi territoriali, di importanti pezzi del paese, finiti nel fango e nell’acqua sotto la sferza di un clima incarognito, spingerebbe in direzione opposta, verso il rafforzamento delle funzioni di programmazione e controllo del territorio e dell’ecosistema.

A indicare la strada è in questo momento la Regione Toscana, che ha da poco approvato una nuova legge urbanistica, innovativa e coraggiosa, che mette fine all’ulteriore urbanizzazione di suoli agricoli, che è poi la causa strutturale del dissesto, orientando tutta l’attività edilizia alla riqualificazione, recupero e manutenzione della città esistente.

Insomma, c’è da meditare, anche per la nostra Campania, che continua imperturbabile a urbanizzare duemila ettari l’anno di suoli fertili, come a dire che ogni quattro anni si edifica una nuova Napoli, con un’agenda politica ancora tutta incentrata su condoni e “piani casa”. Eppure siamo la regione del rischio vulcanico e delle colate di Sarno: una regione nella quale i tre quarti delle persone vivono malamente ammassati sul 15% del territorio, il più pericoloso; nello sfasciume metropolitano che ha fuso 120 comuni, da Capua a Battipaglia, in una stralunata periferia povera di servizi, sicurezza, opportunità.

Restituire condizioni di sicurezza e civiltà a queste terre in disordine. Ecco la priorità inderogabile per l’agenda politica della prossima consiliatura regionale, per la costituenda città metropolitana, ma anche per una città capoluogo che ha smarrito ruolo, reputazione, prospettiva. Di questo dovremmo parlare, prima che di candidati. Dando una mano al governo centrale, che da solo non ce la può fare.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 19 novembre 2014

Genova e la Liguria come metafora di un intero paese. Non tutti forse sanno che l’ultimo Censimento dell’Agricoltura ISTAT del 2010 ha contabilizzato oramai solo un terzo del territorio agroforestale di quella regione. I restanti due terzi non è che non esistano, semplicemente non c’è più chi li gestisce. Tutto un territorio montano, di boschi e antichi terrazzamenti, oramai deserto di agricoltori, è diventato clandestino, non figura più nelle statistiche ufficiali del paese. Un territorio invisibile, che si ostina ciclicamente ad imporsi all’attenzione pubblica, tutte le volte che una “bomba d’acqua” scarica sulle città liguri della costa, attraverso torrenti malamente imprigionati nel reticolo urbano, il suo carico di fango e mortificazione.

Uno dei più bei racconti di Calvino, “La speculazione edilizia” (1957), descrive proprio il clima sociale e i comportamenti che hanno trasformato le due costiere liguri in una striscia continua di città, stretta tra il mare e una montagna fragile. Ma Genova e la Liguria sono immagine di un intero paese. Le dinamiche descritte da Calvino sono tutt’oggi attive a scala nazionale, se l’Italia continua ogni anno a produrre, secondo le statistiche ufficiali del governo Monti, 35.000 ettari di nuova città, l’equivalente di quattro volte l’area urbanizzata di Napoli. Anziché alimentare economie sane, questo modello di consumo rapido del territorio finisce per accrescere il debito pubblico territoriale, sarebbe a dire il costo ricorrente dei danni e delle manutenzioni non fatte.

Insomma, i paesaggi italiani, che sono poi i nostri ambienti di vita, funzionano assai male, e viene allora da chiedersi se un provvedimento come il decreto “Sblocca-Italia” del governo Renzi,  sia davvero una cosa utile per il paese. Io penso di no. Non che ora tutto vada bene, appunto: il governo del territorio in Italia è uno specchio rotto, un labirinto di competenze frammentate (parchi, bacini, soprintendenze, autorità ambientali ecc.), la cui sommatoria raramente prende l’aspetto di una politica coordinata e coerente. A rendere le cose più difficili ci sono poi gli effetti della sciagurata riforma costituzionale del Titolo V, che ha scompaginato le gerarchie del sistema decisionale, dal livello nazionale a quello locale, conferendo ai territori una stralunata autonomia, priva di mezzi e di responsabilità.

Se lo status quo è difficilmente difendibile, resta il fatto che senza una seria politica nazionale per la cura e la manutenzione del territorio, una strategia credibile per contrastarne l’ulteriore consumo, lo “Sblocca-Italia” rischia soltanto di allungare la lista dei provvedimenti derogatori, dalla “Legge obiettivo” al “Piano Casa”, che pure si proponevano di rimuovere d’incanto i blocchi e le incrostazioni, ma che assai poco hanno prodotto, anche in chiave anti-ciclica, se non l’ulteriore destabilizzazione di un apparato amministrativo già sofferente, mentre la montagna italiana, povera di uomini e di politiche, da Sarno a Genova, continua a scaricare acqua e fango sulla città, che come nel racconto di Calvino, proprio non la smette di crescere.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 14 ottobre 2014 con il titolo “Da Genova a Sarno, la speculazione è un racconto di Calvino”

 

Per saperne di più sul decreto “Sblocca-Italia” vedi l’e-book “Rottama Italia. Perchè il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro”, pubblicato dall’Altreconomia, con i contributi di Ellekappa, Altan, Tomaso Montanari, Pietro Raitano, Giannelli, Mauro Biani, Paolo Maddalena, Giovanni Losavio, Massimo Bray, Maramotti, Edoardo Salzano, Bucchi, Paolo Berdini, Vezio De Lucia, Riverso, Salvatore Settis, Beduschi, Vincino, Luca Martinelli, Anna Donati, Franzaroli, Maria Pia Guermandi, Vauro, Pietro Dommarco, Domenico Finiguerra, Giuliano, Anna Maria Bianchi, Antonello Caporale, Staino, Carlo Petrini. L’e-book è scaricabile gratuitamente all’indirizzo:

http://www.altreconomia.it/site/fr_contenuto_detail.php?intId=4852

Luca Rossomando        

Poco meno di venti anni fa, nel gennaio del ’96, una voragine larga cinquanta metri e profonda venti si aprì in pieno giorno nel mezzo del quadrivio di Secondigliano facendo undici vittime. La tragedia era ampiamente annunciata. Per anni, durante lo scavo di una galleria sotterranea tra Miano e Arzano, in corrispondenza con l’avanzamento dei lavori si producevano cedimenti stradali, frane, lesioni ai muri dei palazzi, sgomberi di edifici. I residenti della zona inviarono esposti, denunce, richieste di accertamenti, chiamarono i vigili urbani, i pompieri, i tecnici comunali. I lavori venivano sospesi e dopo un po’ riprendevano. Fino a che non sprofondò tutto.

Nemmeno un anno dopo la terra si aprì un’altra volta in via Miano, a poca distanza dal quadrivio, ingoiando un fabbro e suo figlio sulla soglia dell’officina in cui lavoravano. Nei giorni che seguirono il crollo i parroci della zona si decisero a una presa di posizione pubblica. Il 5 gennaio del ’97, una domenica, all’ingresso di tutte le chiese della periferia nord fu distribuito un volantino dal titolo: “Non bisogna arrendersi al male. Mai!”. I parroci spiegarono nel corso dell’omelia che si trattava prima di tutto di un’esortazione. “Dobbiamo vergognarci per il nostro silenzio – dissero dall’altare –. Ora diremo ciò che dovevamo dire da sempre. Il nostro compito è denunciare le uccisioni, il lavoro nero, le condizioni spaventose dei nomadi, lo spaccio di droga, le difficoltà degli anziani e delle famiglie povere. La nostra lettera non è indirizzata solo al sindaco o al palazzo”.

Da quel giorno qualcosa cominciò a incrinarsi nel rapporto tra i napoletani e Antonio Bassolino, il sindaco trionfante a cui un sondaggio attribuiva in quel periodo un indice di gradimento dell’ottantotto per cento. Per la prima volta qualcuno azzardò delle critiche. Gli si cominciò a rimproverare di trascurare le periferie concentrando tutti gli sforzi nel centro città per attirare i turisti e abbagliare l’opinione pubblica. L’uomo che aveva costruito la sua fortuna sui simboli del cambiamento, attirando sulla sua persona tutte le energie positive che quei simboli producevano, vide messa in pericolo la sua credibilità da un evento catastrofico, ma non imprevedibile, che pur sfuggendo alla sua diretta responsabilità ne rivelava una metaforica lontananza. Una colpevole trascuratezza.

In termini concreti le rimostranze e le richieste di ascolto non influirono più di tanto sulle politiche della giunta comunale. Lo stesso cardinale di allora si diede da fare per smorzare il tono battagliero dei suoi parroci. Eppure quella giornata e le iniziative che seguirono, rappresentarono qualcosa di ugualmente importante per gli abitanti della periferia nord. Furono un grido d’orgoglio, l’assunzione di responsabilità delle guide religiose nei confronti della propria gente, la dimostrazione che attraverso l’unità e il coordinamento si poteva finalmente far sentire la propria voce a tutta la città; e naturalmente un segnale di coraggio, vista l’unanimità che circondava l’operato del sindaco e soprattutto visto l’imperversare in quei rioni delle bande camorriste.

Adesso fiumi di parole vengono spesi in morte del ragazzo Davide del rione Traiano, facendo come di consueto della marginalità una colpa da espiare e non un problema da risolvere. I coetanei di Davide sembrano non volersi rassegnare a tornare invisibili e ogni giorno escono a manifestare il proprio dolore alla città. Appaiono soli, intorno a loro nemmeno più gli scagnozzi che li tenevano a bada quando la protesta si svolgeva nel rione e rischiava di pregiudicare la tranquilla routine dello spaccio. Quei ragazzi sono l’immagine di una comunità stretta in una morsa, isolata, impotente. Sarebbe bello che emergessero oggi, a partire da quel rione e dalle sue vicinanze, persone capaci di assumere su di sé, a nome di tutti, questo dolore collettivo, chiedendo condizioni di vita più degne, affermando l’orgoglio di un’appartenenza, ma non tacendo le contraddizioni e le ambiguità. Qualcuno che avesse la forza di un’azione concorde, meditata, pubblica, per moltiplicare le voci degli abitanti dei ghetti di periferia, soprattutto quelle dei più giovani, e cercare una sponda nel resto della città, o almeno in quella parte che ne ha abbastanza dell’ipocrisia di chi si crede sempre al di sopra di ogni responsabilità.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 12 settembre 2014

Antonio di Gennaro, 30 agosto 2014

Nell’attesa che il decreto “Sblocca-Italia” si sblocchi, viene da chiedersi se alla fine in Italia proprio non esista una terza via tra una democrazia inconcludente, che in vent’anni – l’arco di una generazione, quasi – fallisce il recupero di Bagnoli, e una tecnocrazia ruggente, che magari le cose le fa, ma che pure qualche problema di trasparenza e controllo lo pone, i casi Mose ed Expo insegnano.

La  bozza in circolazione del decreto affida a un non ben specificato “Soggetto Attuatore” il compito di redigere in tempi stretti il nuovo piano per Bagnoli, e di gestire il completamento della bonifica, sino ad oggi il vero buco nero della vicenda. Tutto sotto l’ombrello di un commissario di governo ad hoc, che potrà contare su ampie deroghe a vincoli urbanistici e paesaggistici vigenti.

Il punto è quale sarà la natura di questo soggetto attuatore, che si delinea, nel linguaggio algido del decreto, come una sorta di camera di compensazione para-istituzionale, luogo di sintesi e assemblaggio di competenze e interessi, bisognerà capire quali, tenuto conto che gli indirizzi contenuti nel decreto sono assai stringati e vaghi.

Il ruolo del Comune di Napoli si ridimensiona drasticamente, da principale decisore a comprimario. La svolta operata dal decreto è infatti quella di considerare il recupero di Bagnoli una finalità strategica di rilievo nazionale, di competenza esclusiva dello Stato. Nella conferenza dei servizi che dovrà approvare le nuove scelte, saranno quindi i ministeri centrali a dettare linea, e il  governo ad avere l’ultima parola.

Resta da capire quale percorso di legittimazione pubblica é previsto per le nuove scelte, come anche la distanza dal Piano regolatore, le cui opzioni democraticamente assunte, hanno costituito in questi anni, nel bene e nel male, elementi rilevanti del patto tra il governo della città e i suoi abitanti. Come sovente accade, ci apprestiamo a un cambiamento di paradigma, non preceduto da un serio bilancio dell’esperienza precedente, che viene in tal modo liquidata in blocco.

Alla fine, un piano urbanistico é uno strumento per fare le cose, più che un fine in sé: é lecito quindi rivederlo ciclicamente, in funzione dei mutamenti di contesto, delle difficoltà incontrate, dei risultati conseguiti. Nella vicenda di Bagnoli, una cooperazione inter-istituzionale assolutamente disastrosa, e l’intreccio perverso con una bonifica opaca e spendacciona, hanno finito col paralizzare tutto. Nel frattempo, si é gravemente deteriorata la capacità amministrativa locale, indispensabile per l’attuazione delle scelte. Vedremo se il commissariamento governativo sarà l’occasione, in un’ottica di sussidiarietà, per ricostruire questa perduta capacità. Oppure per affossarla definitivamente.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 4 settembre 2014 con il titolo “Bagnoli, troppe incognite nel decreto del governo”

Antonio di Gennaro, 31 luglio 2014

Un territorio in ostaggio, impiegato come merce di scambio. Il centrodestra in Regione riesce finalmente a saldare la sua cambiale elettorale, con il centrosinistra che ha provato ad opporsi fin che ha potuto, ma che porta le sue responsabilità, perché il condono di questi giorni è l’esito di un percorso di delegificazione in materia urbanistica che parte da lontano, dal 2009, con il primo “piano casa” della giunta Bassolino. Fu una vicenda veramente incomprensibile, perché la Regione aveva appena, faticosamente approvato il piano di assetto territoriale, il primo della sua storia. Poi, inspiegabilmente, il “rompete le righe”, l’adesione repentina al diktat del governo Berlusconi, come se questa terra proprio non ce la facesse a darsi autonomamente regole civili di convivenza.

Il fatto è che almeno una metà della disordinata conurbazione costiera non ha alle spalle un piano, una previsione, è nata e cresciuta spontaneamente, e i suoi problemi sono che quelli oggi scontiamo sotto lo slogan riassuntivo della “terra dei fuochi”, che consiste alla fine nella sofferenza profonda di un territorio rur-urbano scombinato, prim’ancora che assediato dai rifiuti.

La soluzione originale che ora abbiamo escogitato è di tipo omeopatico, è quella di combattere il male con il suo stesso veleno, il disordine con il disordine, l’illegalità con l’illegalità, perché basta essere un minimo avvertiti per sapere che a queste latitudini il solo annuncio di un possibile condono ha un effetto criminogeno, è un segnale potente in grado di riattivare tutta la filiera illegale, mentre un contenzioso arretrato di più centomila domande di condono inevase è lì a dimostrare che il re è nudo, che la pubblica amministrazione non ce la fa proprio a controllare, sanzionare, regolarizzare quando possibile.

Se questa è la linea, almeno smettiamola con l’ipocrisia, con le finte preoccupazioni per la minaccia biblica della “terra di fuochi”. Siamo semplicemente un territorio refrattario alla legalità, allo sviluppo ordinato, a un’etica minimale di convivenza civile. E dobbiamo ammettere che l’Europa ha profondamente ragione nel non volerci comprendere.

Pubblicato su Repubblica Napoli il 1 agosto 2014 con il titolo “Territorio come voto di scambio”

Antonio di Gennaro, 29 luglio 2014

Cosa succede quando una democrazia sbaglia? Con il decreto “Terra dei fuochi” – lo confermano gli esiti del comitato interministeriale svoltosi lunedì scorso a Roma, con i ministri Lorenzin (salute), Martina (agricoltura) e Galletti (ambiente), che ha esaminato i risultati dello screening territoriale in corso -,  Parlamento e governo hanno preso una topica colossale. Tutti i campioni di ortofrutta provenienti dalle aree agricole ritenute a maggior rischio sono risultati sani, di radioattività manco a parlarne. E’ evidente che la sicurezza alimentare non è in gioco, abbiamo lanciato la caccia al killer sbagliato, sprecando tempo e soldi che potevano essere applicati ad obiettivi più fondati.

Che fare allora se le decisioni prese non erano quelle giuste? Non è necessario scomodare la “modernità riflessiva” teorizzata da Giddens e Beck nei loro scritti degli anni 90: la capacità di imparare dagli errori e di risolvere problemi nuovi contraddistingue la nostra specie dalla conquista della posizione eretta. Sarebbe dunque questo il momento, per le istituzione ai diversi livelli, di prendere atto degli abbagli, rivedere il tiro, e definire finalmente una strategia seria per riqualificare e mettere in sicurezza la pianura campana, ma ora la difficoltà è proprio quella di smantellare il castello macchinoso di competenze che proprio il decreto “Terra dei fuochi” ha contribuito a creare, di disattivare una macchina burocratica che procede per inerzia, continuando ad inseguire credenze e slogan, anche quando palesemente smentiti dai fatti.

Pure, nel dibattito di lunedì a Roma, qualche frammento doloroso di verità inizia ad affiorare. A cominciare dai problemi di approvvigionamento idrico della conurbazione abusiva della piana, con centinaia di migliaia di cittadini campani dei rioni e paesi di edilizia spontanea, che continuano ad impiegare per le esigenze quotidiane l’acqua della prima falda idrica, che come in tutte le pianure europee ad elevata urbanizzazione, non è idonea allo scopo.

Insomma, inizia finalmente ad emergere il problema dei problemi, che è quello di mettere ordine nella grande conurbazione campana, di dotare quest’area dei servizi essenziali e degli standard minimi di civiltà che consentano alle persone di vivere decentemente, proteggendo la propria salute. Questi dovrebbero essere, più che la competizione meschina per la distribuzione delle future cariche, gli aspetti decisivi di una strategia, di un’agenda di riscatto per la città metropolitana che sta per nascere. Lasciando alle nostre spalle la metafora inconcludente della “Terra dei fuochi”: le politiche si nutrono certamente di una loro componente simbolica, ma di troppi simboli, alla fine, si può anche morire.

Pubblicato su Repubblica Napoli del 31 luglio 2014 con il titolo “Terra dei fuochi: la verità si fa strada tra credenze e slogan”

Antonio di Gennaro, 19 luglio 2014

Ha un bel dire Roger Cohen nell’articolo pubblicato da Repubblica lo scorso 12 luglio, che nell’era del web lo spazio e’ abolito, la geografia non conta, e l’indirizzo email è più importante ormai di quello civico.  Il mondo del ventunesimo secolo sarà anche diventato “flat”, piatto, come suggerisce nel suo libro Thomas Friedman, ma pure accadono cose che ci riportano alla nostra dipendenza dall’ambiente fisico; a un’oggettiva difficoltà a gestire e curare i luoghi che abitiamo, che si rivelano improvvisamente minacciosi e insicuri, ci si rivoltano contro, e qui un unico filo rosso sembra legare fatti anche assai diversi, si tratti di alberi urbani che schiantano, cornicioni che si sbriciolano sulle nostre teste, aree agricole mortificate dai rifiuti.

Per tremila anni la cura e il controllo dell’habitat hanno improntato i nostri comportamenti quotidiani, ed è così  che sono nati i grandi paesaggi urbani e rurali che rendono unico il nostro paese, ma ora quel tempo è finito, la manutenzione del mondo non è più una priorità. Prevale adesso una corsa all’uso e al consumo, giorno dopo giorno, della città  e dei paesaggi che abbiamo ereditato, senza sostenere i relativi costi di mantenimento. Gli inconvenienti di una simile scelta risultano evidenti, mentre le cause sono molteplici.

Pesa senza dubbio la crisi della finanza pubblica, come anche il declino di quelle strutture e competenze tecniche che si preoccupavano di tenere in efficienza strade, alberature, reti idriche, fognature. Ma l’aspetto che sembra prevalere è la perdita di prospettiva futura. La manutenzione del mondo è cosa che può interessare una comunità ancora sensibile alle necessità dei giorni e delle generazioni a venire,  che sente di dover lavorare anche un po’ per essi. All’opposto, nel discorso pubblico, la cura ordinaria del nostro ambiente di vita e’ argomento tremendamente privo di appeal, con il quale non si vincono campagne elettorali, ne’ si costruiscono programmi di legislatura.

Peccato, perché proprio attorno alla manutenzione un’economia locale potrebbe riattivarsi, magari più sobria e attenta a risultati e priorità. In questo modo, invece, il paese si impoverisce, perde funzionalità e bellezza, mentre aumenta il debito pubblico territoriale, sarebbe a dire il costo per rimettere le cose a posto e riparare i danni, che supera oramai di gran lunga  quello, più di sovente richiamato, della finanza.

Articolo pubblicato su Repubblica Napoli del 22 luglio con il titolo “La manutenzione non è più un valore”

Pio Russo Krauss, pediatra, esperto in educazione sanitaria, 9 luglio 2014

Se si leggono i giornali degli ultimi giorni abbondano titoli come “Mortalità in aumento nella Terra dei fuochi” e “Terra dei fuochi: allarme leucemie”. Roberto Saviano sulla prima pagina di Repubblica afferma “Esiste un nesso tra la devastazione di intere aree, i rifiuti intombati, le morti per cancro e i bambini che nascono con malformazioni. Lo dimostra l’aggiornamento allo studio epidemiologico Sentieri” (dell’Istituto Superiore di Sanità ISS).

Ma le cose stanno veramente così? No. Se si legge il rapporto dello studio SENTIERI (122 pagine) appare evidente. Ma anche se si leggevano con attenzione le 3 pagine della nota per la stampa si poteva capire che le cose non stavano così.

Nei primi righi della nota per la stampa si premette che “Le caratteristiche metodologiche dello studio SENTIERI non consentono la valutazione di nessi causali certi, permettono tuttavia di individuare situazioni di possibile rilevanza sanitaria da approfondire con studi mirati”. Quindi lo studio, al contrario di quello che dice Saviano, non dimostra alcun nesso “tra devastazione di intere aree, i rifiuti intombati, le morti per cancro e i bambini che nascono con malformazioni”. Non lo dimostra e non può farlo perché è uno studio epidemiologico trasversale (o geografico) e questo tipo di studi non ha questa capacità (vedi il documento dell’Associazione Marco Mascagna “ABC per orientarsi nei dati epidemiologici” reperibile all’indirizzo http://www.giardinodimarco.it/documenti/2013/abc%20per%20capire%20l%27epidemiologia.pdf).

“Mortalità in aumento” in italiano significa che prima era più bassa e ora è più alta. SENTIERI dice questo? No. Infatti sempre nelle 3 paginette sta scritto che lo studio non fa altro che confrontare i dati di una zona con quelli regionali o nazionali (confronto tra aree geografiche e non nel tempo). E sta anche scritto che “Per quanto riguarda la salute infantile nella TdF non si osservano eccessi di mortalità” e non si parla di aumento delle leucemie infantili.

Che cosa dice allora questo nuovo rapporto? Che nella zona della Terra dei Fuochi (tra Napoli e Caserta) si muore di più e ci si ricovera di più rispetto al resto della Campania e ci si ammala di più di alcuni tumori rispetto all’Italia. Cioè quello che si sa da molti anni e che è stato detto anche nella relazione dell’ISS del dicembre 2012. Le conclusioni erano le seguenti:

– nella Terra dei fuochi si muore di più che in Italia ma meno degli anni precedenti (“La descrizione del profilo di salute della popolazione campana indica una situazione generalmente sfavorevole rispetto al resto di Italia, tuttavia i tassi di mortalità anche per cause specifiche sono in diminuzione”);

–  tutti gli indici di salute sono peggiori e ciò fa pensare a una pluralità di fattori causali diffusi (“Lo svantaggio è presente da tempo e non risulta focalizzato su una singola patologia o su un solo sottogruppo di popolazione, come ci si potrebbe attendere da esposizioni ambientali limitate geograficamente”);

– fattori causali certi di questa situazione sono la bassa partecipazione agli screening (mammografia, pap test e sangue occulto nelle feci), gli stili di vita poco salutari e una sanità più attenta a fare soldi che alla salute dei cittadini (“Il registro tumori di Napoli si distingue per livelli di sopravvivenza marcatamente inferiori, con un 40% di sopravvivenza a 5 anni nella popolazione maschile e 51% in quella femminile” [la media italiana è rispettivamente 52% e 60%]. “I dati di sopravvivenza per i tumori trovano riscontro nella scarsa adesione ai programmi di screening, che per la Regione Campania è molto lontana dal dato medio nazionale e dalla copertura desiderabile. Inoltre sul deficit di sopravvivenza pesano notevolmente anche le difficoltà di accesso alle strutture sanitarie di diagnosi e cura da parte delle fasce di popolazioni più deboli e a rischio e l’enorme frazionamento dei percorsi sanitari”. “Stili di vita e fattori di rischio comportamentali connessi all’insorgenza della malattie croniche, quali sedentarietà, eccesso ponderale e fumo sono significativamente più frequenti nella popolazione residente in Campania che nel resto del Paese. Non solo, le variazioni temporali osservate in Campania, sembrano suggerire una tendenza all’aumento”);

– Tutto ciò non esclude un ruolo anche dei rifiuti (“Si può affermare che non c’è nesso causale accertato tra l’esposizione a siti di smaltimento di rifiuti e specifiche patologie, ma potenziali implicazioni sulla salute non possono essere escluse”);

– Non c’è alcun aumento dei morti per tumore (“Non viene confermato l’incremento di rischio di mortalità per tumori come segnalato nei media”).

I dati (ISTAT, Istituto Superiore di Sanità e Registri Tumori) sono chiari: nella Terra dei Fuochi non c’è alcun aumento della mortalità generale (anzi è in diminuzione), né di quella tumorale (in diminuzione per gli uomini, stazionaria per le donne), né c’è un aumento dei tumori (in diminuzione nei maschi, in lievissima salita per le donne).

Quindi questo rapporto non dice nulla di nuovo rispetto al rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulla Terra dei fuochi (2012). Eppure quelli che più volte hanno attaccato duramente l’ISS (per lo studio su discariche e salute1, per quello sulla diossina e metalli nel sangue e nel latte di abitanti in zone critiche2, per la relazione su tumori e salute nella Terra dei fuochi3, per gli studi sulla presenza di tossici sulle verdure coltivate su terreni contaminati4) ora la ritengono fonte autorevole e veritiera. Anzi fonte definitiva (“L’ha detto l’ISS che esiste il nesso tra devastazione ambientale e tumori, la questione è chiusa”).

Il criterio “se dici quello che io penso sei autorevole, se dici il contrario (anche portando dati e argomentazioni) sei disonesto e venduto” è un pessimo criterio di giudizio ed è proprio dei fanatici e nel corso della storia ha portato all’inquisizione, al fascismo, al nazismo, allo stalinismo. Se invece si ascoltano le posizioni dell’altro, se si esaminano i dati che porta, se si soppesano criticamente (con quel minimo di preparazione necessaria), se si chiedono chiarimenti e li si ascolta attentamente non c’è alcun bisogno di avere un così rozzo e pericoloso criterio per stabilire chi dice il vero e chi no. Gli antichi dicevano che la ragione è un faro capace di guidarci efficacemente anche in situazioni complicate. Il buio della ragione invece genera mostri: uccide la convivenza civile, la democrazia e ci fa schiantare contro gli scogli.

In ultimo due consigli:

1) consiglio per i lettori/ascoltatori/internettiani: prima di prendere per buona un’informazione esaminiamola, soppesiamola criticamente e verifichiamola;

2) consiglio per giornalisti/commentatori/blogger/twittatori/facebookisti: prima di scrivere su qualcosa esaminiamola con la dovuta attenzione, anche se si tratta di leggere ben 3 pagine.

 

Note

1) Fazzo L, De Santis M, Mitis F et al. Ecological studies of cancer incidence in an area interested by dumping waste sites in Campania (Italy). Ann Ist Super Sanita 2011

2) ISS SEBIOREC Rapporto finale www.iss.it/binary/sebi/cont/SEBIOREC_Final_report_Dec_2010__human__rev_1.pdf

3) ISS: Relazione finale del Gruppo di Lavoro ex D.M. 24.07.2012 www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=1883

4) vedi www.beta.regione.campania.it/assets/documents/relazione-iss-ottobre-2013.pdf e www.beta.regione.campania.it/it/news/salute-7054/area-vasta-di-giugliano-iss-composti-volatili-organici-assenti-dai-prodotti-agricoli. Sia questi studi che quelli condotti dalle ASL, dall’Istituto zooprofilattico, dall’Università Federico II, dall’ORSA, dalla Coop e da Esselunga non hanno dimostrato nessuna contaminazione delle “pesche, albicocche, pomodori, arance, mandarini, mandorle, mele annurche, il latte di bufala” come dice Saviano, e nemmeno di altri prodotti ortofrutticoli

Antonio di Gennaro, 8 luglio 2014

Davvero quanti luoghi comuni, affermazioni non verificate, imprecisioni nell’articolo di Roberto Saviano pubblicato su “Repubblica” il 5 luglio scorso (“La verità (in ritardo) sulla Terra dei Fuochi e quelle risposte da dare ai suoi martiri”).

Contrariamente a quanto si afferma nell’articolo, l’aggiornamento dello studio “Sentieri” non fornisce prove del legame, nei 55 comuni presi in esame, tra malattie tumorali e la presenza di siti di smaltimento illegale di rifiuti. Lo dice chiaramente la nota esplicativa diramata dall’Istituto superiore di sanità sul proprio sito web, il giorno successivo la pubblicazione dello studio, nella quale si legge che la metodologia impiegata “… non consente, in linea generale, la valutazione di nessi causali”, mentre le patologie prese in considerazione ” …sono peraltro ad eziologia multifattoriale e l’inquinamento può concorrere o esserne causa.” Spiega la dottoressa Musumeci, coordinatrice dello studio, in una sua dichiarazione a Repubblica del 5 luglio: ” Lo studio fatto è di tipo “ecologico”, cioè ha analizzato la popolazione nel suo insieme. È come avere fotografato la realtà dall’elicottero, ma per stabilire il nesso di causalità bisogna scendere a terra.”

Secondo l’epidemiologo Mario Fusco, direttore del Registro tumori dell’ASl Napoli 3, nella quale ricade circa 1,2 milioni di cittadini della piana campana, buona parte della cosiddetta Terra dei fuochi, le modalità di presentazione e interpretazione dei dati dello studio “Sentieri” costituiscono “un grave atto di disinformazione scientifica”. Nella sua intervista a “Repubblica” del 5 luglio, Fusco lamenta come, delle due tabelle fornite dal Registro tumori all’Istituto superiore, sia stata pubblicata nello studio solo quella relativa ai 17 comuni ricadenti nell’elenco governativo, e non la seconda, con i dati dei 18 comuni che non ne fanno parte, che presentava andamenti simili alla prima. In poche parole, “Sentieri” omette di dire una cosa non proprio irrilevante, e cioè che l’andamento delle malattie tumorali nei comuni della Terra dei fuochi è simile a quella nei comuni che non ne fanno parte.

Per inciso, in Campania sono attivi 3 registri tumori, che coprono circa il 55% della popolazione regionale.

In una precedente intervista dell’ottobre 2013, sempre a “Repubblica”,  Fusco aveva spiegato come, nei 58 comuni ricadenti nel Registro tumori dell’ASl Napoli 3, tra i quali Acerra, Casalnuovo, Marigliano, Nola, Terzigno, si registra ” un’incidenza oncologica globale inferiore. I nostri dati sono stati confrontati con quelli rilevati dal pool dei 38 registri tumori italiani”. Il problema è che, a fronte di un’incidenza più bassa, il tasso di mortalità è uguale e “… questo si spiega con le diagnosi tardive di malattia in fase avanzata e quindi con prognosi peggiore. E poi le difficoltà di accesso ai servizi da parte delle fasce deboli,e la diseguaglianza dei percorsi diagnostico-terapeutici».

Mario Fusco ha ribadito queste affermazioni in un suo intervento al convegno organizzato dalla task force “Pandora” lo scorso 26 giugno a Città della Scienza.

Sempre nell’articolo di Roberto Saviano del 5 ottobre si afferma che il disastro ambientale della piana campana “… ha avvelenato pesche, albicocche, pomodori, arance, mandarini, mandorle, mele annurche, il latte di bufala”. Si tratta di un’affermazione priva di ogni fondamento scientifico. Le produzioni agricole della piana campana costituiscono il 40% del valore aggiunto agricolo della regione. In larga misura esse sono acquistate dalla grande distribuzione organizzata, e commercializzate in Italia e in Europa.

Proprio in Europa esiste, a livello comunitario, un’Autorità europea per la sicurezza alimentare che gestisce, in collaborazione con gli stati membri, un sistema di allerta rapido che si chiama RASFF. Se, per ipotesi, una partita di fragole prodotte da un nostro agricoltore di Parete, e commercializzata in un supermercato di Francoforte, risultasse non a norma, scatterebbe nel giro di 24 ore l’allarme, con sequestri e denunce.

E’ singolare il fatto che in questi anni neppure un allarme rapido sia scattato per produzioni provenienti dalla Terra dei fuochi o dalla Campania.

Sulla sicurezza delle produzioni alimentari della piana campana ha recentemente indagato il Global Gap, l’associazione non governativa che ha definito gli standard di qualità adottati da tutte le centrali europee della grande distribuzione, dopo la denuncia di un consumatore tedesco, giungendo a conclusioni del tutto rassicuranti.

Anche le due maggiori catene italiane, COOP e Esselunga, hanno monitorato capillarmente le produzioni della Terra dei fuochi, con rapporti interni che escludono qualunque problema per le produzioni dell’area. La Coop, differentemente da Esselunga, ha scelto di render pubblici i risultati del suo studio.

In ultimo, il programma di monitoraggio messo a punto da Regione Campania, Federico II, Istituto zooprofilattico, ha sino ad oggi campionato e sottoposto ad analisi più di 1.500 campioni di ortaggi coltivati nella Terra dei fuochi. Nemmeno un campione è risultato positivo.

Insomma, c’è una convergenza di dati che conferma l’assoluta salubrità delle produzioni agricole della piana campana. Nonostante ciò, affermazioni infondate hanno causato un crollo delle vendite del 35-40%, un’ecatombe commerciale, con le aziende agricole che chiudono, e i suoli agricoli che si rendono disponibili per le speculazioni della criminalità organizzata.

Quanto al 2% di aree sospette, per le quali bisognerà procedere a ulteriori controlli, che dire. Il fatto che le indagini svolte abbiano evidenziato la presenza di 1.500-2000 ettari agricoli “a rischio” non significa minimizzare niente ma, all’opposto, quantificare un danno ecologico immane, con un’area di attenzione pari a 10 volte quella della bonifica di Bagnoli.

I fenomeni territoriali e sociali sono eventi complessi. La crisi della piana campana lo è in modo particolare. Nessuno di noi possiede le competenze per un’analisi esaustiva e definitiva. Occorre avere l’umiltà e l’intelligenza di ragionare e lavorare insieme. Si tratta di un grande processo di apprendimento collettivo. Nella consapevolezza che nessuno di noi può aver ragione sempre e su tutto: il segmento di conoscenza controllato da ciascuno è limitato.

Quando parliamo della storia e del funzionamento delle organizzazioni criminali l’autorità di Roberto Saviano è fuori discussione. E’ vero però che le conseguenze ecologiche e sanitarie dei fatti criminali non sono meri corollari, conseguenze semplici e lineari che è possibile aprioristicamente dedurre a tavolino a partire da essi. Si tratta di cose che vanno verificate, misurate, sapendo che il funzionamento degli ecosistemi è una cosa complessa.

Analizzare sul campo i fatti ecologici non significa per nulla negare i fatti sociali e criminali che sono stati faticosamente accertati. Interpretare correttamente i dati sulla salute degli uomini e degli ecosistemi agricoli della Terra dei fuochi non significa minimamente sminuire, circoscrivere o relativizzare la gravità dei crimini commessi, come anche la necessità impellente di politiche pubbliche adeguate.

E’ evidente però che per uscirne fuori, per un progetto di ricostruzione della società e del suo territorio, non c’è bisogno di maledizioni bibliche, di un surplus di terrore.

Antonio di Gennaro, 4 luglio 2013

Terra dei fuochi, nuova puntata. L’Istituto Superiore di Sanità ha reso noti i dati, ripresi con clamore dai media, dell’aggiornamento dello studio epidemiologico “Sentieri”, sulle malattie tumorali in 55 comuni delle province di Napoli e Caserta. L’effetto era un po’ cercato, viste le modalità di publicizzazione, con un annuncio a sorpresa sul web, più da agenzia indipendente, free lance, che da istituto di riferimento nazionale. La delicatezza del tema avrebbe forse meritato un po’ più di attenzione, ma tant’è, in tempi di spending review è comprensibile che ogni ente abbia esigenze di visibilità. Ad ogni modo, le conclusioni cui lo studio giunge sono un pugno allo stomaco: nei 55 comuni presi in considerazione si registrerebbe un eccesso di mortalità e di ospedalizzazioni per diverse patologie tumorali, in qualche misura collegabili all’inquinamento da rifiuti.

Il nuovo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità andrà studiato con attenzione, ma alcune riflessioni possono essere fatte a caldo. A partire dalle conclusioni, che sono molto differenti, ad esempio, da quelle che Mario Fusco, l’epidemiologo che dirige il Registro Tumori dell’ASl Napoli 3, nel quale ricade più di un milione di abitanti della Terra dei Fuochi, ha illustrato nel recente convegno organizzato dalla task force Pandora lo scorso 26 giugno a Città della Scienza. I dati del registro tumori, che partono dal 1996, evidenziano come l’incidenza delle malattie tumorali nell’area, da che erano più basse, si stiano allineando alle medie nazionali. La mortalità per tumore invece, seppur in discesa, è più alta della media nazionale, che sta diminuendo ad una velocità più elevata. Questo scarto tra incidenza e mortalità chiama in causa la mancata prevenzione, le prestazioni carenti del sistema sanitario rispetto ad altre parti del paese. Ad ogni modo, per capire qualcosa, è necessaria un’analisi “microgeografica” dei dati, che si sta compiendo alla scala delle singole particelle censuarie, perché le medie comunali e territoriali non raccontano niente, anzi, forniscono informazioni fuorvianti.

E’ probabile che l’approccio impiegato dallo studio “Sentieri” sia diverso da quello del gruppo di lavoro diretto da Mario Fusco. Di sicuro, “Sentieri” si basa in prevalenza su dati di mortalità e ospedalizzazione. I dati di incidenza, il numero cioè di nuovi ammalati che si registrano annualmente per ogni 100.000 abitanti, che per ammissione degli stessi ricercatori dell’Istituto Superiore rappresentano alla fine il parametro rilevante, erano disponibili per soli 17 dei 55 comuni interessati dallo studio.

Certo, meglio sarebbe se il servizio sanitario nazionale parlasse con una voce sola. La sensazione, invece, è che ogni pezzo dell’amministrazione stia giocando una partita a sé, con i cittadini nella veste di disorientati spettatori. Modalità di comunicazione come quelle scelte dall’Istituto Superiore fanno salire il livello dell’emozione, non quello delle politiche pubbliche. Ma tanto ci spetta: siamo la carta sporca, la finestra rotta della nazione, tirare un sasso in più non costa proprio nulla.

L’articolo è stato pubblicato su Repubblica Napoli del 5 luglio 2014 con il titolo “Troppe voci disorientano i cittadini”

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